Le comunicazioni dell’Istat sulla situazione occupazionale nel nostro paese sono come dei bollettini di guerra, una guerra sanguinosissima che lascia a terra centinaia di migliaia di persone, anzi milioni. Nel 2013 sono stati persi 478 mila posti di lavoro, un milione dall’inizio della crisi nel 2008. Il tasso di disoccupazione raggiunge un nuovo record, il 12,9%, cioè circa 3,3 milioni di donne e uomini che cercano lavoro senza trovarlo; ad essi devono essere aggiunti gli altri tre milioni di persone che, completamente scoraggiate, neppure provano più a bussare ad ogni porta alla ricerca di un impiego.
I dati per le giovani generazioni, la fascia tra il 15 e 24 anni, sono ancora più drammatici, 42,4% di disoccupati, cioè poco meno di 700 mila persone. E naturalmente tutti queste cifre sono quelle medie del paese, al Sud la situazione è ben peggiore.
La reazione delle forze politiche e sociali che contano e dei media è la solita, come ci si trovasse di fronte a una catastrofe naturale, a un terremoto distruttivo, e non fosse invece il risultato di determinate politiche economiche e di una rapporto sociale tra le classi della società. Tra i falsi sorpresi spicca l’ineffabile Presidente del consiglio che reagisce col suo solito twitter, come non fosse a conoscenza che questi dati da tempo erano già egualmente “allucinanti”.
Le cause della disoccupazione
La disoccupazione è il prodotto di almeno tre elementi tra loro correlati.
1. Siamo di fronte a una fase caotica del capitalismo che ha prodotto l’attuale devastante crisi in cui si congiungono tendenze storiche più profonde con un ciclo congiunturale fortemente recessivo comparabile solo a quello degli anni trenta senza che siano emersi finora segnali di fuoriuscita da questo ciclo lungo negativo.
In Italia la crisi è ancora più violenta per alcune debolezze strutturali del nostro paese ed è stata portata all’estremo dalle misure di austerità che hanno alimentato a dismisura i processi recessivi.
2. L’aumento della produttività permette di produrre le stesse merci con un minor numero di lavoratori e lavoratrici; nella storia del movimento sindacale la risposta è stata la rivendicazione della riduzione degli orari perché l’aumento della produttività andasse anche a vantaggio delle lavoratrici e dei lavoratori e la giornata di lavoro fosse meno pesante.
Nel nostro paese l’ultima consistente riduzione degli orari è avvenuta agli inizi degli anni ’70 come frutto dell’autunno caldo, con la riduzione a 40 ore settimanali nell’industria, in certe produzioni anche a 36 ore, e nel settore pubblico mediamente a 38 ore.
E’ curioso notare, ma non è casuale, che il maggior aumento di produttività in Italia è avvenuto negli anni settanta, quando più consistenti sono state le conquiste dei lavoratori; la dinamica della produttività ha avuto poi conosciuto fasi alterne, (bassa nel primo decennio del nuovo secolo), ma consistente nell’arco degli anni e, in mancanza di nuove riduzione dell’orario, ha determinato una costante riduzione dei posti di lavoro.
Le delocalizzazioni, le ristrutturazioni industriali e l’aumento delle ore lavorate hanno amplificato questo fenomeno negativo. Le controriforme sulle pensioni che tengono al lavoro lavoratrici e lavoratori vecchi e logori, chiudendo la porta all’assunzione dei giovani, sono una delle cause principali dei quel “terrificante” 42,% della disoccupazione giovanile.
In realtà una riduzione dell’orario di lavoro è avvenuta, ma in forma penalizzante sia per i lavoratori occupati che per i disoccupati: attraverso la cassa integrazione e l’ampliamento del numero dei disoccupati. In questo modo le ore di lavoro complessive si riducono. Nello stesso tempo alcuni settori lavorano di nuovo 48 ore od oltre, altri lavorano due o tre giorni la settimana con orari impossibili, i diritti conquistati nel secondo dopoguerra cadono uno dopo l’altro: il risultato di tutto questo è che la produttività media stagna, ma lo sfruttamento del lavoro conosce vertici che rimandano ad epoche passate.
