È dunque successo che Nelson Mandela abbia ceduto all’inevitabile (la morte) e che venga sepolto, come qualsiasi mortale. Giustamente, riceve gli elogi per il suo talento carismatico nel levarsi al di sopra dei pregiudizi della sua epoca. Si contraddistingue come la più celebre vittima dell’ex regime dell’apartheid.
Come colui che, nonostante 27 anni di carcere, non ha mai cercato di vendicarsi dei suoi oppressori, ma ha piuttosto guidato un processo storico di riconciliazione, che ha trasformato il Sud Africa in una democrazia relativamente pacifica e non razziale.
Per molti, specie in tempi come questi di politici mediocri ossessionati da problemi meschini, Mandela costituisce il simbolo di qualcosa di profondo: la volontà personale di dedicare la propria esistenza a una grande e buona causa. È riuscito a simboleggiare l’aspirazione della specie umana a levarsi contro la repressione e l’ingiustizia e a creare un mondo più libero ed egualitario.
Accanto a questi accenni all’impegno di Mandela per la causa dell’opposizione all’apartheid, mentre molti canali diffondono la registrazione del tribunale degli inizi degli anni ’60 in cui dichiarò che l’uguaglianza razziale era l’ideale «per il quale sono pronto a morire», di Mandela si discute anche come capro espiatorio: la vittima erede del mondo, in specifico quello sudafricano, che ha evitato un bagno di sangue e tracciato un nuovo sentiero morale basato sulla riconciliazione e il compromesso.
A un determinato livello, è abbastanza legittimo descrivere Mandela come una vittima dell’apartheid. Come si vedrà più avanti, tutti i Neri che vivevano in Sud Africa nella fase del dopoguerra erano vittime di pregiudizi razziali. Ma la condizione di vittima, soffrire per l’oppressione, non è la stessa cosa che resistere consapevolmente alla propria oppressione. Per questo, ciò che è indispensabile non è la posizione morale che accompagna la condizione di vittima, cha va insieme all’accettazione della propria sorte, ma sono piuttosto le idee e le politiche suscettibili di ispirare e mobilitare i propri compagni oppressi per cambiare il proprio destino. Dobbiamo a Mandela la valutazione delle sue qualità di politico e cosa gli altri hanno fatto di lui.
Karl Marx, riflettendo sulle potenzialità della specie umana di forgiare la propria storia, faceva l’ormai celebre osservazione secondo cui sono gli esseri umani a fare la loro storia, però non in circostanze dipendenti dalla loro scelta. Niente meglio di questo sintetizza la vicenda politica di Nelson Mandela. Vale la pena di iniziare con un breve cenno alle condizioni nella quali si è trovato il giovane Mandela agli inizi degli anni ’50, per capire le circostanze che ne hanno plasmato le scelte politiche e la carriera.
Apartheid e condizione di vittima
Un’interpretazione diffusa dell’apartheid vuole si tratti di un sistema irrazionale di discriminazione razziale introdotto dall’Afrikaner Nationalist Party, giunto al potere nel 1948. In realtà, l’apartheid non era irrazionale. Si trattava della risposta razionalissima alle condizioni che si trovò di fronte all’epoca lo stesso National Party.
Fino alla Seconda Guerra mondiale, il Sud Africa era una colonia inglese. L’influenza britannica limitava lo sviluppo dell’economia del Sud Africa, incentrandola sulla produzione di beni di cui avevano bisogno gli inglesi: oro, diamanti e altre materie prime. Andava bene per gli inglesi, mentre cozzava con le aspirazioni dell’emergente classe capitalista indigena sudafricana. Il governo del National Party, eletto nel 1948, era fortemente influenzato dalla concezione indipendentiste degli Afrikaner, i discendenti dei primi coloni olandesi. Era impegnato a promuovere lo sviluppo autonomo dell’economia sudafricana, sotto la direzione di imprenditori locali. Mezzo secolo prima, vecchi tentativi di strappare agli inglesi il controllo sull’oro e i diamanti avevano portato alla guerra degli inglesi contro i boeri (1899-1902), quando i britannici invasero le allora indipendenti repubbliche boere del Transvaal e del libero Stato d’Orange; ma ormai, nel periodo del dopoguerra, i nazionalisti afrikaner erano al potere.
