62 misure: appare a prima vista possente l’intervento dal governo contro gli effetti negativi della libera circolazione, messo a punto nel quadro di un documento alla cui elaborazione hanno partecipato , oltre ai funzionari dei dipartimenti, i rappresentanti delle associazioni padronali e sindacali. Ma, se analizzato più da vicino, il poderoso rapporto e le numerose misure rischiano di ridursi a poca cosa nella realtà economica e sociale concreta del Ticino.
E questo non solo perché molte misure devono ancora essere oggetto di analisi (ed eventuale approvazione) sia a livello cantonale che a livello federale; ma, soprattutto, perché molte di esse – a cominciare da quelle immediatamente praticabili – avranno un impatto assai limitato rispetto ai problemi di fondo che vorrebbe combattere.
Ma, al di là dell’analisi delle proposte concrete, val la pena in questa sede tornare sulle questioni di fondo che questo ennesimo intervento solleva.
Concorrenza, ma non troppo?
Il ragionamento di fondo del documento presentato, e delle misure proposte, ruota attorno alla necessità della difesa di una “sana” concorrenza sul mercato cantonale. In altre parole, si assisterebbe ad un eccesso di concorrenza, in particolare da parte di piccole aziende (e soprattutto dei cosiddetti “padroncini”) che non rispetterebbero le condizioni di una “corretta” concorrenza sul mercato cantonale.
Gli interventi si muovono, in questa ottica, su due piani: da un lato cercare di rendere più “difficile” l’accesso al mercato cantonale, dall’altro inserire criteri che di fatto “privilegino” le imprese locali. Misure che, nel complesso , tendono a introdurre una “preferenza” cantonale per le imprese.
Tutto questo appare come il tentativo, attraverso un vero e proprio effetto d’annuncio, di cercare di calmare le istanze che emergono da una situazione economica e sociale sempre più difficile, mettendo in rilievo l’effetto di concorrenza di una piccola parte (i cosiddetti padroncini e i lavoratori distaccati) e oscurando di fatto la sempre maggiore concorrenza che viene utilizzata ed incoraggiata tra i salariati.
Attraverso la questione dei padroncini e della concorrenza tra piccoli imprenditori si cerca di focalizzare l’attenzione su un settore tutto sommato marginale, in particolare se lo si compara con l’aumento del numero di frontalieri “regolari” (non lontano dal raddoppio rispetto ad una decina di anni fa), attraverso la cui utilizzazione passa il vero e proprio dumping salariale.
Certo, il governo ha intrapreso anche qualche misura in materia salariale attraverso alcuni contratti normali: ma la loro portata non solo è quantitativamente limitata, ma, come abbiamo avuto modo di scrivere a più riprese su questo giornale, essi pongono regole e limiti salariali talmente bassi (3’000 franchi) da rappresentare più un incentivo che un freno al dumping salariale.
Accordi bilaterali, libera circolazione, misure di accompagnamento: un arsenale a sostegno del dumping
Gli accordi bilaterali non sono certo stati stipulati con l’idea di offrire a tutti i cittadini europei la possibilità di godere di un nuovo e fondamentale diritto: quello di circolare liberamente in Svizzera e di godere degli stessi diritti (tranne quelli politici) degli altri cittadini. Solo una visione stupidamente ingenua di questi accordi ha potuto salutarli come un passo decisivo nel lungo cammino di conquiste democratiche per gli immigrati nel nostro paese. L’abolizione di statuti discriminatori come quello di stagionale sono stati più il frutto di un’evoluzione del mercato del lavoro (che ha, diciamo così, “stagionalizzato” quasi tutte le attività attraverso una crescente flessibilizzazione e precarizzazione) che della pressione esercitata in vista degli accordi bilaterali.
Questi ultimi hanno rappresentato, soprattutto, attraverso una liberalizzazione del mercato del lavoro, la realizzazione di una politica che aveva due obiettivi: fare capo a manodopera qualificata sempre più necessario al padronato in Svizzera e porre le basi affinché tale manodopera esercitasse una pressione al ribasso per tutto il sistema salariale, rendendolo quindi più concorrenziale rispetto agli altri paesi europei, permettendo alla Svizzera di mantenere ed aumentare il suo grado di competitività: in altre parole, permettere in questo modo il mantenimento (o l’aumento) di elevati tassi di profitto e di redditività.
Quello che sta succedendo dunque non è una conseguenza spiacevole di una scelta politica giusta (è così che, da destra e da sinistra, ci viene presentata): ma è proprio quello a cui si voleva arrivare. Far saltare cioè quei meccanismo regolativi (salariali ma anche normativi) di un mercato del lavoro ritenuto eccessivamente ingessato e non sufficientemente aperto. Una vera e propria spinta liberista.
Il tentavo di recupero politico
Tutto quanto viene oggi messo in atto non rappresenta che un tentativo di recupero politico. Sia in campo salariale che sul terreno della concorrenza tra padroni si tenta di accreditare l’idea che ci troviamo confrontati con gli eccessi di una concorrenza che, di per sé, rappresenta un elemento positivo e i cui frutti, a lungo termine, non potranno che essere positivi.
È in questa prospettiva di cura degli “eccessi” che rientrano le misure presentate. Che devono avere, come detto, soprattutto un effetto d’annuncio, in particolare in vista delle prossime votazioni federali su iniziative come quella dell’UDC.
E, soprattutto, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali cantonali ai quali i partiti maggiori rischiano di presentarsi con un bilancio sociale profondamente negativo.