Tempo di lettura: 12 minuti

euroLa crisi iniziata negli Stati Uniti nel 2007-2008 ha colpito in pieno l’Unione europea a partire dal 2008, provocando serie perturbazioni nella zona euro a partire dal 2010.[1] Le banche dei paesi europei più forti sono all’origine del contagio passato dagli Stati Uniti all’Europa perché avevano investito in maniera massiccia nei prodotti finanziari strutturati. Detto questo, è importante spiegare come mai questa crisi colpisca con più durezza l’UE e in particolare la zona euro che non gli Stati Uniti.

 

Fra i 28 paesi dell’UE, 18 hanno una moneta comune, l’euro.[2] L’UE conta all’incirca 500 milioni di abitanti,[3]vale a dire quasi la metà della Cina, dell’Africa o dell’India, i due terzi dell’America Latina e il 50% più degli USA.
Tra i vari paesi dell’UE si constata una notevole disparità. La Germania, la Gran Bretagna, la Francia, l’Olanda, l’Italia, il Belgio e l’Austria costituiscono i più forti tra i paesi industrializzati dell’UE. 11 paesi provengono dall’Europa dell’Est (3 Repubbliche baltiche – Estonia, Lituania, Lettonia – Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania – che hanno fatto parte del blocco sovietico –, Slovenia e Croazia – che facevano parte della Yugoslavia). La Grecia, il Portogallo, l’Irlanda, la Spagna, Cipro subiscono in maniera molto forte le ripercussioni della crisi dell’eurozona.

 

Disparità salariale di cui approfittano le grandi imprese private

Le differenze salariali sono molto elevate: il salario minimo legale della Bulgaria (156 euro lorde mensili nel 2013) è 8-9 volte inferiore a quello di paesi come la Francia, il Belgio o l’Olanda.[4]Anche le disparità di salari all’interno di ciascun paese dell’UE possono essere molto elevate. In Germania, 7,5 milioni di lavoratori devono accontentarsi di un salario mensile di 400 euro, mentre di norma il salario mensile è superiore ai 1.200 euro (in Germania non esiste per legge un salario minimo).
Tale disparità consente alle grandi imprese europee, in particolare alle imprese industriali tedesche, di essere molto competitive, perché fanno realizzare una parte della loro produzione da operai/e di paesi quali la Bulgaria, la Romania o altri paesi dell’Europa centrale e dell’Est, poi riportano i pezzi per assemblarli e realizzare il prodotto finito in Germania. Infine, esse esportano all’interno dell’UE o verso il mercato mondiale avendo compresso al massimo i costi salariali. Il tutto senza pagare in seno all’UE tasse di import/export.

 

Alcune disparità rafforzate tra paesi

Il rifiuto dell’UE di sviluppare effettive politiche comuni per aiutare i nuovi membri a ridurre i loro svantaggi economici rispetto ai paesi europei più forti ha ampiamente contribuito a rafforzare le disparità strutturali che pregiudicano il processo di integrazione. I trattati europei sono stati concepiti al servizio delle grandi aziende private, che approfittano delle disparità tra le economie dell’Unione per accrescere i propri profitti e la loro competitività.
Il bilancio dell’Unione è minuscolo, rappresentando l’1% del PIL dell’UE, laddove un bilancio normale in un’economia di un paese industrializzato rappresenta il 45-50% o più del PIL (è il caso del bilancio federale degli Stati Uniti amministrato da Barak Obama o di quello della Francia). Per dare l’idea di quanto sia ridotto il bilancio gestito dalla Commissione europea basta dire che è paragonabile a quello del Belgio, che conta 10 milioni di abitanti, e cioè un cinquantesimo della popolazione dell’UE. Va aggiunto che la politica agricola comunitaria rappresenta circa il 50% del bilancio dell’UE.