I capitalisti bianchi indigeni del Sud Africa cominciarono a creare le condizioni per cui una forza lavoro ben controllata potesse produrre ricchezze a una scala che consentisse al Sud Africa di competere sul mercato mondiale. Essi ereditarono dall’amministrazione inglese una serie di istituzioni razziste. E compresero appieno i vantaggi del quadro esistente di discriminazione razziale per razionalizzare l’economia e realizzare le loro ambizioni capitalistiche. Un elevato saggio di sfruttamento aveva per giunta il vantaggio di attrarre i più che indispensabili capitali stranieri.
È questo che ha dato vita all’apartheid, alla subordinazione di tutti gli aspetti della vita dei Neri a una regolamentazione rigida e discriminatoria. Nel 1952, una nuova legge estese il controllo sui movimenti della popolazione, rendendo obbligatorio per tutti i Neri al di sopra dei 16 anni portare con sé il “Reference Book” – il famigerato “lascia-passare”. Un’altra legge dichiarò che tutti i Neri non avevano il diritto di vivere nelle zone urbane. Le “homelands” a base tribale per i Neri – che occupavano meno del 13% del territorio complessivo del Sud Africa ed erano situate in zone aride e remote (fissate agli inizi dal colonialismo inglese) – diventavano ormai gli unici posti in cui i Neri avessero diritto a vivere e possedere un po’ di terra. Lo “sviluppo separato” trovava radici nella legge.
L’apartheid riduceva la vita dei Neri a un incubo totalitario. Le homelands trasformarono ogni Nero sudafricano in un lavoratore migrante. La rigida applicazione delle leggi sui lascia-passare e di altre famigerate leggi, come quella sulla “Soppressione del Comunismo” (Suppression of Communism Act), crearono uno Stato di terrore per tutti i Neri durante i primi anni dell’apartheid. Il lavoro migrante, basato su un’applicazione più efficace e brutale del vecchio sistema inglese dei labour bureaux, garantiva un flusso continuo dalle homelands e townships nere verso le miniere, le fabbriche e le fattorie appartenenti a Bianchi. I lavoratori Neri erano condotti a mo’ di greggi in recinti o tuguri nelle townships, privi di ogni forma di espressione o di controllo sulle loro misere esistenze.
Ulteriori legislazioni decretarono i termini dello sfruttamento dei Neri nell’industria. Il governo approvò nel 1953 il Native Labour (Settlement of Disputes) Act, una legge che dichiarava l’illegalità di qualsiasi sciopero fatto da lavoratori Neri. I Neri erano già stati esclusi dalla condizione di “impiegati” ed era stata loro vietata qualsiasi appartenenza sindacale dall’Industrial Conciliation Act degli anni ’20, sotto amministrazione inglese. Il nuovo regime modificò questa legge nel corso degli anni ’50 per istituzionalizzare più a fondo i divieti di lavoro, attribuendo al ministro del Lavoro il potere di riservare determinati posti di lavoro ai Bianchi.
Le discriminazioni non si limitavano al posto di lavoro. Per applicare rigorosamente l’apartheid nelle zone urbane, le autorità furono costrette a regolamentare tutte le forme di contatto tra Sud Africa nero e bianco. Introdussero infatti il cosiddetto regolamento dell'”apartheid mesquin”: restrizione dell’accesso del Neri ai ristoranti, alle spiagge, agli alberghi e ai trasporti pubblici, come pure ai matrimoni interetnici. Lungi dall’essere irrazionale, tuttavia, questa categoria di apartheid svolse un ruolo centrale, permettendo di forgiare un’alleanza tra il regime sudafricano e le classi lavoratrici bianche.
