È avvilente ascoltare le spiegazioni con le quali il fronte sindacale/social-liberale ha commentato e commenta la vittoria dell’iniziativa xenofoba dell’UDC. Non solo perché le spiegazioni date restano alla superficie (e di fatti tra le analisi della sinistra social-liberale e quelle degli osservatori borghesi non vi sono di fatto differenze di sorta); ma, soprattutto, poiché questa ennesima scoppola non suscita nessuna posizione autocritica.
In poche parole: le posizioni e gli orientamenti erano giusti, sono i salariati che non hanno capito ed hanno ceduto alle sirene della propaganda populista.
Particolarmente attivo, nel dopo voto, Franco Cavalli ha spiegato a tutti le ragioni della sconfitta. Il problema è semplice dice Cavalli: i bilaterali vanno bene, bisogna solo migliorare le misure di accompagnamento, in particolare concludendo contratti collettivi di lavoro e introducendo salari minimi.
Sentendo queste cose, ci chiediamo: non è questa la strategia seguita in questi anni dal partito di Cavalli? Non è stata questa la strategia condotta dal movimento sindacale? La sceneggiata che viviamo da dieci anni è sempre la stessa: i bilaterali vanno bene, come buona è la liberalizzazione del mercato del lavoro (altro che libera circolazione!): bisogna tuttavia rafforzare le “misure di accompagnamento”. E i padroni sono sistematicamente venuti incontro a queste richieste di PSS e sindacati: guadagnandosi il loro appoggio e sostegno (decisivo) votazione dopo votazione in materia di accordi bilaterali.
In realtà, e l’evoluzione di questi ultimi dieci anni lo ha confermato, le cosiddette misure di accompagnamento non erano misure di protezione delle condizioni di vita, di lavoro e di salario di chi lavora in questo paese; sono state, molto più concretamente, misure che, grazie alla loro totale inconsistenza, hanno permesso di accelerare la messa in concorrenza dei salariati, di diminuire i livelli salariali e rendere più competitivo il mercato del lavoro e la produzione in Svizzera. In altre parole misure che non dovevano disturbare quel processo di liberalizzazione del mercato del lavoro costituito dagli accordi bilaterali. E così è stato!
Ora, Cavalli e soci vengono a riproporci la stessa minestra, dopo avercela proposta per dieci anni (e ben tre votazioni), contribuendo in modo decisivo all’esito della votazione di domenica scorsa.
Naturalmente tutti costoro non si rendono conto nemmeno lontanamente di quel dicono. Affermano, ad esempio, che basta generalizzare i contratti collettivi per impedire il dumping e rendere la popolazione più “disponibile” agli accordi bilaterali. E allora, se basta così poco, perché non lo si fa? Perché Cavalli, il cui narcisismo non conosce limiti, non spiega al suo amico Borelli come fare per, finalmente, dopo due anni di inutili e deserte assemblee, rinnovare il CCL cantonale dei lavoratori del granito disdetto dal padronato? E visto che c’è, perché non gli spiega come fare per obbligare i padroni della MES di Stabio a rinnovare il CCL, denunciato per non dover pagare la tredicesima?
Ma poi, è proprio vero che attraverso i contratti di lavoro si combatte il dumping? Poco tempo fa le organizzazioni sindacali hanno stipulato il più importante (quantitativamente) CCL della Svizzera – quello dei lavoratori impiegati dalle agenzie di lavoro temporaneo – che prevede, in Ticino, un salario minimo di 2’400 franchi mensili. Qualcuno pensa sul serio che un CCL come questo – presentato come un successo – serva sul serio (2’600 franchi al mese!) a evitare il dumping, oppure costituisca un vero e proprio atto di dumping salariale?
Certo, ci sarà la votazione sul salario minimo del prossimo mese di maggio. Ma quella proposta può apparire (e lo è) interessante per una regione depressa dal punto di vista salariale com’è il Ticino. Ma già da tempo incontra il sospetto di buona parte dei salariati del resto della Svizzera che trovano questo salario troppo basso rispetto ai loro attuali livelli e temono che la sua introduzione rappresenti un vero e proprio atto di dumping, attirando (spingendo) i salari verso il basso. È per questa ragione che l’iniziativa sul salario minimo, proprio perché mal formulata e ignorante della realtà dei salariati (non male per un’iniziativa sindacale!), alle fine rischia di essere bocciata.
Se il nostro sguardo va poi alla componente verde di quella che in passato ci è stata magnificata come l’alleanza rosso-verde (e quante volte ci è stato spiegato che la “sinistra” progrediva perché se il PS perdeva voti, li guadagnavano i Verdi che erano più o meno della stessa famiglia), la situazione non è certo migliore. Savoia non solo ha fatto una campagna apertamente xenofoba, accodandosi di fatto all’idea che una politica di limitazione dell’offerta si tradurrebbe automaticamente in un miglioramento di occupazione e salario per gli “indigeni”; ma ha fatto e farà ancora di più e di peggio: il bello (bruttissimo) deve ancora venire.
Infatti non saremmo sorpresi se adesso l’autorità politica, forte di questa “lezione”impartita dal voto popolare, proponesse con celerità di votare sull’iniziativa cantonale dei Verdi che prevede l’introduzione di salari minimi di categoria. Sarebbe un degno seguito della votazione di domenica. Non solo i salariati sono ormai sottoposti ad un feroce concorrenza, divisi tra di loro dalle continue campagne xenofobe e messi uno contro l’altro dalla diffusione dell’idea della “priorità cantonale”; ma a dare loro una mazzata finale sarebbe la diffusione di salari minimi legali di categoria, oscillanti tra i 3’000 e i 3’500 franchi mensili (per 12 mensilità), come di fatto preconizza l’iniziativa dei Verdi.
Divisione e povertà tra i salariati: ecco il programma politico alla cui realizzazione la componente verde dell’alleanza rosso-verde ticinese sta dando il suo contributo fondamentale.
Quasi dieci anni fa, nella prima battaglia per un No di sinistra ai bilaterali che denunciava la logica di liberalizzazione in essi contenuta e l’assoluta inconsistenza delle cosiddette misure di accompagnamento, avevamo avuto diritto ad una serie di critiche per aver fatto campagna per il No assieme all’UDC e alla Lega di Bignasca. Situazione poi ripetutasi nel 2009.
Oggi pensiamo a quella campagna come a uno dei pochi atti che permette ad una sinistra di sinistra di guardare alla propria storia recente senza provare troppa vergogna per essere venuta meno ai suoi doveri fondamentali.