 

La crisi non è stata provocata dalla concorrenza straniera

La crisi non è dovuta alla concorrenza della Cina, della Corea del Sud, del Brasile e dell’India o di altre economie di paesi in via di sviluppo.
Nel corso dell’ultimo decennio, la Germania (ma anche l’Olanda e l’Austria) si è lanciata in una politica neo-mercantilista: è riuscita ad aumentare le proprie esportazioni in seno all’UE e all’eurozona comprimendo i salari dei lavoratori tedeschi.[5]Ha quindi guadagnato competitività rispetto ai suoi partner, soprattutto quelli di paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo ed anche la Romania, la Bulgaria, l’Ungheria (che non fanno parte dell’Eurozona). Questi ultimi hanno visto crearsi o approfondirsi un deficit commerciale rispetto alla Germania e ad altri paesi del Centro.

 

L’euro come camicia di forza

Al momento della creazione dell’euro, la moneta tedesca è stata sottovalutata (su richiesta della Germania) mentre quelle dei paesi più deboli sono state sopravvalutate. Questo ha reso le esportazioni tedesche più competitive sul mercato degli altri paesi europei e i più deboli di questi sono stati quelli più colpiti (Grecia, Portogallo, Spagna, paesi dell’Europa centrale e dell’Est…).
Grosso modo, l’indebitamento dei paesi della periferia in seno all’UE è essenzialmente dovuto al comportamento del settore privato (le banche, le imprese di costruzione immobiliare, il resto dell’industria e del commercio). Incapaci di competere con le economie più forti, i settori industriali si sono indebitati con banche del Centro (Germania, Francia, Olanda, Belgio, Austria, Lussemburgo…) ma anche con agenti interni, essendosi l’economia di questi paesi largamente finanziarizzata dopo l’adozione dell’euro. Il consumo in questi paesi ha conosciuto un boom e, in alcuni di essi (la Spagna, ad esempio) si è sviluppata una bolla immobiliare che ha finito per esplodere. I rispettivi governi sono venuti in soccorso delle banche, e questo ha provocato un forte aumento del debito pubblico.
Ovviamente, i paesi facenti parte dell’eurozona non possono svalutare la loro moneta una volta adottato l’euro. Paesi come la Grecia, il Portogallo o la Spagna sono quindi con le spalle al muro per la loro appartenenza all’eurozona. Le autorità europee e il loro governo nazionale applicano perciò la cosiddetta svalutazione interna: impongono il ridimensionamento dei salari a gran vantaggio dei dirigenti della grandi imprese private. La svalutazione interna è quindi sinonimo di riduzione dei salari. La si utilizza per accrescere la competitività, ma è constatabile come sia ben poco efficace per recuperare la crescita economica, perché le politiche di austerità e di compressione dei salari si applicano in tutti i paesi. I proprietari delle imprese sono invece contenti perché da tempo intendevano ridurre radicalmente i salari. Da questo punto di vista, la crisi dell’eurozona, che ha assunto un carattere particolarmente acuto a partire dal 2010-2011, costituisce una fortuna insperata per i padroni. Il salario minimo legale è stato ridotto drasticamente in Grecia, in Irlanda e in altri paesi.

 

Mercato unico dei capitali e moneta unica

Mentre la crisi è nata negli Stati Uniti nel 2007, l’impatto sull’Unione europea è stato più violento che non sulle istituzioni politiche e monetarie statunitensi. In realtà, la crisi che scuote l’Eurozona non è una sorpresa, ma un risvolto dei due criteri che sorreggono quest’ultima: mercato unico dei capitali e moneta unica. In senso più ampio, è la conseguenza delle logiche che dominano l’integrazione europea: il primato assegnato agli interessi delle grandi imprese industriali e finanziarie private, l’estesa promozione degli interessi privati, la messa in concorrenza in seno allo spazio europeo di economie e produttori con forze assolutamente diseguali, l’intenzione di sottrarre ai servizi pubblici un numero crescente di settori d’intervento, l’introduzione della concorrenza fra i lavoratori che implica il rifiuto di unificare verso l’alto i sistemi di assistenza e previdenza sociali e le norme di garanzia per i lavoratori. Tutto ciò persegue un obiettivo preciso, quello di favorire la massima accumulazione di profitti privati, soprattutto mettendo a disposizione del Capitale una manodopera la più precaria e malleabile possibile.

