Era stato, secondo Nelson Mandela, il «primo chiodo nella bara dell’apartheid». Steve Biko, morto martire il 12 settembre 1977 sotto le mani della polizia del regime razzista di Pretoria, riposa nel piccolo cimitero della sua città natale, King William’s Town, nella provincia del Capo-Orientale.
Ritratto gigante del militante antiapartheid Steve Biko sul muro di un edificio del Capo, fotografato nel marzo 2013. Il ricordo dell’uomo, morto in prigione nel 1977, che tutti giudicano eccezionale, è ancora vivo in Sudafrica.
Ci sono voluti venti anni perché nell’anniversario della sua morte, per il quale si erano riunite più di 20.000 persone, attorno al cimitero fosse eretto un muro per impedire alle vacche del posto di venire a brucare l’erba sulle tombe. Era stata lanciata l’idea di erigere anche un mausoleo. La famiglia aveva rifiutato, considerando che Steve Biko non avrebbe voluto che lo si estirpasse dal gruppo di compagni sepolti come lui nel modesto pezzo di terra.
Stephen Bantu Biko, detto Steve Biko, personalità immensa, bel ragazzo dalle idee folgoranti, è l’altra grande icona degli anni di lotta del Sudafrica (un paese dove non ne mancano). Come doveva essere, è morto puro, ed è morto troppo presto. Sulla sua pietra tombale, modesta tra le modeste in questo «giardino del ricordo» inaugurato da Mandela nel 1997, figurano un pugno alzato e queste parole: «Una Azania, una nazione» (Azania, termine dell’Antichità per designare una parte dell’Africa, è utilizzato come sinonimo di Sudafrica nei movimenti ispirati dalla Black Consciousness /Coscienza Nera).
«Un uomo sensibile alle arti, all’educazione, allo sviluppo»
Le idee di Steve Biko non hanno mai smesso di circolare in Sudafrica, oggi rilanciate da una fondazione attiva in molti settori che vanno dal sostegno alla lettura nelle township, [insediamento urbano riservato alla gente di colore, in prossimità di una grande città] all’organizzazione del dialogo tra gruppi, colori, religioni e ogni sorta di entità nel mondo, ma anche conducendo una riflessione approfondita su questioni legate al destino degli africani sul pianeta.
Per ospitare queste attività è stato costruito un edificio nuovo ad appena qualche centinaia di metri dalla sua casa, dove ancora troneggia il suo bell’ufficio con il suo sottomano in cuoio, dove Steve Biko ha lavorato ad alcuni suoi scritti. A King William’s Town, al primo piano della fondazione che porta il suo nome, visitatori percorrono il museo che ripercorre la vita del martire, mentre adolescenti del posto ripetono in xhosa [lingua di Biko e Mandela] uno spettacolo sul matrimonio e le sue delusioni. Le sue cliniche esistono e funzionano ancora, come il suo nido d’infanzia.
«Si pensa alla sua lotta politica, ma era anche un uomo che si interessava alle arti, all’educazione, allo sviluppo economico», ricorda Obenewa Amponsah, della fondazione.
Steve Biko è nato – il 18 dicembre 1946 – e ha vissuto una parte della sua vita a Ginsberg, la township di King William’s Town, che deve il suo nome al padrone della fabbrica di candele installata qui all’inizio del XX secolo. Il sig. Ginsberg non amava che i suoi dipendenti andassero troppo lontano quando non erano in fabbrica e aveva ottenuto che il comune facesse costruire le prime bicocche del quartiere diventato nel corso degli anni un focolaio di contestazione.
È in una di queste casupole che Steve Biko è cresciuto, dopo aver perso prematuramente il padre, al fianco della madre, di nome Alice, che lavorava come cuoca nel vicino ospedale, allevando i suoi figli a testa alta malgrado le avversità. Una modestia che non è mai venuta meno, ancora un esempio di questi eroi anonimi prodotti dal Sudafrica, questo paese impossibile, dove l’orribile e il sublime si mescolano senza avvisare.
Critico dei progressisti bianchi sostenitori della protesta prudente più che della contestazione rischiosa, che avrebbero lasciato sopravvivere l’apartheid se gli si fossero affidate le chiavi della lotta, Steve Biko elaborerà un pensiero, e insieme si impegnerà nella sua comunità e ispirerà una grande parte della gioventù nera del paese.
Percosso selvaggiamente, il volto già irriconoscibile
L’insurrezione di Soweto, nel 1976, quando il movimento antiapartheid sembrava segnare il passo, è alla base un movimento di giovani studenti che contestavano l’educazione scadente in afrikaans [la lingua dei bianchi], ma anche fortemente influenzati dalle idee della Black Consciousness. Sull’onda di questo, le township si infiammano e l’ANC (Congresso Nazionale Africano) riprende il controllo del movimento. Diciannove organizzazioni vengono proibite (oltre a quelle che lo erano già, come l’ANC), e a Steve Biko viene imposto l’obbligo di residenza a Ginsberg.
Il 18 agosto 1977 viene arrestato a un posto di blocco vicino a King William’s Town mentre circola su un veicolo. L’obbligo di residenza include la proibizione di stare in una camera con più di una persona alla volta, e ancor più di spostarsi nel paese. Steve Biko è trasferito a Port Elizabeth. Vi subirà tutta la violenza delle forze di sicurezza.
Forse i servizi di informazione sono stati informati della preparazione di un viaggio segreto che egli deve intraprendere (con l’atterraggio clandestino di un aereo) nel vicino Botswana per incontrarvi il capo dell’ANC in esilio, Oliver Tambo, e studiare le possibilità di collaborazione tra le organizzazioni.
Comunque sia, dopo essere stato selvaggiamente percosso, con il volto già irriconoscibile, Steve Biko è gettato nudo, senza dubbio incosciente, nel retro di una Land Rover e trasportato a 1200 chilometri dal luogo, a Pretoria, in un’altra prigione abietta, dove la sua morte è annunciata il 12 settembre.
La foto che Donald Woods, caporedattore del giornale locale, The Daily Dispatch, prende del suo cadavere nell’obitorio e pubblicata in prima pagina con la dicitura «salutiamo un eroe della nazione», farà il giro del mondo. Donald Woods sarà obbligato a fuggire dal Sudafrica. E Steve Biko diventa una delle grandi figure del movimento antiapartheid.
E se Steve Biko fosse vivo, il Sudafrica sarebbe diverso? «Se Steve Biko fosse ancora in vita, sarebbe morto», risponde Samdille Ziralala che fa visitare la sua piccola casa di Ginsberg. Il paradosso, come spesso in Sudafrica, è solo apparente. «Visto quel che è diventato l’ANC, che noi, noi chiamiamo “la mafia”, con il suo arricchimento e la sua corruzione, e sapendo che Steve Biko non sarebbe rimasto in silenzio davanti a questo, lo avrebbero fatto sparire.»
*Inviato speciale in Sudafrica del quotidiano francese Le Monde a King William’s Town, Capo Orientale
Traduzione a cura di Gigi Viglino