Mentre avvantaggiava la classe capitalista indigena sudafricana, il sistema dell’apartheid assegnava importanti privilegi ai lavoratori bianchi, facendo sì che venissero integrati appieno nel sistema di dominazione razzista. L’estensione della segregazione a ogni posto di lavoro, a ogni chiesa, a ogni quartiere e a ogni abitazione e camera da letto del paese garantiva che tutti i Bianchi, indipendentemente dalla loro classe sociale, trovassero un proprio tornaconto nel sistema. Gli impieghi riservati ai Bianchi e le restrizioni al matrimonio radicavano nella legge il principio della superiorità razziale, rafforzando l’alleanza dei lavoratori bianchi con la classe capitalista:
Il punto essenziale da cogliere rispetto all’apartheid è che, lungi dall’essere irrazionale, nel modo di cui oggi se ne discute, era la condizione stessa che consentì al capitalismo sudafricano di crescere considerevolmente tra la fine degli anni ’50 e nel corso di tutto il decennio successivo.
L’oppressione delle masse nere creò le condizioni per cui il capitalismo sudafricano potesse trarre vantaggi dall’espansione economica mondiale del dopoguerra. Lo Stato forniva all’industria un lavoro nero a buon mercato e incoraggiava la produzione nazionale tramite un ampio complesso di sussidi e restrizioni alle importazioni. Tra il 1948 e il 1960, il Pil effettivo (certo senza tener conto della “felicità”!) crebbe del 67%. Il Sud Africa divenne un paradiso per gli investitori. Il tasso di remunerazione del capitale investito in quel periodo arrivava al 19,9%; i profitti industriali raggiungevano una media del 24,6%. La repressione dei lavoratori neri e l’afflusso di capitali trasformarono l’economia. Il saggio di meccanizzazione aumentò rapidamente e la struttura economica sudafricana cominciò a somigliare a quella dei paesi occidentali capitalisticamente avanzati. A partire dal 1969, la percentuale del Pil rappresentata dai gruppi industriali era del 23% (24% per la Germania, 25% per la Francia e 20% per l’Italia). L’apartheid non era, quindi, un ostacolo allo sviluppo capitalistico. Al contrario: era il meccanismo stesso che ne consentì l’espansione.
È in queste condizioni che Nelson Mandela e altri furono costretti a fare la storia. È il contesto entro cui dobbiamo prendere in esame le politiche di Mandela e valutarne l’eredità politica.
Oppressione, resistenza e nazionalismo africano
È importante essere chiari sul fatto che l’apartheid non era soltanto un sistema di sfruttamento economico, ma un regime che richiedeva una sistematica coercizione per garantire la propria sussistenza. Poteva fornire sovrapprofitti, ma non poteva impedire di suscitare la resistenza delle masse nere, il cui supersfruttamento era il segreto dei grandi vantaggi riservati alla minoranza bianca. La minaccia costante della resistenza nera costrinse il regime a dispiegare il suo apparato repressivo. La repressione e il terrore erano parte integrante dell’apartheid.
Per chiunque non abbia vissuto l’apartheid, è pressoché impossibile rendersi conto di quale fosse la vita dei Neri. Era una cosa brutale, umiliante e disumana. La paura dei Bianchi, la loro arroganza, la loro opulenza, il consumo ostentato e il tenore di vita superiore a quello che normalmente conoscevano gli appartenenti alle classi lavoratrici di altri paesi, insieme alla loro totale indifferenza per le sorti dei propri simili, rafforzavano le quotidiane ingiustizie e la perdita di dignità subita dalla maggioranza del popolo sudafricano. Si considerava normale che bambini bianchi chiamassero i loro servi neri con l’appellativo di “ragazzo”, o “ragazza”. Quei domestici dovevano ripulire le “porcherie” dei bambini bianchi, mentre i loro stessi figli erano lasciati in custodia ai nonni anziani che vivevano in angoli remoti in campagna, che difficilmente potevano consentire un’esistenza umana. Quei bambini bianchi ben nutriti, bene educati e ben vestiti venivano chiamati “signora” o “Baas” (“padrone”, in afrikaner) dai loro servi adulti. Essere Neri nel Sud Africa dell’apartheid era qualcosa di molto simile alla condizione di schiavo, cosa che equivaleva alla negazione dei più fondamentali diritti umani.
