Mercoledì 5 febbraio sono iniziate delle manifestazioni operaie, che si sono velocemente estese alle altre città della Bosnia. Torna la guerra nelle città della Bosnia. Non le guerre nazionaliste e separatiste degli anni 1990, né la guerra fredda dei dirigenti nazionalisti in una federazione divisa su basi etniche e sotto la supervisione di un Alto Rappresentante delle Grandi Potenze d’ispirazione coloniale; ma una guerra sociale, una sollevazione del popolo.
A partire dalla rivolta dei lavoratori di Tuzla contro le privatizzazioni che rovinano l’industria, lavoratori arrabbiati, giovani disoccupati ed ex combattenti hanno incendiato macchine e locali del governo da tutte le parti della Federazione Bosniaca, per solidarietà e per esigere le dimissioni degli eletti federali e cantonali. La scritta «chi semina la fame raccoglie la collera» riassume il messaggio mandato così alla classe politica di una società priva di lavoro (per gli under 24, la disoccupazione ha raggiunto il tasso incredibile del 63%), una classe che si spartisce il bottino burocratico, aumentato dal saccheggio dell’ex settore pubblico, con una piccola classe di nuovi magnati degli affari.
Come un lampo in un cielo buio, questa rivolta illumina i rapporti di potere reali nella federazione.
Neocolonialismo e neoliberismo
In un’intervista rilasciata alla TV austriaca, Valentin Inzko, Alto Rappresentante delle potenze occidentali, ha ammonito: «…se persistono gli atti di teppismo, si potrà chiedere alle truppe dell’EUFOR (UE) di intervenire» (1). Come un’eco, il direttore di un’agenzia statale incaricata del coordinamento delle unità di polizia nella federazione della Bosnia, Himzo Selimović, si è dimesso dopo aver riconosciuto che la polizia non era in grado di assicurare la sicurezza dei membri della Presidenza bosniaca, ed ha chiesto alla comunità internazionale ed all’UE di valutare il dispiegamento di forze militari internazionali se questi eventi dovessero ripetersi (2).
Mentre le dichiarazioni d’Inzko e di Selimović rivelavano che l’UE è il vero potere che si nasconde dietro allo Stato, Milorad Dodik, presidente della Repubblica serba di Bosnia (RS), si è congratulato con i cittadini dell’entità serba perché non hanno ceduto alla provocazione dei movimenti di protesta che agitano la Federazione, confermando fino a che punto il nazionalismo, strutturalmente iscritto nelle istituzioni ereditate da Dayton, permette di dividere per meglio governare (3). Nel frattempo, Aleksandar Vučić, vicepresidente del governo serbo, ha pregato i rappresentanti politici della RS di scegliere la moderazione, prova lampante delle ambizioni espansionistiche persistenti nella élite politica serba, ma anche della solidarietà di classe fondamentale della élite politica bosniaca, di solito incapace di raggiungere il minimo accordo, neanche sull’esistenza della Federazione; solidarietà che si esercita contro i popoli della Bosnia.
Le privatizzazioni non sono gli unici progetti che le classi politiche della Bosnia e dell’UE, assieme, si premurano di difendere: impongono da cinque anni l’attuazione di un piano di austerità del FMI che mira a fare pagare la crisi economica ai lavoratori delle due entità federate. Conformemente ai due accordi «stand-by» (Stand-By Arrangemens) [prestito ordinario del FMI] le spese sono state congelate, gli stipendi del settore pubblico hanno subito parecchie riduzioni, il consumo è crollato, la crescita è a terra e il debito pubblico estero è raddoppiato per raggiungere il 32% del PIB. Mentre di solito il governo federale è incapace di accordarsi sulla minima misura, l’anno scorso e per il periodo 2014-2016 ha adottato un «quadro fiscale globale» ispirato alle direttive del FMI, che fissa degli obiettivi di bilancio per le entità federate e ratifica un insieme di tagli in nome della riduzione del deficit di bilancio, in modo che oramai l’austerità neoneoliberista sia al di sopra di qualsiasi messa in discussione democratica durante le prossime elezioni. E poiché anche l’ultimo rapporto del FMI riconosce che niente di tutto ciò permetterà di ristabilire la crescita e gli introiti fiscali, sono in preparazione misure per rialzare l’età legale della pensione, aumentare la flessibilità della mano d’opera e proseguire le privatizzazioni (4).
Le riforme neoliberiste non vinceranno la crisi, non faranno altro che peggiorarla. Come nel resto dei Balcani e della periferia europea, il modello economico applicato si basa sull’apertura ai capitali stranieri. Fino al 2008, questo afflusso di capitali alimentava una crescita basata sull’importazione e l’indebitamento dei consumatori, mentre distruggeva l’industria e preparava l’attuale crisi del debito. Da una parte, la sopravvalutazione e l’indicizzazione della moneta bosniaca sull’euro hanno permesso di ottenere i prestiti necessari al pagamento delle importazioni; ma dall’altro hanno frenato gli investimenti nell’economia reale e reso poco competitive le esportazioni (5). Siccome l’economia dipende interamente da fonti di crescita esterne e la crisi finanziaria dei mercati emergenti scatenata dall’Argentina avrà senza dubbio ripercussioni nell’Eurozona, la Bosnia si trova ormai ad una svolta.
