Difficile commentare l’esito della competizione interna al PD per la scelta del segretario. Il vincente aveva imposto le regole, assurdamente estendendo il diritto di voto a chiunque volesse decidere del futuro di un partito che poi non avrebbe votato; i perdenti le avevano accettate in pieno.
E come poteva essere altrimenti se Civati aveva cominciato la sua ascesa come compagno di merende del massimo rottamatore, e Cuperlo aveva puntato tutto sul farsi accreditare il carisma di essere stato l’ultimo segretario della FGCI (non come penserebbe un giovane di oggi la Federazione Gioco Calcio, ma la Federazione Giovanile Comunista…), dimenticando che aveva partecipato al suo seppellimento?
D’altra parte tutti e tre avevano adottato analoghe “tecniche di comunicazione” che non comunicavano niente e che sembravano fatte apposta per ispirare la satira di Crozza. E tutti e tre, a rimorchio del più gettonato da tutti i media, il bamboccione sindaco di Firenze, hanno cambiato più volte posizione su quasi tutti i problemi. L’unica certezza è che vorrebbero ringiovanire il partito, ma tutti e tre hanno beneficiato dell’appoggio di vecchie cariatidi, o magari dell’effetto controproducente degli attacchi di alcuni dei più repellenti residuati del passato, come Massimo D’Alema (di un cui commento sprezzante giustamente si è compiaciuto Civati, pensando che con un altro attacco lo avrebbe fatto stravincere).
Nessuna presa di posizione da parte loro su questioni concretissime, come le misure del governo, o le prime manifestazioni di contestazioni violente utilizzate dalla destra estrema, come quella “dei forconi”.
Difficile che potesse essere altrimenti: le primarie sono state importate in Italia come ridicolo surrogato della vita politica di un partito che non c’è più, che ha poche sedi e quasi sempre vuote, e che non si confronta su programmi e analisi, ma solo sulle persone e sui loro messaggi ridotti a dimensioni da twitter. Avevano un senso negli Stati Uniti, dove i due grandi partiti non sono mai esistiti come tali, e dove le consultazioni si riducono sempre a parate da circo, in cui pesano solo i soldi investiti. E lì più o meno funzionano, perché i presidenti hanno solo un ruolo fittizio: gli Stati Uniti non sarebbero sopravvissuti se davvero il potere decisionale reale fosse stato nelle mani di un presidente come Ford (che non sapeva fare contemporaneamente due operazioni “difficili” come scendere la scaletta di un aereo e masticare un Cheving Gum), o di un Bush che comandava la flotta guardando l’orizzonte con un binocolo con i tappi sulle lenti, o che leggeva un libro tenendolo al rovescio…
Difficile, dicevo, commentare l’esito della consultazione, screditata in primo luogo dalle grottesche dichiarazioni dei votanti all’uscita dai seggi, riportate da tutti i sovrabbondanti servizi televisivi, ma è possibile dire che questo ulteriore passo verso il vuoto renderà impraticabile qualsiasi collaborazione non solo con il PD (ma era facile escluderla da anni) ma anche con chi cerca di ristabilire, magari a livello locale, accordi “tattici” con questo strano “non partito”.
Ora non resta che aspettare le prossime mosse di questo esagitato prodotto di un’accorta operazione mediatica diventato segretario del PD. Non occorre rimproverargli il passato (l’origine democristiana e le molte civetterie e frequentazioni di Berlusconi), ci offrirà lui stesso frequentemente spunti continui per un rigetto motivato. Ma è inquietante vedere che quasi tre milioni di persone sono state attratte da un prodotto di nessun valore, solo perché reclamizzato come un detersivo o una scheda per il cellulare, senza un’ombra di programma politico, se non quello di cancellare per sempre ogni possibilità di ritorno al proporzionale, come se fosse il male assoluto. L’idea elementare di un sistema elettorale che rispetti le diverse opzioni politiche, e assicuri a ogni voto lo stesso peso, è stata catalogata come il massimo dei mali, dimenticando che la vituperata “Prima Repubblica” (non rimpianta dai comunisti rivoluzionari) in cui vigeva il proporzionale era pur sempre assai meno instabile della seconda e di quella attuale, difficilmente definibile. Inoltre l’altra promessa fatta da Renzi non sarà facile da mantenere, perché dipende da fattori oggettivi: il ritorno al bipolarismo. A parte che non è affatto un bene, e lo si è sperimentato sulla pelle degli italiani, come fare a realizzarlo in presenza di tre forze più o meno attestate sul 25% ciascuna?
Le tecniche per lanciare questo “prodotto” ricordano quelle utilizzate da Berlusconi per la sua “discesa in campo”, che fu preparata da un accorta campagna di “persuasione occulta” che gonfiava ed esaltava anche il tifo per la nazionale, ma c’è una differenza sostanziale. Silvio Berlusconi aveva un interesse personale concretissimo per la sua discesa in campo, ma aveva anche a disposizione uno stuolo di tecnici della manipolazione, oltre che un istinto e una capacità non comuni. La resistibile ascesa di Matteo Renzi si è invece basata soprattutto sulla sua ambizione particolare, ma ha utilizzato ampiamente un’ansia confusa di cambiamento largamente diffusa in un partito frustrato da decine di insuccessi considerati inspiegabili dai residui militanti. Ma la diagnosi fatta da Renzi sul male del PD è approssimativa e fuorviante, perché centrata soprattutto sul fattore generazionale, e sulla (peraltro innegabile) mediocrità dei grandi organizzatori di sconfitte annunciate, i Veltroni e i D’Alema, che però è un sottoprodotto della involuzione e della scarsa utilità del partito, ma non la causa prima. E con le aspirazioni dei militanti, in parte nostalgici delle passate glorie, dovranno fare i conti presto Renzi e i renziani.
* articolo apparso lunedì 9 dicembre 2013 sul sito di Sinistra Anticapitalita