In un modo che non può sorprendere, quel sistema alimentava resistenze. Le lotte di massa contro l’apartheid scoppiarono fin dai primi giorni del nuovo sistema. L’African National Congress (ANC), poi più tardi il Pan African Congress (PAC) – un gruppo più radicale, esclusivamente nazionalista nero – dirigevano movimenti di massa di disobbedienza civile. Quei movimenti perseguivano i propri obiettivi tramite azioni non-violente, cercando di realizzarli con metodi legali.
Lo Stato rispose con la forza. Quando 8.500 neri si consegnarono spontaneamente per essere arrestati lanciando una sfida alle leggi sul “lascia-passare” del 1953, le autorità governative intervennero e stroncarono la campagna contro questa misura di limitazione e controllo degli spostamenti dei Neri. La risposta dello Stato a una continua opposizione passiva alle leggi dell’apartheid fu il lancio di una campagna terroristica, culminante nel massacro di 67 manifestanti disarmati a Sharpeville, nel 1960. Non andava fatta alcuna concessione alle aspirazioni democratiche della maggioranza nera. In seguito al massacro di Sharpeville, l’ANC e il PAC vennero dichiarati fuori legge e i dirigenti nazionalisti neri, incluso Mandela, furono imprigionati.
Il brutale schiacciamento della resistenza nera in quella fase rifletteva una cruda realtà: il fatto che il nazionalismo nero, anche quello moderato, semplicemente non poteva adeguarsi alle condizioni in cui il nazionalismo afrikaner svolgeva il ruolo storico di sviluppare il capitalismo indigeno. Il tragico accidente storico del Sud Africa sta nel fatto che il successo del nazionalismo afrikaner significava che quello africano del tipo proposto da Mandela e dall’ANC non poteva adeguarsi a nessun livello. Così, anche se numerosi nazionalisti africani erano favorevoli all’economia capitalista di mercato come gli Afrikaner, non potevano inserirsi nel sistema: il sistema era sin troppo dipendente dal supersfruttamento dei Neri e dall’istituzionalizzazione della superiorità razziale bianca che l’accompagnava in tutti gli ambiti della vita privata e pubblica.
Questo comportava conseguenze disastrose per l’esiguo ceto medio nero emergente: le sue rivendicazioni – in realtà piuttosto moderate – di pari partecipazione elaborate da Mandela e dall’ANC non arrivavano ad orecchi che restavano sordi. Come élite colta, essi divennero inevitabilmente la voce della maggioranza nera, il che significa che le loro concezioni misurate, favorevoli al capitalismo, finirono per dominare la politica nazionalista nera. L’intransigenza del regime dell’apartheid, anche di fronte a questi nazionalisti moderati, ebbe uno strano effetto. Costrinse Mandela e l’ANC alla ricerca di alternative più radicali, a strumenti di espressione più radicali, che alla fine li portarono a stabilire un’alleanza con il Partito comunista sudafricano. Questo cambiamento chiave va colto, per spiegare appieno le politiche e l’eredità di Mandela.
La moderazione della lotta contro l’apartheid
Mandela è sempre stato un politico molto moderato, se non conservatore. Nato nel 1918, figlio maggiore della famiglia reale del Transkei, educato alla rispettabilità, con il senso dello status sociale e dei privilegi, Mandela finì per avere la formazione di avvocato e divenne un esponente del ristretto ceto medio nero emergente durante gli anni ’40.
Fuggito da casa per evitare un matrimonio tradizionalmente combinato, creò uno studio di avvocati a Johannesburg. Questo lo portò a diretto contatto con l’inferno vivente della gente nera normale quando si batteva per ottenere un minimo di giustizia. Tuttavia, come molti dei suoi compagni delle professioni liberali di allora, provò sempre più la frustrazione per l’estrema moderazione e passività della vecchia guardia dell’ANC, che era stata fondato nel 1912 e che per anni aveva presentato petizioni alla Corona britannica in favore di trasformazioni, mentre la discriminazione razziale diventava sempre più istituzionale nel Sud Africa coloniale.
