Via un banchiere, ne arriva un altro. Certo vi è una differenza tra un banchiere di mezza tacca come Alberto Cotti (responsabile delle “risorse umane” di quella specie di strana creatura che ê BancaStato) ad uno che responsabile della presenza alla periferia di uno dei centri del poter bancario: parliamo di Alberto Petruzzella, che diventerà con il prossimo 1° luglio presidente del consiglio della SUPSI (a meno di crisi sistemiche che affondino il Credit Suisse…).
Già questo nostro ultimo richiamo sarebbe più che sufficiente a capire per quale ragione i banchieri dovrebbero proprio essere gli ultimi (se proprio si vuole a tutti i costi un imprenditore alla testa della SUPSI) a guidare questa istituzione: sono infatti la categoria imprenditoriale che più di altre ha dimostrato in questi ultimi anni di non sapere cosa siano i criteri di buona gestione, di efficienza, di affidabilità e di professionalità che istituzioni come la SUPSI predicano ed insegnano ai propri studenti.
Ma al di là di questo, la conferma di un rappresentante dell’economia privata alla testa della SUPSI non è altro che la conferma di un vassallaggio sempre maggiore della istituzioni universitarie nei confronti del potere economico. Per carità, non è una novità e le recenti polemiche che hanno coinvolto l’università di Zurigo, proprio in relazione ad una sponsorizzazione milionaria del Credit Suisse, lo confermano.
Il buon Petruzzella ha illustrato il suo pensiero in una intervista concessa al Corriere del Ticino in concomitanza con la sua nomina. E non ha perso l’occasione per ribadire la necessità di questo rapporto di sudditanza che deve legare la SUPSI al mondo dell’economia.
Ha cominciato ricordando che la SUPSI “deve restare legata alla pratica professionale e non scimmiottare , ad esempio, l’Università”; un orientamento iper-professionalizzante che viene ribadito anche per il futuro, nel quale la collaborazione verrà ulteriormente sviluppata “con le scuole superiori specializzate e con le aziende attive sul territorio. Già agiamo in questa direzione ma spingeremo ancora di più”. E non ci si venga a dire che è la natura stessa della SUPSI come scuola professionale a spingere in questa direzione. L’idea alla base della creazione delle SUPSI risiedeva piuttosto nella possibilità offerta, a chi non aveva seguito il percorso degli studi liceali, di poter seguire (o ritornare a seguire) una percorso di tipo universitario. È altra cosa da una scuola che si sviluppa in una prospettiva eccessivamente professionalizzante.
Una scuola quindi al servizio dell’economia e della competitività; il che altro non significa che una scuola al servizio del profitto. Tutti obiettivi, e qui torniamo un po’ al punto di partenza del nostro ragionamento, di per sé legittimi se i padroni (oltre che ad occupare i posti di comando, felicemente designati dalle autorità politiche amiche) se la pagassero una scuola di questo tipo.
E invece le cose non stanno proprio così, anzi. Basti qui ricordare che i ricavi della SUPSI sono già di partenza per il 66% provenienti da finanziamenti di Confederazione (il 17%) e Cantone (il 49%); ma anche nel restante 34% ( i cosiddetti ricavi da terzi) vi è una parte costituita da mandati che spesso sono frutto di finanziamenti pubblici o parapubblici (Comuni, Fondi nazionali di ricerca, aziende parapubbliche come FFS o Poste, ecc.).
In altre parole un rappresentante per eccellenza dell’economia privata alla testa di una scuola per almeno 3/4 finanziata da denaro pubblico. Certo, vi è un aspetto puramente simbolico (Petruzzella è attorniato, nel consiglio di fondazione anche da rappresentanti dello Stato e dell’economia pubblica, anche se la rappresentanza del settore privato o a gestione privata è nettamente sovradimensionata); ma questo tipo di presenza non è solo simbolica. È lì a rappresentate in modo costante i valori di mercato, a cominciare dalla centralità dell’impresa e delle sue esigenze, primo tra tutti quello del profitto.