 

Il monopolio del credito agli Stati è riservato alle banche private

A una spiegazione del genere si potrebbe replicare che questa logiche dominano altrettanto largamente l’economia statunitense. Va quindi tenuto conto anche di altri fattori: mentre le necessità creditizie dei governi degli altri paesi sviluppati, tra cui quello statunitense, possono essere soddisfatte dalla rispettiva Banca centrale, soprattutto tramite emissione di moneta, i paesi membri dell’Eurozona hanno rinunciato a tale possibilità. Per statuto, è vietato alla Banca centrale europea (BCE) il finanziamento diretto degli Stati. Inoltre, in virtù del Trattato di Lisbona, è formalmente vietata la solidarietà finanziaria tra gli Stati membri. In base all’articolo 125, gli Stati devono assumersi individualmente i loro impegni finanziari, senza che possano farsene carico né l’Unione né gli altri Stati.[6]L’articolo 101 del Trattato di Maastricht,[7]integralmente ripreso dal Trattato di Lisbona,[8]aggiunge: «È vietato alla BCE e alle banche centrali degli Stati membri […] di concedere crediti allo scoperto o qualunque altro tipo di credito alle istituzioni od organi della Comunità, alle amministrazioni centrali, alle autorità regionali, alle altre autorità pubbliche».
L’UE si pone dunque volontariamente al servizio dei mercati finanziari, poiché, in tempi normali, i governi dei paesi dell’Eurozona dipendono completamente dal settore privato per il loro finanziamento. Gli investitori istituzionali (banche, fondi pensione, assicurazioni) ed hedge funds si sono avventati nel 2010 sulla Grecia, l’anello debole della catena europea dell’indebitamento, prima di precipitarsi sull’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia. Muovendosi così, hanno realizzato succosi profitti perché hanno ottenuto da questi paesi una rilevante remunerazione in termini di tassi d’interesse versati dai poteri pubblici per poter rifinanziare i propri debiti. Fra questi investitori istituzionali, sono state le banche private (i cosiddetti zinzins) ad aver fatto maggiori profitti in quanto potevano finanziarsi direttamente presso la Banca centrale europea prendendo in prestito capitali al tasso d’interesse dell’1%,[9]mentre contemporaneamente prestavano a una scadenza di tre mesi alla Grecia a tassi dell’ordine del 4-5%. Scagliando i loro attacchi contro l’anello più debole, le banche ed altri istituti finanziari erano inoltre convinti che la Banca centrale europea e la Commissione europea dovessero in qualche modo venire in aiuto agli Stati vittime della speculazione prestando loro i capitali per poter portare a termine i rimborsi. E non si sono sbagliati. In collaborazione con il FMI, la Commissione europea si è piegata ed ha concesso tramite i Fondi europei di stabilità finanziaria (FESF) e i meccanismi europei di stabilità (MES) prestiti a taluni Stati membri dell’Eurozona (la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e Cipro) perché riuscissero prioritariamente a rimborsare le banche private dei più forti paesi dell’UE. Essa quindi non ha rispettato alla lettera l’articolo 125 del sopra citato Trattato di Lisbona, ma ne ha rispettato lo spirito neoliberista: infatti il FESF e il MES prendono in prestito sui mercati finanziari gli strumenti finanziari che poi prestano agli Stati. Per giunta, si richiedono condizioni draconiane: privatizzazioni, riduzioni dei salari e delle pensioni, licenziamenti nei servizi pubblici, tagli alle spese pubbliche in generale, di quelle sociali in particolare.
Un piccolo richiamo: mentre i regolamenti dell’UE non consentono che la BCE presti agli Stati dell’UE, la situazione è molto diversa negli Stati Uniti, dove la Federal Reserve presta mediamente 40 miliardi di dollari al mese all’amministrazione Obama acquistando buoni del Tesoro (significa 480 miliardi di dollari annui). Analogamente, nel Regno Unito, che non fa parte dell’eurozona, la Banca d’Inghilterra presta massicciamente al governo britannico. Le regole applicate nell’eurozona aggravano ulteriormente la crisi rispetto agli Stati Uniti e al Regno Unito.

 

Politiche che aggravano la crisi

Dal 2010, le politiche applicate dalla Commissione europea e dai governi nazionali non hanno fatto che aggravare la crisi e, questo, soprattutto nei paesi più deboli della zona euro. Comprimendo la domanda pubblica e quella privata, le molle della crescita economica si sono ridotte a niente o quasi.

