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centrale nucleareIn nome della crisi climatica, lo scienziato americano James Hansen si converte al nucleare: una soluzione falsa e pericolosa. Daniel Tanuro analizza le contraddizioni della proposta e nell’ultima parte dell’articolo propone una soluzione radicale.

Il celebre scienziato americano James Hansen si è convertito al nucleare.
Assieme a tre altri noti specialisti del riscaldamento globale, l’ex climatologo capo della NASA ha firmato una lettera aperta rivolta «Alle persone che influenzano la politica ambientale ma si oppongono all’energia nucleare». Il testo è stato pubblicato integralmente dal New York Times nel novembre scorso [1]. Eccone ampi estratti:
«In quanto scienziati del clima e dell’energia preoccupati per il cambiamento climatico, vi scriviamo per sollecitarvi a sostenere lo sviluppo e l’installazione di impianti nucleari più sicuri. Apprezziamo l’importanza che la vostra organizzazione attribuisce al riscaldamento globale e le vostre prese di posizione per le energie rinnovabili. Ma l’opposizione persistente all’energia nucleare mette in pericolo la capacità dell’umanità di evitare un cambiamento climatico pericoloso».
«(…) La domanda mondiale di energia cresce rapidamente e deve continuare a crescere per rispondere ai bisogni delle economie in sviluppo. Allo stesso tempo, diventa ogni giorno più chiaro il bisogno di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. Si può aumentare la fornitura di energia solo se nuove centrali elettriche cessano di usare l’atmosfera come una discarica.»
«Le rinnovabili come il vento e le biomasse avranno certamente una parte in una futura economia dell’energia, ma tali fonti energetiche non possono svilupparsi abbastanza rapidamente per fornire un’elettricità a buon prezzo e affidabile sulla scala richiesta dall’economia globale. Anche se può essere teoricamente possibile stabilizzare il clima senza energia nucleare, nel mondo reale non c’è un percorso credibile verso una stabilizzazione del clima che non comporti un ruolo sostanziale dell’energia nucleare».
«Sappiamo che le centrali nucleari attuali sono lungi dall’essere perfette. Fortunatamente, i sistemi di sicurezza passiva e altri progressi possono fare in modo che le nuove centrali siano molto più sicure. E la tecnologia nucleare moderna può ridurre i rischi di proliferazione e risolvere il problema delle scorie» (…)
«Analisi quantitative dimostrano che i rischi associati all’energia nucleare sono di ordini di grandezza inferiori ai rischi associati ai combustibili fossili. Non esiste un sistema energetico privo di inconvenienti. Chiediamo soltanto che le decisioni relative al sistema energetico siano basate sui fatti e non su emozioni e pregiudizi che non si applicano alla tecnologia nucleare del 21°secolo».
«Non ci sarà una soluzione tecnologica miracolosa, ma per quante/i prendono sul serio la minaccia climatica è venuto il momento di pronunciarsi sullo sviluppo e l’installazione di impianti di energia nucleare più sicuri (…). Con il pianeta che si riscalda e le emissioni di biossido di carbonio che aumentano più rapidamente che mai, non possiamo permetterci di voltare le spalle a ogni tecnologia che abbia il potenziale di sopprimere una gran parte delle nostre emissioni di carbonio. Molte cose sono cambiate dagli anni ’70. È venuta l’ora di affrontare in modo nuovo l’energia nucleare nel 21° secolo». (…)

Hansen, Lovelock, Monbiot…
Abbiamo citato lungamente questo testo perché ci sembra caratteristico. Non c’è ragione di dubitare delle motivazioni di James Hansen e dei suoi colleghi: la loro inquietudine di fronte al gravissimo pericolo dello sconvolgimento climatico non è finta, e si basa su una profonda conoscenza scientifica. Hansen in particolare è famoso per aver suonato il campanello d’allarme fin dal 1988, davanti a una commissione del Congresso americano. Da allora ha continuato a ripetere che i padroni del settore dell’energia fossile dovrebbero essere portati davanti a un tribunale per «crimine contro l’umanità e contro l’ambiente». Lo scorso aprile, Hansen ha anche lasciato le sue funzioni alla NASA per dedicarsi interamente alla militanza climatica. Non è dunque un caso che la «lettera aperta» sia rivolta in particolare ai difensori dell’ambiente…
Non è la prima volta che ricercatori impegnati cambiano opinione sul nucleare, sostenendo che l’atomo sarebbe un «male minore» rispetto alle catastrofi che ci sono promesse a causa del riscaldamento. Un altro ex collaboratore della NASA, James Lovelock, il padre de «l’ipotesi Gaia», aveva fatto la stessa cosa qualche anno fa. Un caso un po’ differente ma significativo è quello di George Monbiot. Monbiot era più un militante che un ricercatore, ma le sue cronache sul Guardian erano note per il loro rigore scientifico, e la sua conversione all’atomo fece un enorme chiasso.
Sarebbe superficiale prendere sottogamba queste conversioni al nucleare. Bisogna piuttosto leggervi un invito a guardare in faccia il fatto che la transizione energetica verso un sistema «100% rinnovabili» costituisce effettivamente una impresa di una difficoltà inaudita – troppo spesso sottovalutata anche in pubblicazioni serie e di qualità.

