Quando si parla di deindustrializzazione, non si deve incorrere nell’errore di pensare che sia solo per effetto di chiusura di industrie che insistono sul territorio, dato che è solo la parte visibile di una crisi violenta come quella che sta desertificando i territori, che in tutta Italia avanza a passo sostenuto (vedi Torino, il nord est, ecc.).
La desertificazione diviene più evidente quando non si fanno nuovi investimenti e, a quanto pare, nel Paese non ci sono investimenti che potrebbero mantenere un certo livello di industrializzazione. C’è chi risolverebbe il problema con il turismo, pia illusione di una certa area di ambientalisti. Insomma, vorrebbero trasformare l’Italia come Tahiti (178.133 abitanti), con un gran flusso di turismo ma, non a caso, uno dei paesi più poveri del mondo. Turismo, si ma in una nazione con una solida produzione industriale. Magari programmando quello che serve e non nel marasma capitalista. Certamente, non inquinante ma di cui non si può fare a meno.
Ora, sappiamo bene il dramma dell’occupazione in tutta Europa, in Italia e a Taranto.
Le cosiddette aziende pulite, a Taranto, stanno per chiudere: la Vestas, pale eoliche; la Marcegaglia, pannelli solari (ma che, guarda caso, mantiene sul territorio l’inceneritore di rifiuti). A queste vanno aggiunte le ditte dell’appalto che tutto compreso dovrebbero aggirarsi intorno a un migliaio di lavoratrici e lavoratori. Queste sono industrie che avrebbero potuto rappresentare un primo impulso per un’economia che nel tempo avrebbe potuto rimpiazzare quella siderurgica, la quale com’è risaputo, se non cambierà radicalmente il ciclo produttivo chiuderà a breve medio termine (stimato sui 15/25 anni, che sommati ai cinquanta già cumulati è la vita media degli stabilimenti siderurgici), fatte salve crisi di mercato sempre più frequenti nelle società globalizzate. Nonostante l’apologia che si fa sulle energie rinnovabili, queste sono molto contestate, soprattutto per l’aggressione al paesaggio e alla cementificazione (le pale eoliche) che rendono sempre più precaria la tenuta idrogeologica; l’altra produzione è la costruzione di pannelli solari che , con la politica di grandi concentrazioni di pannelli, sottrae terreni agricoli oltre al problema dello smaltimento una volta esaurita la loro funzione.
Ancora oggi, a Taranto si rimpiange la chiusura della Belleli, nota industria che produceva piattaforme petrolifere. Tanti ambientalisti nostrani tessono le lodi di quella “fabbrica che non inquinava”, dimenticando che quelle piattaforme andavano a trivellare e a inquinare in varie parti del mondo oltre che in Italia (vedi richieste di sondaggi, da parte di industrie petrolifere, sia al largo delle coste salentine che dello Jonio).
Nell’ultima manifestazione tenutasi a Taranto, per sostenere la riapertura dell’aeroporto di Grottaglie (grosso comune alle porte del capoluogo), promossa da 25 organizzazioni, che andavano dalla Confcommercio al Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti (non mancavano associazioni ambientaliste), fallita miseramente, si gridava per far diventare il porto di Taranto, un porto che accolga le grandi navi da turismo (ricordiamo che in altre parti d’Italia le stesse vengono contestate duramente dalla popolazione) e dimenticando che per fare questa trasformazione servirebbe un grande dragaggio dei fondali, sapendo che nella parte dove è presente il porto i fondali sono ricolmi di metalli pesanti, minerali, diossina e porcherie varie.
Il dragaggio comporterebbe sollevare tutti quei materiali e, quindi, rendere impraticabile quel tratto di mare. Più volte i pescatori si sono opposti a questa eventualità. Certi ambientalisti farebbero bene a rivedere le loro posizioni sulle industrie e sulla necessità che queste rispettino il territorio in cui sono impiantate. Non solo. Dovrebbero anche stare attenti a dire che le industrie, quelle che oggi inquinano devono chiudere e di non interessarsi dove i padroni vogliono delocalizzarle, “basta che vadano via dal nostro territorio”.
Bisogna tenere conto che spostano i loro capitali in territori sottosviluppati e che (come fu per varie zone del sud negli anni 50/60, con la politica dei grandi concentramenti industriali), porterebbero le produzioni che inquinano nei paesi sottosviluppati, senza controllo e con salari molto più vantaggiosi di quelli italiani, europei o statunitensi.
Per questo la lotta per industrie con tecnologie avanzate, che non devono inquinare, deve diventare un obiettivo che dobbiamo perseguire.
Per questo in questa fase è importante lanciare la parola d’ordine della occupazione e gestione dei lavoratori delle fabbriche che vogliono chiudere.
Non dobbiamo avere timore di agitare la possibilità di requisire quelle aziende e nazionalizzarle.
Le mezze misure non servono e bisognerà lottare con tutte le nostre forze per riconquistare diritti, lavoro e salute.
Partendo dal presupposto che “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso!”
* tratto da http://anticapitalista.org