La politica dei dirigenti europei non costituisce un insuccesso dal punto di vista dei padroni

I dirigenti europei dei paesi più forti e i proprietari delle grandi imprese si compiacciono per l’esistenza di una zona economica, commerciale e politica comune in cui le multinazionali europee e le economie del Centro della zona euro traggono profitto dalla sconfitta della Periferia per rafforzare la produttività delle imprese e segnare dei punti in fatto di competitività rispetto ai loro concorrenti statunitensi e cinesi. Il loro obiettivo, allo stadio attuale della crisi, non è quello di rilanciare la crescita e ridurre le asimmetrie tra le economie forti e quelle deboli dell’UE. Essi sono tra l’altro convinti che la sconfitta del Sud sia destinata a tradursi in occasioni di massicce privatizzazioni di imprese e beni pubblici a prezzi stracciati. L’intervento della Trojka e la complicità attiva dei governi della Periferia li aiutano. Il grande Capitale dei paesi della Periferia è favorevole a queste politiche perché conta di ottenere una parte della torta cui da tempo aspirava. Le privatizzazioni in Grecia e in Portogallo prefigurano quel che accadrà in Spagna e in Italia, dove i beni pubblici da acquisire sono ben più importanti, vista la dimensione delle due economie.
Pensare che la politica dei dirigenti europei costituisca un fallimento perché non ritorna lo sviluppo economico significa sbagliarsi di gran lunga sul criterio di analisi. Infatti, gli obiettivi perseguiti dalla direzione della BCE, dalla Commissione europea, dai governi delle più forti economie dell’UE, dalle direzioni delle banche e dalle altre grandi imprese private non sono né il rapido ritorno alla crescita né la riduzione delle asimmetrie in seno all’eurozona e all’UE per farne un insieme più coerente, dove tornerebbe la prosperità.
Non va soprattutto dimenticato un punto fondamentale: la capacità dei governanti, che si sono docilmente posti al servizio degli interessi delle grandi imprese private, di gestire una situazione di crisi, se non di caos, per muoversi nella direzione richiesta da queste stesse grandi imprese. Lo stretto legame tra i governanti e il grande Capitale non è neppure più dissimulato. Alla testa di svariati governi, collocati in importanti incarichi ministeriali e alla presidenza della BCE, si trovano uomini usciti direttamente dal mondo dell’alta finanza, a partire dalla banca d’affari Goldman Sachs. Certi personaggi politici di primo piano vengono ricompensati con un posto in una grande banca o in una grande impresa una volta compiuti i loro buoni uffici in favore del grande Capitale. Non è nuovo ma è più evidente e abituale che non durante gli ultimi cinquant’anni. Si può parlare di veri e propri vasi comunicanti e trasparenti.

 