Il rompicapo della transizione
Alcune settimane prima del vertice di Copenhagen sul clima, nel 2009, due ricercatori statunitensi pubblicavano un articolo sullo Scientific American, sostenendo chel’economia mondiale potrebbe uscire dai combustibili fossili in venti o trent’anni. Pere questo «basterebbe» produrre 3,8 milioni di eoliche da 5 megawatt, costruire 89.000 centrali solari fotovoltaiche e termodinamiche, dotare i tetti degli edifici di pannelli fotovoltaici, e disporre di 900 centrali idroelettriche [2]…
Il problema di scenari di questo genere è che, mentre pretendono di risolvere il problema della transizione, in realtà lo aggirano. La questione, in effetti, non è di immaginare in astratto un sistema «100% rinnovabili» (un tale sistema è possibile evidentemente) ma di tracciare il percorso concreto per passare dal sistema attuale, basato per più dell’80% sui fossili, verso un sistema basato esclusivamente sul vento, il sole, le biomasse, ecc. Tenendo conto di due vincoli: 1°) le emissioni devono diminuire dal 50 all’85% entro il 2050 (dall’80 al 95% nei paesi «sviluppati»), e 2°) questa riduzione deve cominciare al più tardi nel … 2015.
Per non fare della «fanta-transizione» gli autori dell’articolo dello Scientific American, avrebbero dunque dovuto rispondere alla seguente domanda: come produrre 3,8 milioni di eoliche, costruire 89.000 centrali solari, fabbricare pannelli fotovoltaici di cui dotare i tetti delle case ed erigere 900 dighe rispettando i due vincoli … mentre il sistema energetico dipende all’80% dai combustibili fossili … la cui combustione implica inevitabilmente l’immissione di biossido di carbonio con effetto serra? [3]

Produrre meno
A questa domanda non ci sono trentasei risposte possibili, ma una sola: bisogna che l’aumento delle emissioni che risulta dagli investimenti supplementari resi necessari dalla transizione energetica, sia più che compensata da una riduzione supplementare delle emissioni in altri settori dell’economia.
È vero che una parte sostanziale di questo obiettivo può e deve essere ottenuta con misure di efficienza energetica. Ma questo non permette di sfuggire alla difficoltà, poiché molto sovente l’aumento dell’efficienza necessita a sua volta di investimenti, dunque di energia che è … fossile per l’80%, quindi fonte di emissioni supplementari … da compensare altrove con altre riduzioni, ecc.
Quando si osservano gli scenari di sistemi 100% rinnovabili, si constata che l’errore consistente nel passare sopra al problema concreto è molto diffuso. Per migliorare l’efficienza del sistema energetico, il rapporto «Energy Revolution» di Greenpeace, ad esempio, prevede tra l’altro di trasformare 300 milioni di abitazioni in case passive nei paesi dell’OCSE. Gli autori calcolano la riduzione di emissioni corrispondente … ma non tengono conto della crescita supplementare di emissioni derivante dalla produzione dei materiali isolanti, dei doppi vetri, dei pannelli solari, ecc. In altri termini, la loro percentuale di riduzione è lorda, non netta.[4]
Da qualsiasi parte si affronti il problema, si arriva sempre alla stessa conclusione: per rispettare i vincoli della stabilizzazione del clima, i giganteschi investimenti della transizione energetica devono essere accompagnati da una riduzione della domanda finale di energia, soprattutto all’inizio, e almeno nei paesi «sviluppati».
Quale riduzione? Le Nazioni Unite avanzano la cifra del 50% in Europa, e del 75% negli Stati Uniti[5]. È enorme, ed è qui che il nodo si stringe, poiché una diminuzione del consumo di una tale ampiezza non sembra realizzabile senza diminuire notevolmente, e per un periodo prolungato, la produzione e il trasporto di materia … vale a dire senza una certa «decrescita» (in termini fisici, non in punti di PIL).