L’elite politica è unita nella determinazione di imporre riforme neoliberiste che sono state richieste tassativamente come condizioni d’ingresso nell’Unione europea. Si ritrova di fronte ad una insurrezione popolare che potrebbe estendersi alla RS, e forse all’insieme dei Balcani. Se si dimostra incapace di superare la crisi, che è anche una crisi di legittimità dello schema federale, l’elite ricomincerà, come negli anni 1990, a suonare sulla corda nazionalista con lo scopo di rimanere al potere; in tale ipotesi, la federazione potrebbe crollare, aprendo un’altra volta la via ad un intervento delle grandi potenze e alle lotte nazionaliste nell’intera regione.
Questo è il motivo preciso ricorrente che dobbiamo tenere a mente per capire l’attuale crisi politica e le condizioni necessarie a qualsiasi alternativa durevole suscitata dall’insurrezione.
L’eredità jugoslava: integrazione al mercato, disintegrazione nazionalista e interventismo delle grandi potenze
Non si può considerare la guerra degli anni 1990 fuori dal contesto di disintegrazione della Jugoslavia provocata dalla crisi del debito degli anni 1980. In quel decennio, la Jugoslavia fu posta sotto la tutela del FMI e sottomessa in anteprima alla terapia d’urto e al programma di liberalizzazione del mercato che sarebbero diventate la norma nell’Europa orientale post-sovietica degli anni 1990. Il FMI impose la chiusura delle industrie inefficienti e la fine delle sovvenzioni che andavano dalle Repubbliche e regioni più ricche a quelle più povere. Di fronte a un diffuso malcontento dei lavoratori e, più tardi, a minacciose ondate di scioperi in tutte le Repubbliche, le élite politiche di ogni repubblica, cominciando dalla Serbia sotto la direzione di Milošević, hanno scatenato un’ondata di nazionalismo per conservare il potere.
Per imporre la disciplina di mercato necessaria al rimborso del debito, il FMI e la CEE avevano preteso la ricentralizzazione della federazione jugoslava. La CEE faceva balenare, a mo’ di «carota», l’integrazione nella costruzione europea in caso di successo delle riforme. In pratica, la CEE era quindi allineata sulle posizioni di Milošević e del nazionalismo della «Grande Serbia», che mirava a migliorare la competitività dell’economia serba con una ricentralizzazione jugoslava. Ma la promessa dell’integrazione europea incoraggiò pure le ricche Repubbliche del Nord della Jugoslavia, la cui strategia di competitività consisteva nello sbarazzarsi del Sud impoverito e nel raggiungere la CEE. Da questo punto di vista, l’integrazione europea ha potuto accelerare la disintegrazione nazionalistica della federazione jugoslava (6).
Le potenze occidentali erano divise sulla questione della sopravvivenza della Jugoslavia. Quando la Germania appoggiò i separatisti delle Repubbliche occidentali della Jugoslavia (Slovenia e Croazia), la Bosnia si trovò destabilizzata durante il contrattacco della Serbia, alleata alla Croazia per una spartizione della Jugoslavia. Le potenze europee stimolarono queste brame con una serie di protocolli di pace che prendevano atto dei fatti di pulizia etnica, fino all’entrata in scena degli Stati Uniti, che trassero profitto delle divisioni europee per estendere il loro dominio nel vuoto creatosi dal riflusso dell’influenza russa, con un intervento militare a fianco della coalizione croata-musulmana che avevano creato per porre fine alla guerra.
Geopolitica della questione nazionale nella Bosnia di Dayton
La Bosnia emersa dall’accordo di pace di Dayton è un protettorato neocoloniale occidentale, la cui politica è ampiamente dettata dagli Stati Uniti e dall’UE. Il paese è diviso in due: la Federazione e la RS. Non si possono prendere decisioni senza il consenso delle due entità. Tuttavia persiste un regime neocoloniale, diretto dall’Alto Rappresentante internazionale per la Bosnia-Erzegovina, la cui unica legittimità è l’affermazione che per preservare una Bosnia-Erzegovina è necessaria una coercizione esterna. Invece è la struttura federale imposta dalle grandi potenze a Dayton, senza nessuna consultazione democratica, a creare le condizioni di una nuova concorrenza nazionalista e a rinnovare costantemente la necessità del protettorato come potere esecutivo reale e come garante dell’integrità territoriale.
Nella Costituzione, i molteplici punti di vista sui quali può esercitarsi un «veto etnico» e i meccanismi complessi di spartizione del potere significano che i politici nazionalisti possono paralizzare il governo federale a volontà, qualunque sia l’oggetto del dibattito. Ad esempio, durante gli ultimi due anni la Bosnia-Erzegovina si è ritrovata senza un governo reale, fatto che aveva già causato le proteste di massa dello scorso giugno a Sarajevo affinché venisse approvata una legge, troppe volte rimandata, che garantisse ai bambini l’accesso ai servizi sanitari e sociali elementari. Inoltre, queste istituzioni rappresentano i cittadini unicamente in qualità di membri di uno dei tre popoli che costituiscono la Repubblica, li costringono ad identificarsi con l’uno dei tre gruppi etnici e creano così un sistema di partiti su basi nazionaliste. La paralisi che ne risulta apre uno spazio all’azione allo stesso tempo legislativa ed esecutiva dell’Alto Rappresentante, inasprendo allo stesso tempo le tensioni nazionaliste e la crisi di legittimità del sistema politico.