Le conseguenze sociali della crisi

Quel che stanno vivendo i lavoratori, i pensionati e coloro che percepiscono assegni sociali della Grecia, del Portogallo, dell’Irlanda e della Spagna è stato imposto ai lavoratori dei paesi in via di sviluppo grazie alla crisi del debito degli anni 1980-1990. Durante gli anni Ottanta, l’offensiva ha preso di mira anche i lavoratori nordamericani a partire dalla presidenza di Roland Reagan, in Gran Bretagna sotto la sferza di Margaret Thatcher, la “Signora di ferro”, e con i suoi emuli nel Vecchio continente. Anche i lavoratori dell’ex-blocco dell’Est sono stati sottoposti durante gli anni Novanta alle brutali politiche imposte dai loro governanti e dal FMI. Poi, sicuramente in maniera meno brusca di quella che ha colpito i popoli del Terzo mondo (dai paesi più poveri alle economie cosiddette “emergenti), l’offensiva ha preso a bersaglio i lavoratori tedeschi a partire dal 2003-2005. Le conseguenze nefaste per una parte significativa della popolazione tedesca si fanno sentire ancora oggi, anche se i successi delle esportazioni tedesche[10]arginano il numero dei disoccupati e una parte della classe operaia non ne risente direttamente.
Nel corso del 2012-2013, la crisi si è aggravata in Grecia, in Irlanda, in Portogallo, in Spagna, per effetto delle politiche di brutale austerità applicate da governi complici delle richieste della Trojka. In Grecia, il calo accumulato dal PIL dall’inizio della crisi raggiunge il 25%. Il potere d’acquisto di una larga maggioranza della popolazione è sceso del 30-50%. Sono letteralmente esplose la disoccupazione e la povertà. Mentre nel marzo 2012 tutti i grandi mezzi di comunicazione di massa si sono allineati al discorso ufficiale che sosteneva che il debito si fosse ridotto della metà,[11]la realtà è tutt’altra: il debito pubblico greco, che costituiva il 130% del PIL nel 2009 e il 157% nel 2012 dopo il suo parziale annullamento, ha raggiunto nel 2013 un nuovo record, il 175%! Il saggio di disoccupazione, che era del 12,6% nel 2010, è salito al 27% nel 2013 (il 50% per i giovani sotto i 25 anni). In Portogallo, le misure d’austerità sono di violenza tale e la deregolamentazione economica è così grave che 1 milione di portoghesi hanno manifestato spontaneamente il 15 settembre 2012, una cifra che era stata raggiunta solo il 1° Maggio 1074 per festeggiare la vittoria della Rivoluzione dei garofani. Il fallimento della politica di austerità ha provocato una crisi di governo. In Irlanda, di cui i mezzi di comunicazione di massa parlano molto meno, la disoccupazione ha assunto enormi proporzioni, inducendo 182.900 giovani dai 15 ai 19 anni a lasciare il paese dopo l’esplosione della crisi nel 2008. Un terzo dei giovani che avevano un posto di lavoro prima della crisi si sono ritrovati disoccupati. Il salvataggio delle banche ha rappresentato finora più del 40% del PIL (circa 70 miliardi di euro su un PIL di 156 nel 2011). L’arretramento dell’attività economica ha raggiunto il 20% dal 2008. Il governo di Dublino ha riconfermato che avrebbe soppresso 37.500 posti di lavoro nel settore pubblico di qui al 2015. In Spagna, il saggio di disoccupazione raggiunge il 50% fra i giovani. Dall’inizio della crisi, 350.000 famiglie hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per impossibilità di pagare il debito ipotecario. Nel 2012, il numero di famiglie i cui membri sono tutti disoccupati è cresciuto di 300.000, arrivando a un totale di 1,7 milioni, vale a dire il 10% del totale delle famiglie spagnole. La situazione va continuamente degradandosi nei paesi dell’ex-blocco dell’Est membri dell’UE, a partire da quelli che hanno aderito all’eurozona.

 

Un’Europa dei popoli e della solidarietà internazionale

Soltanto poderose mobilitazioni popolari potranno venire a capo della strategia delle classi dominanti. È assolutamente imperativo per i movimenti popolari costruire una strategia continentale. Ovunque, il rimborso del debito pubblico è il pretesto invocato dai governi per giustificare una politica che attacca i diritti economici e sociali della schiacciante maggioranza della popolazione. Se i movimenti sociali e, fra questi, i sindacati vogliono affrontare in modo vincente questa devastante offensiva, bisogna prendere di petto il problema del debito pubblico per sottrarre al potere il suo argomento principale. L’annullamento della parte illegittima del debito pubblico, l’abbandono delle politiche di austerità, la massiccia tassazione del grande Capitale, l’esproprio delle banche per integrarle in un servizio pubblico di risparmio e credito, la riduzione dell’orario di lavoro, la fine delle privatizzazioni e il rafforzamento dei servizi pubblici sono misure essenziali di un programma alternativo alla gestione capitalistica della crisi.[12]
La loro concretizzazione può cominciare paese per paese, ma il processo non potrà fermarsi ai confini nazionali: ci vorrà una vera e propria Costituente dei popoli d’Europa per abrogare tutta una serie di trattati europei e far nascere una federazione in cui l’obiettivo principale sarà la garanzia dei diritti umani in tutte le loro dimensioni. Occorrerà al tempo stesso praticare una politica di rottura con il modello produttivista-consumista per rispettare la natura e i suoi limiti.
Nel corso di questo processo emergerà un’Europa dei popoli che risistemerà i rapporti con gli altri popoli del mondo, restituendo alle popolazioni degli altri continenti vittime dei secoli di saccheggio e di dominazione europea ciò che è dovuto loro.