A partire dal 1944, Mandela e alcuni “giovani leoni” – il nome assegnato ai membri più giovani delle professioni liberali del ceto medio che entravano nell’ANC – fondarono la Congress Youth League, che avrebbe alla fine radicalizzato l’ANC, portandolo sulla via di un’opposizione di massa, prima di finire fuori legge dopo il massacro di Sharpeville. Il fatto che la Lega avesse meno di 200 membri fondatori illustra la scarsa influenza sociale che questo piccolo gruppo aveva all’epoca in Sud Africa.
Eppure, nonostante Mandela e i Neri delle professioni liberali nuovamente delusi fossero visti come radicali in opposizione alla vecchia guardia dell’ANC, gli scritti di Mandela di quel periodo, nonché di fatto la maggior parte della sua difesa al momento dei numerosi processi che subì prima di essere imprigionato a vita, mettono bene in evidenza quanto la sua politica fosse di fatto conservatrice e filocapitalista.
Così, ad esempio, al momento del processo di Rivonia [che si svolse tra l’ottobre del 1963 e il giugno del 1964 e in cui Mandela ed altri dirigenti furono giudicati per 221 azioni di sabotaggio e furono alla fine condannati al carcere a vita], Mandela si dilunga a spiegare che la Freedom Charter [la dichiarazione di principi adottata nel 1955 dall’ANC e da altre forze politiche che costituivano il Congress of Alliance e che stabiliva le linee direttrici della coalizione anti-apartheid], il principale documento adottato dall’ANC, non era «in alcun modo un programma per uno Stato socialista».
Il suo appello alla redistribuzione delle terre e non alla loro nazionalizzazione era giustificato in base all’accettazione dell’esigenza di una «economia basata sull’impresa privata». Per Mandela, «la realizzazione della Freedom Charter dischiuderà nuovi campi per la popolazione africana di tutte le classi, inclusi i ceti medi». Questa concezione, spiegava, corrispondeva in effetti alla «vecchia politica dell’Afrikaner Nationalist Party che, per molti anni, conteneva nel suo programma la rivendicazione della nazionalizzazione delle miniere d’oro, che all’epoca erano controllate dal capitale straniero».
Per rendere ancora più chiare le cose, Mandela dichiarò che «l’ANC non è mai stato, in nessun momento della sua storia, fautore di un cambiamento rivoluzionario della struttura economica del paese né ha mai condannato, a mia memoria, la società capitalista». Mandela era addirittura fautore di una qualche forma di franchigia, al posto di un governo nero maggioritario, come modo per placare le inquietudini dei Bianchi di fronte alle aspirazioni politiche dell’ANC all’epoca.
Come forza sociale insignificante, distanti dai poveri e dalle classi lavoratrici nere, Mandela e l’ANC avevano ben poche possibilità di far nascere una qualche pressione politica che potesse approdare a un cambiamento. Avevano bisogno della maggioranza nera; dovevano trovare il modo di mobilitare le masse nere per fare agitazione e premere in favore di un cambiamento politico. Per ottenere questo, non potevano limitarsi a proiettare le proprie aspirazioni politiche, anguste e pro-mercato, sui Neri poveri, composti prevalentemente da lavoratori salariati urbanizzati, i quali avrebbero provato scarso entusiasmo per una campagna il cui scopo fondamentale fosse il miglioramento della sorte dei membri neri delle professioni liberali all’interno del sistema capitalistico sudafricano. È il motivo per cui si orientarono verso il Partito Comunista del Sud Africa (PCAS).
Il PCAS era in grado di fornire all’ANC i punti di riferimento radicali di cui c’era bisogno per mobilitare le masse nere. Stretto tra la propria debolezza come forza sociale e il regime dell’apartheid che non era disponibile ad alcun compromesso, l’ANC sentiva di non avere altra scelta che abbracciare lo stalinismo. L’associazione piuttosto opportunista di due forze divergenti avrà conseguenze enormi e disastrose per le masse nere. Attratte da un movimento che appariva radicale e che rappresentava i loro interessi, queste non capirono bene che il programma dell’ANC non aveva mai contemplato il rovesciamento del capitalismo, ma che si trattava piuttosto di una campagna pragmatica per cercare di fare in modo che il regime tornasse in sé e negoziasse una riforma dell’apartheid.