Antagonismo
Va da sé che tale decrescita fisica è antagonistica rispetto all’accumulazione capitalista, che, anche se misurata in valore, è difficilmente concepibile senza una certa crescita delle quantità di materia trasformate e trasportate. Lo «sdoppiamento» tra crescita del PIL e flusso di materie in effetti non può essere che relativo. Come dire che si ritrova qui l’incompatibilità fondamentale tra il produttivismo capitalista e i limiti del pianeta.
È a questa incompatibilità sempre più evidente che James Hansen, James Lovelock, George Monbiot e altri, in nome dell’urgenza, tentano di sfuggire chiamando alla riscossa il nucleare. È penoso, e indegno del loro rigore scientifico, che lo facciano banalizzando i pericoli e, soprattutto, affermando questa controverità che le tecnologie «del 21° secolo» (quali?) permetterebbero di garantire un nucleare sicuro che ricicla le proprie scorie.
«Nel mondo reale (capitalista) non c’è un percorso credibile verso una stabilizzazione del clima che non comporti un ruolo sostanziale dell’energia nucleare», si legge nella lettera aperta di Hansen e consorti. Questa affermazione è completamente falsa: per triplicare la parte del nucleare nel consumo di elettricità da adesso al 2050 (che la porterebbe soltanto a poco più del 6%!) occorrerebbe costruire più o meno una centrale a settimana su scala mondiale per quarant’anni. Ci si ritroverebbe a quel punto con un sistema elettrico difficile da gestire in quanto obbediente a due logiche opposte: centralizzazione e spreco con l’atomo, decentralizzazione ed efficienza con le rinnovabili. Quello proposto da Hansen e i suoi colleghi non è un «percorso credibile», è una impossibilità tecnica. E può solo finire in un vicolo cieco mortale, combinando riscaldamento e radiazioni!

Il solo percorso credibile
Bisogna partire da ciò che lo stesso James Hansen ha detto a più riprese: l’ostacolo principale al salvataggio del clima è formato dalle grandi società che traggono profitto dal sistema energetico fossile. Si tratta di un ostacolo colossale. Questo sistema consiste in migliaia di miniere di carbone e di centrali a carbone, più di 50.000 campi petroliferi, 800.000 km di gasdotti e oleodotti, migliaia di raffinerie, 300.000 km di linee ad alta tensione … Il suo valore è stimato tra 15 e 20.000 miliardi di dollari (circa un quarto del PIL mondiale). Ora, tutti questi impianti, finanziati a credito e concepiti per durare trenta o quarant’anni,. dovrebbero essere rottamati e sostituiti nei prossimi quarant’anni, il più delle volte prima di essere ammortizzati. E non è tutto: le compagnie dei fossili dovrebbero per di più rinunciare a sfruttare i quattro quinti delle riserve provate di carbone, petrolio e gas naturale che figurano all’attivo dei loro bilanci …
Il solo «percorso credibile» verso una stabilizzazione del clima, è quello che passa per l’esproprio delle lobby dei fossili e della finanza: i «criminali climatici» giustamente denunciati da Hansen.
Trasformare l’energia e il credito in beni comuni è la condizione necessaria all’elaborazione di un piano democratico che punti a produrre meno, per i bisogni, in modo decentralizzato e con maggiore condivisione.Tale piano dovrebbe comportare in particolare: la soppressione dei brevetti nel campo dell’energia, la lotta contro l’obsolescenza programmata dei prodotti, l’uscita dal tutto automobile, un’estensione del settore pubblico (in particolare per l’isolamento degli edifici), il riassorbimento della disoccupazione per mezzo della riduzione drastica e generalizzata del tempo di lavoro (senza perdita di salario), la soppressione delle produzioni inutili e nocive come gli armamenti (con riqualificazione de/i/lle lavorat/ori/rici), la localizzazione della produzione e la sostituzione dell’agroindustria mondializzata con un’agricoltura contadina di prossimità.
È più facile a dirsi che a farsi, ma la prima cosa da fare è dirlo. È per elaborare questa alternativa che abbiamo bisogno di specialisti e d esperti come James Hansen e molti altri.
Dispiace che scienziati famosi, che conoscono la gravità della situazione, non osino affermare alto e forte che la soluzione non è prima di tutto tecnica, ma politica, che il cambiamento climatico ci obbliga a una scelta fondamentale di società anticapitalista. Ma è grave, e persino imperdonabile, che alcuni tra loro si riducano, per pura ideologia, a fare l’apologia del nucleare, la più criminale di tutte le pseudosoluzioni tecniche proposte per tentare di dare una boccata di ossigeno a questo sistema assurdo.

[1] http://dotearth.blogs.nytimes.com/2013/11/03/to-those-influencing…
[2] “A plan to power 100% of the Planet with renewables”, Mark Z. Jacobson and Mark A. Delucchi, Scientific American, October 26, 2009 | 188
[3] Non ci si pronuncia qui sulla pertinenza del piano in oggetto nelle sue diverse componenti. Questa enumerazione degli investimenti necessari è d’altronde incompleta. Come notano gli autori, oltre ai milioni di eoliche, ecc. si tratta di concepire un nuovo sistema di trasmissione, in sostituzione di circa 300.000 km di linee elettriche ad alta tensione, e una rete «intelligente » adatta all’intermittenza delle rinnovabili.
[4] Energy Revolution, A Sustainable World Energy Outlook. Greenpeace, GWEC, EREC, 2012
[5] United Nations, World Economic And Social Survey 2011

Tratto dal sito www.altervista.org. Traduzione di Gigi Viglino