[1]Questo testo nasce da una conferenza tenuta dall’autore il 31 ottobre 2013 presso la Facoltà di etnologia dell’Università di Port au Prince (Haiti) sul tema della crisi dell’euro. L’autore è grato a Michel Carles per aver preso appunti che lo hanno stimolato a stendere il presente articolo.
[2]L’eurozona è stata creata nel 1999 da 11 paesi: Germania, Austria, Belgio, Spagna, Finlandia, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, cui successivamente si sono uniti la Grecia, nel 2001, la Slovenia, nel 2007, Cipro e Malta nel 2008, la Slovacchia nel 2009, l’Estonia nel 2001 e si unirà la Lettonia il1° gennaio 2014.
[3]http://fr.wikipedia.org/wiki/D%C3%A9mographie_de_l%27Union_europ%C3%A9enne.
[4]Si veda in particolare http://www.inegalites.fr/spip.php?article702, contenente dati che purtroppo si fermano al 2011.
[5]Vedi Eric Toussaint, “La scure sulle conquiste sociali: l’esempio tedesco” (http://cadtm.org/IMG/pdf/06.pdf).
[6]Art. 125 del Trattato di Lisbona: «L’Unione non risponde degli impegni delle amministrazioni centrali, delle autorità regionali o locali, delle altre autorità pubbliche o di altri organismi o imprese pubbliche di uno Stato membro, né se lo assume a proprio carico, senza pregiudiziali reciproche garanzie per la realizzazione in comune di uno specifico progetto. Uno Stato membro non risponde degli impegni delle amministrazioni centrali, delle autorità regionali o locali, delle autorità pubbliche o di altri organismi o imprese pubbliche di un altro Stato membro, né lo prende a suo carico senza pregiudiziali garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di uno specifico progetto» (i corsivi sono dell’A.).
[7]Il Trattato istitutivo della Comunità europea.
[8]Articolo 123 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
[9]Dal maggio 2013, il tasso al quale la BCE presta alle banche è stato abbassato allo 0,5%. Occorre aggiungere che la BCE ha attenuato le sue richieste di qualità (rating) dei titoli portati dalla banche in garanzia per ottenere liquidità. La soglia minima di rating dei titoli ammessi dalla BCE è soppressa «fino a nuovo ordine»…
[10]La Germania ha conosciuto una crescita economica derivante dalle sue esportazioni mentre la maggior parte dei suoi partner dell’UE e, in particolare, la zona euro, risentono duramente la crisi. Visto che in tutta l’UE si assiste al calo della domanda delle famiglie, cui si aggiunge la riduzione della domanda pubblica, gli sbocchi per le esportazioni tedesche si riducono nettamente. L’effetto boomerang sull’economia tedesca è già in corso.
[11]Il CADTM ha denunciato fin dall’inizio l’intervento propagandistico della Trojka e del governo greco: cfr. “Il CADTM denuncia la campagna di disinformazione sul debito greco e il piano di salvataggio dei creditori privati” (http://cadtm.org/Le-CADTM-denonce-la-campagne-de, 10 marzo 2012); si veda inoltre Christina Laskaridis, “La Grecia ormai non ha rispettato le condizioni dei creditori; il loro timore è che sia la Grecia ad imporre loro le proprie” (http://cadtm.org/La-Grece-a-deja-fait-defaut-aux , 31 maggio 2012).
[12]Per lo sviluppo di queste proposte cfr. Damien Millet, Eric Toussaint, Europa, quale programma d’urgenza di fronte alla crisi? (10 giugno 2012). Si vedano inoltre: Thomas Coutrot, Patrick Saurin, Éric Toussaint, “Annullare il debito o tassare il Capitale: perché scegliere” (http://cadtm.org/Annuler-la-dette-ou-taxer-le in italiano Annullare il debito o tassare il capitale?); “Che cosa fare del debito e dell’euro?”(http://cadtm.org/Que-faire-de-la-dette-et-de-l-euro).

 

Traduzione a cura di Titti Pierini per il sito www.antoniomoscato.altervista.org