Solo con il crollo dell’Unione sovietica nel 1989 e il discredito finale del “socialismo africano” il clima politico del Sud Africa cambiò radicalmente. Ormai, in un mondo post-sovietico, con movimenti socialisti in preda allo smarrimento, il regime dell’apartheid poteva pensare di portare al governo l’ANC, dove le sue radici pro-mercato avrebbero potuto piantarsi lontano dalla sua scelta programmatica del socialismo di Stato. In sintesi, l’ANC utilizzò il PCAS [dai forti metodi staliniani] per collegarsi con le masse nere e fornire alle proprie rivendicazioni moderate una copertura di urgenza e di radicalismo; ma una volta invitata nei corridoi del potere, l’ANC avrebbe potuto ripudiare le sue connessioni e tornare alle sue radici esplicitamente favorevoli al mercato e riformiste. Si è trattato di un tradimento delle aspirazioni della maggioranza dei Neri del Sud Africa.
Non è dell’eredità di Mandela che si discuterà sulla stampa dominante in questi giorni. La tragedia sta in questo: nel fatto che, nel corso degli anni ’50 e ’60, Mandela e l’ANC fallirono nel capire le circostanze in cui si trovarono e con cosa si scontravano. Orientato da predisposizioni favorevoli al mercato, il loro programma politico era un programma pragmatico, destinato a mettere sotto pressione il regime per introdurre riforme che aprissero l’economia alle aspirazioni dei ceti medi neri.
Retrospettivamente, lo si può vedere ora come uno dei programmi politici più disperatamente ingenui della storia. La presunta “lotta armata” lanciata dall’ANC negli anni ’50 e ’60, il cui obiettivo era sabotare le infrastrutture perché il capitale straniero avesse paura di investire in Sud Africa, fu probabilmente una delle lotte armate peggio organizzate della storia dei movimenti di liberazione nazionale. In occasione del processo di Rivonia, infatti, Mandela difese le sue azioni suggerendo esplicitamente che quei gesti erano consapevolmente volti a contenere elementi più radicali nelle file dell’ANC, che pretendevano che si intraprendesse una vera e propria lotta armata. Niente sintetizza meglio il loro precario dilettantismo di quando l’intera direzione politica dell’ANC (raccolta tutta in una stessa casa per un lungo periodo) fu catturata in un raid poliziesco, che permise tra l’altro di impossessarsi di alcuni elenchi di membri dell’ANC, nonché del progetto di strutturare una nuova ala armata (“Unkhonto Sizwe”).
Mandela pagò il prezzo di quell’ingenuità e di quel dilettantismo. Come lo pagarono tanti altri che persero le loro vite. L’atteggiamento disinvolto spesso ostentato dalla direzione dell’ANC verso i propri seguaci esprime una desolante realtà: il fatto che questi fossero ampiamente considerati un esercito da scena, che la direzione dell’ANC poteva usare per realizzare i suoi esclusivi fini politici. Questo gettò un’ombra sulla politica sudafricana per decenni, sfociando nel fatto che l’ANC costretto all’esilio sia stato sorretto da appoggi esterni, mentre era piombato nel buio pressoché completo in Sud Africa [dove il silenzio organizzato dal governo era efficace]. Non si è mai dovuto rendere conto della sconfitta e dei fallimenti dell’ANC. Invece di questo, il mito di Mandela diventava più forte, soprattutto fuori dal Sud Africa, più lui rimaneva in prigione,.
Ma non sono stati né Mandela né l’ANC, in seguito, a reinserire nell’agenda del Sud Africa il problema della liberazione dei Neri. Piuttosto, è stata la classe lavoratrice nera – quella stessa classe lavoratrice che era stata mobilitata malvolentieri dall’ANC durante gli anni ’50 e ’60, prima di essere brutalmente repressa dal regime. È stata questa ad occupare il proscenio con l’emergere del movimento sindacale nero e l’aumentato attivismo nel corso degli anni ’70, diventando una forza con cui si dovevano fare i conti in Sud Africa negli anni ’70 e ’80. E, ancora una volta, Mandela fu invitato a svolgere un ruolo storico in circostanze che non aveva scelto, diventando questa volta una figura di punta della riforma per pacificare le masse radicalizzate. Rilasciato dalla prigione, Mandela, a fianco dell’ANC, abbandonò effettivamente la propria base di massa per avere un suo ruolo e supervisionare un cambiamento in Sud Africa che fu ben lontano dal governo della maggioranza nera: il principio democratico al centro della lotta storica contro l’apartheid.