La contrazione dell’occupazione è stata contenuta negli anni ottanta e novanta attraverso lo sviluppo del terziario, quello cosiddetto avanzato, ma ancor più quello assai meno avanzato del normale commercio; in questo settore la totale liberalizzazione ha determinato un proliferare a dismisura del piccolo commercio che va di pari passo con lo sviluppo dei grandi centri commerciali. Il risultato è stato una concorrenza senza pari del piccolo commercio con cicli di mortalità rapidissimi per chi si è impegnato nel settore.
La fase di sviluppo di posti di lavoro nel terziario è oggi finita; produce invece esuberi oltre che essere uno dei punti più alti della deregulation dei contratti e degli orari.
Per una certa fase anche il lavoro nel settore pubblico ha sopperito alla riduzione dell’occupazione nel settore industriale, ma oggi è proprio qui, per effetto della riduzione della spesa pubblica e della campagna ideologica scatenata contro lavoro pubblico che risulta la maggiore riduzione occupazionale; sono centinaia di migliaia di posti perduti, veri e propri licenziamenti di massa nel settore della scuola, ma anche nella sanità. Non si può certo stare tranquilli con l’annunciata chiusura delle province per non parlare della spending review che ha questo come scopo: ridurre il personale pubblico ancora di 200-300 mila unità dopo che i dipendenti pubblici si sono già ridotti da 3.300.000 a poco più di 3 milioni. Dentro questo processo di svilimento del lavoro e dell’occupazione ha funzionato il meccanismo delle esternalizzazione dei servizi pubblici attraverso la privatizzazione, ma anche attraverso l’appalto alle cooperative, che prima sono servite a ridurre i costi del lavoro, cioè pagare meno le lavoratrici e i lavoratori per un medesimo servizio, e poi a ridurre il numero del personale.
3. La terza causa della disoccupazione è politica e strategica, è la scelta dei padroni, delle classi dominanti, che dopo aver sconfitto in molti paesi la forza del movimento sindacale ed operaio, stanno operando per distruggere la legislazione sul lavoro del secondo dopoguerra; essi hanno potuto utilizzare i nuovi rapporti di forza per creare un esercito industriale di riserva, cioè milioni di disoccupati, che permettono loro di “vincere facile” coi ricatti, la mancanza di lavoro e di reddito di milioni di persone. Siamo di fronte a una volontà politica della classe padronale italiana ed europea di perpetrare questa situazione così vantaggiosa per loro e che ritengono indispensabile per reggere la concorrenza con gli altri paesi capitalistici.
Renzi continua l’opera di Berlusconi, Monti e Letta
Le istituzioni europee e i vari governi che si sono succeduti in Italia lavorano dentro questo progetto reazionario. E questo vale anche per il nuovo arrivato, Renzi, l’uomo creato ad arte dai media, che ha la funzione di far apparire che tutto cambia, mentre in realtà nulla cambia.
Secondo l’ideologia liberista i nuovi posti di lavoro li possono produrre solo i capitalisti; per spingerli a farlo occorre dunque favorirli, riducendo loro il costo del lavoro, diminuendo le tasse e dando loro maggior libertà di licenziamento perché così “assumeranno più facilmente”. La logica è discutibile e perversa ed infatti da anni sono state introdotte misure di questo genere con risultati del tutto opposti e negativi.
Qual è il problema? Nessun ulteriore regalo ai padroni rilancerà mai l’economia in questa fase di accumulazione del capitalismo, nessun padrone investirà di più e soprattutto assumerà avendo di fronte prospettive difficili, un mercato in contrazione e bassi consumi indotti proprio dai meccanismi delle politiche di austerità; l’unica cosa che si è ottenuta è che il padrone ha oggi un’ampia scelta sulle modalità e sui tempi con cui assumere qualcuno quando ne ha bisogno; soprattutto può sempre più sostituire il lavoro protetto da regole e garanzie, con un lavoro con meno regole e meno garanzie. Il risultato è la disoccupazione al 13%.
