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veloDa parecchi anni la comunità musulmana è bersaglio di molte campagne chiaramente islamofobiche. Lo dimostrano il divieto di costruire minareti in Svizzera o anche le controversie già suscitate anche Francia sul velo nei luoghi pubblici. Molti gruppi che si dichiarano femministi si battono per proibirlo nell’«interesse»delle donne musulmane, che sarebbero plagiate o obbligate a portare pubblicamente questo simbolo di oppressione. Pensiamo che questa affermazioni siano fortemente misogine per almeno tre ragioni.

Per prima cosa, questo tipo di ragionamenti contrasta con il diritto delle donne ad autodeterminarsi nelle loro scelte individuali e collettive. È questa una rivendicazione centrale e di lunga data del movimento femminista. Strumentalizza inoltre il dominio del corpo delle donne per altri fini. Ognuna deve dunque essere libera di esporre sé stessa come lo desidera, così come di di scegliere il prorio orientamento sessuale.
Per finire queste opinioni dimenticano “la battaglia del velo” del 1958 in Algeria, quando l’occupazione francese inscenava cerimonie di svelamento per celebrare il genio “emancipatore” del colonialismo occidentale.
È in questo contesto che la situazione delle donne musulmane diventa oggetto di molti dibattiti in occasione di questo tipo di campagne elettorali, anche se alcune misure non le concernono direttamente o espressamente. Le due iniziative popolari del 22 settembre 2013 ne sono l’esempio perfetto. La prima è quella che proponeva di rendere obbligatorio il dialetto svizzero-tedesco nelle scuole elementari, lanciata dai giovani dell’Unione democratica di centro (UDC) nel canton Lucerna. Su molti manifesti figurava una donna velata che si rivolgeva al un bambino piccolo ed una scritta “Stop all’obbligo del buon tedesco!”; la seconda è quella denominata ufficialmente dai suoi promotori “Vietare la dissimulazione del viso nei luoghi pubblici” , approvata in Ticino su proposta del movimento ” Il Guastafeste” e sostenuta apertamente dalla Lega dei Ticinesi e dall’UDC. Queste due iniziative popolari si prestano perfettamente per comprendere l’islamofobia (quella che andrebbe intesa come forma di xenofobia e di razzismo contro le popolazioni arabe e musulmane) insita nel dibattito pubblico. Dietro un discorso apparentemente democratico e progressista a favore del diritto delle donne, si nascondono propositi molto misogini e contrari ai diritti che le donne hanno conquistato con lotte importanti. Dobbiamo ricordare che in Svizzera le donne hanno ottenuto il diritto di voto a livello federale solo nel 1971? E che l’aborto è stato depenalizzato solo nel 2002? Svelando cosa sta dietro questi propositi islamofobi possiamo comprendere la posta in gioco per tutte le donne e lottare contro ogni tipo di regressione dello statuto dei loro diritti nella società.

Queste campagne pretendono di difendere un'”identità svizzera” ancorata in una serie di miti che l’accompagnano, dal giuramento del Grütli a Guglielmo Tell, senza dimenticare le campagne mediatiche per la festa della lotta svizzera! In pratica, questa identità è promossa sotto forma di un’assimilazione forzata di settori extra-europei dell’immigrazione, basati sulla negazione dell'”altro” .
L’appartenenza ad una comunità “svizzera” immaginaria e cristiana – più istituzionale -, non è innocente: permette di mascherare i rapporti sociali di classe, di sesso, di razza, ecc., che si manifestano nella realtà sociale sotto forma di disoccupazione, di povertà, di sfruttamento, ecc. Non occorre sottolineare che le donne e le immigrate li subiscono maggiormente. L’ “identità svizzera” delle donne si costruisce all’occorrenza, con la “negazione” di un’ identità altra: quella donna cosiddetta “musulmana” – sottintesa tendenzialmente come islamista – facile da identificare, che ognuno/a può riconoscere a vista per il fatto che porta il velo e non parla dialetto svizzero-tedesco.
Occorre invece interrogarsi sul doppio ruolo della destra conservatrice. Pretende di difendere la democrazia e l’emancipazione della donna quando, mutatis mutandis, si batte oggi contro il diritto all’aborto per tutte le donne residenti in Svizzera con il lancio di due iniziative popolari. La prima, chiamata “Il finanziamento dell’aborto è una questione privata” che propone di togliere l’interruzione della gravidanza dalle prestazioni rimborsate dalle Legge federale sull’assicurazione malattia (LAMAL). La seconda, denominata “Proteggere la vita per porre rimedio alla perdita di miliardi”, si contrappone al diritto all’aborto, al diritto di scegliere le modalità per “terminare la propria vita” e alla ricerca controllata sulle cellule staminali, pretendendo di realizzare dei risparmi – a scapito delle donne, delle donne salariate e di quelle con “mezzi finanziari” ridotti.
Ritornare agli aborti clandestini sarebbe sicuramente deleterio per queste donne, perché queste pratiche vengono fatte senza protezione medica. E’ quindi importante che le donne si uniscano per questa prima battaglia, per non dover lottare anche contro la futura negazione di altri diritti.
A questo punto, paradossalmente ma non troppo ci si potrebbe chiedere: ci sarà prossimamente una nuova iniziativa popolare per sopprimere il diritto di voto delle donne?
Evidentemente non abbandoneremo la lotta delle donne nei vari paesi – dall’Iran all’Arabia saudita, passando per l’Afganistan – per i loro diritti elementari, tra i molti anche il rifiuto di portare un abbigliamento imposto dai poteri tecnocratici e autoritari, abbigliamenti che possono simbolizzare forme molteplici d’oppressione e di sfruttamento.