Continua il cammino verso la libertà
La tragedia di Nelson Mandela sta nel fatto che negli anni ’50 e ’60 ha elaborato, nei fatti incarnato, un grosso colpo morale inferto all’idea di superiorità bianca, ancorché la sua politica lo abbia reso incapace di fare qualcosa di buono sulla base di questa concezione e di conquistare l’uguaglianza per tutti i Neri del Sud Africa. È difficile, ancora una volta, per chi non ha mai fatto l’esperienza dell’apartheid, capire l’impatto avuto da Mandela allorché ha elaborato la causa universale della libertà umana. Ha scosso il Sud Africa bianco e tutti coloro che credevano nella superiorità naturale della razza bianca. Non ha sfidato soltanto lo statu quo bianco e i suoi puntelli occidentali; ha sfidato qualcosa di ben più fondamentale: le fondamenta stesse del quadro morale della superiorità bianca, con le sue pretese di un ordine naturale in cui i bianchi hanno il diritto, di fatto il dovere, di civilizzare l’uomo nero. Ha impersonato tutto ciò che il regime bianco diceva che l’uomo nero non era in grado di fare. Peggio ancora per i dominanti dell’apartheid, ha instillato dignità nei cuori e nelle anime del Sud Africa nero. La sua espressione della condizione critica delle masse oppresse rivelava che i Neri erano perfettamente capaci e desiderosi di combattere, e di gioire, per la libertà, l’uguaglianza e la dignità umana.
Il suo appello, a suon di tromba, all’azione politica, incluso a impugnare le armi per combattere l’oppressione, consente che la capacità di fare la storia della maggioranza nera possa uscire dal buio, in cui non ripiomberà – finché, ironicamente e tragicamente, non sia ostacolata dallo stesso Mandela e dall’organizzazione che ha contribuito a costruire, l’ANC, quando furono impegnati, negli anni ’90, sul proscenio della riforma dell’apartheid, che lascia nella povertà interi settori di Neri del Sud Africa.
La tragedia del Sud Africa è che la politica di Mandela alla fine impedirà addirittura di fare della visione morale dell’uguaglianza razziale una realtà. Eppure, malgrado ciò, egli resta nei cuori del Sud Africa nero. Non perché la maggioranza nera sia stupida o perché sia stata ingannata. Hanno contratto un debito di gratitudine verso un uomo la cui espressione delle loro aspirazioni ha contribuito a intessere la lunga marcia verso la libertà. Ma il percorso verso la libertà non è completato. Il Sud Africa resta uno Stato profondamente diviso, in certo qual modo sempre uno Stato “d’apartheid”. Seppellire l’eredità politica di Nelson Mandela, il suo programma politico in precedenza angusto e la sua successiva canonizzazione come “riconciliatore”, potrebbe rivelarsi il primo passo che farà finalmente della libertà e dell’uguaglianza di tutti e tutte in Sud Africa una realtà.
*Articolo pubblicato il 6 dicembre dal sito inglese www.spiked-online.com. L’autore, che vive a Londra, scrive sull’attualità sudafricana. Ha pubblicato un’opera dal titolo South Africa: Black Blood on British Hands (1985). Riprendiamo questo articolo dalla versione francese di Alencontre (8 dicembre 2013), che nell’ottobre 2012 aveva pubblicato un altro degli suoi articoli del medesimo autore, sulla scia del massacro di Marikana: cfr. http://alencontre.org/afrique/afrique-du-sud/afrique-du-sud-les-permanences-dun-etat-dapartheid-et-la-rupture.hatml.
Traduzione di Titti Pierini