Qual’é la mirabolante proposta di Renzi che traspare dalle sue contradditorie e generiche affermazioni sul jobs act: una riduzione stratosferica del cuneo fiscale cioè dell’IRAP per le imprese, la scomparsa definitiva dell’articolo 18 e della cig e della mobilità, istituti che mantengono ancora il lavoratore legato all’azienda di origine, il loro passaggio nella terra di nessuno cioè del licenziamento in “cambio” di una indennità di disoccupazione per tutti, che, come in altri paesi diminuirà di valore col passare dei mesi fino ad esaurirsi. Poi, c’è da supporre, potrà intervenire la Chiesa, che com’é noto ha la funzione ufficiale millenaria di praticare l’elemosina e benedire il sistema economico vigente. Una vergognosa truffa che per di più sarà finanziata con la riduzione delle spese pubblica, cioè con la perdita di altri posti di lavoro e la distruzione di altri servizi per i cittadini e lavoratori.
Costruire un’alternativa per difendere e creare occupazione
La strada per creare posti di lavoro e difendere quelli esistenti è un’altra, quella intrapresa in altri periodi storici dalla classe operaia.
In primo luogo per difendere l’occupazione di fronte alle ristrutturazioni e dagli elementi negativi dell’aumento della produttività non esiste altra soluzione se non la distribuzione del lavoro esistente tra quelli che ne hanno bisogno: si tratta di rivendicare e di battersi per una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario almeno fino a 35 ore, ma in realtà oggi in Europa sono possibili e soprattutto necessarie le 32 ore. Qualche sindacato l’ha scritto nel suo programma, ma molte volte non agisce perché non ci crede più, mentre altri sindacati fanno esattamente il contrario, firmando accordi coi padroni in senso del tutto inverso come è accaduto in Italia con l’accordo sulla produttività del 2012.
In secondo luogo lo Stato deve intervenire in tutti i casi in cui un’azienda delocalizza, chiude gli stabilimenti, sposta altrove le produzioni. Se una fabbrica si ferma l’intervento pubblico deve garantire la ripresa della produzione, o, come può essere necessario in alcuni casi, la sua riconversione produttiva, garantendo sia i posti di lavoro, sia le attività utili al paese. E’ in questo quadro anche possono debbono manifestarsi forme dirette di autogestione delle lavoratrici e dei lavoratori interessate/i.
Esistevano in passato delle istituzioni economiche pubbliche che intervenivano più o meno bene di fronte alla chiusura di aziende; serve oggi un istituto centrale dello stato di questo genere, adeguatamente finanziato da un sistema bancario pubblico, che svolga questa funzione, democraticamente controllato dai lavoratori interessati e dai cittadini.
In terzo luogo serve un intervento pubblico complessivo e diretto per creare lavoro.
Nei progetti liberisti lo stato serve solo a:
· garantire all’interno l’ordine pubblico e all’estero gli interessi della borghesia;
· imporre i sacrifici ai cittadini;
· pompare risorse e denaro dalla società verso le imprese e le banche.
No grazie.
In questa fase proprio solo l’azione pubblica può creare i posti di lavoro che non ci sono. Occorre battersi per un nuovo grande piano pubblico che abbia almeno 4 assi di intervento principali.
· riconversioni industriali individuando le produzioni necessarie per il paese e per i cittadini;
· un vasto piano dei trasporti, rinunciando alle opere inutili e dannose come il Tav, dando prevalenza ai trasporti collettivi, che garantisca a tutti la mobilità a prezzi accessibili e di qualità a partire in primo luogo dai pendolari;
· un vasto piano pubblico per la messa in sicurezza del territorio dal punto di vista idrogeologico e ambientale;
· la ricostruzione di una sanità e di una scuola pubblica che sappiano dare a tutte/i le cittadine e i cittadini servizi gratuiti e più in generale un incremento dei servizi pubblici per renderli accessibili a tutte le fasce della popolazione.
Questi vasti interventi possono creare alcuni milioni di nuovi posti di lavoro.
Dove prendere i soldi?
Risposta lapidaria e scontata per chi non sta dalla parte sbagliata: là dove ci sono, là dove è concentrata la ricchezza e il potere, in quel 10% della popolazione che detiene ingiustamente il 50% della ricchezza prodotta nel paese.
E’ ragionevole, anche se in tanti pensano che non sia possibile. Di certo non basta chiederlo per averlo. No, ci vuole una nuova fase di mobilitazione, di lotta, di unità delle lavoratrici e dei lavoratori. Ci vorrà tempo e anche dure battaglie, ma nulla è impossibile. L’alternativa sarebbe accettare un ulteriore degrado della condizione di vita delle masse popolari e questo non possiamo né dobbiamo accettarlo.
Tratto da www.anticapitalista.org