In reazione alla crisi, le potenze occidentali hanno cercato di riformare radicalmente l’accordo di Dayton, ma nel senso di una preservazione dell’unità della Bosnia tramite la sua integrazione nell’UE e nella NATO. Cercano di ricentralizzare la federazione, per abolire in pratica l’autonomia della RS e così ostacolare il ritorno della Russia, nella nuova veste di superpotenza energetica, sulla scena regionale. Nella continuità dell’imposizione di una «indipendenza» del Kosovo da parte degli Stati Uniti nel 2008, e del veto della Russia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il conflitto tra le grandi potenze ridistribuisce ancora una volta le carte del gioco nazionalista. Mentre l’élite bosniaca aveva finito per accettare Dayton, oramai sostiene la ricentralizzazione della federazione; e mentre l’élite serba della Bosnia era inizialmente contraria a Dayton, oramai oscilla tra una difesa di Dayton e un riavvicinamento alla Russia per tenere viva la possibilità di una secessione.
Se l’ingerenza delle grandi potenze con il suo carico di divisioni segna una continuità con gli anni 1990, la somiglianza è ancora più inquietante sul piano dell’economia politica. UE e FMI martellano che la ricentralizzazione è il complemento necessario delle riforme economiche. La parola d’ordine neoliberista, come nel passato, è «troppo governo», che pesa eccessivamente sull’economia e blocca la costruzione del tipo di mercato integrato che attrae gli investitori stranieri. Come negli anni 1980, i politici nazionalisti appoggiano queste riforme di mercato; rimangono divisi soltanto sulla ricentralizzazione dei poteri fiscali. Nello stesso tempo, alla paralisi del sistema politico si somma l’incapacità delle riforme neoliberiste a superare la crisi economica e sociale. Dato che queste enormi pressioni economiche e militari esterne si scontrano e si fondono con le lotte nazionaliste, di nuovo sono presenti le condizioni per la disintegrazione.
Andare avanti: porre fine al protettorato, difendere l’uguaglianza dei popoli bosniaci, sostenere l’insurrezione dei lavoratori!
Qualsiasi progetto alternativo in nome del progresso deve confrontarsi con la barbarie all’opera nella situazione attuale. Fino adesso le proteste hanno avuto basi solo classistiche, quasi senza segno di contagio nazionalista. In effetti la loro debolezza politica visibile sta altrove: si tratta dell’appello, lanciato dai lavoratori di Tuzla ed ampiamente ripreso, per la costituzione di un governo non di parte e tecnocratico, governo che, nel quadro del protettorato, sarebbe inevitabilmente combattuto fra il veto nazionalista e il diktat dell’Alto Rappresentante e del FMI. Però il problema maggiore sta nel fatto che le proteste non hanno raggiunto la RS, anche se non si deve sottostimare l’importanza di un assembramento di solidarietà di 300 persone a Banja Luka. La forza del sistema di Dayton sta nel dividere per meglio governare, impedendo questo tipo di solidarietà di classe interetnica. Così, le proteste contro il piano di austerità del FMI non sono mai state coordinate; gli scioperi generali del settore pubblico del 2009 e del 2013 sono stati limitati, rispettivamente, alla Federazione e alla RS. La collera di classe generalizzata dei lavoratori contro l’élite politica può ugualmente essere manipolata e trasformata nel suo contrario, un sostegno all’integrazione nell’UE come soluzione alla «corruzione» e alla sconfitta delle «riforme», come è successo di recente durante le mobilitazioni in Bulgaria. In questo modo, il sistema in vigore genera senza tregua una corrente che oscilla naturalmente fra nazionalismo e sostegno al protettorato e all’intervento delle grandi potenze, mentre genera sempre più crisi e disperazione.
L’uscita da questo circolo vizioso si troverà collegando la lotta sociale contro la classe politica nazionalista con una lotta democratica per rovesciare il «protettorato» imperialistico.
Se torniamo all’inizio del nostro ragionamento, il movimento sociale si scontra con un blocco politico che include l’UE, l’Alto Rappresentante, il FMI, tutti i politici nazionalisti delle varie entità, ed anche i governi di Belgrado e di Zagabria. Per indebolire questa alleanza, deve richiedere l’abrogazione dell’accordo del FMI, l’espulsione dell’Alto Rappresentante e dell’EUFOR, e il rifiuto di qualsiasi modifica del sistema di Dayton che non si basi su di un accordo fra i popoli stessi. Se il movimento riesce a costruire un’opposizione pratica all’ingerenza imperialistica e alla dipendenza economica, allora sarà capace di smascherare l’ipocrisia dei nazionalisti. Perché non costituiscono una politica antimperialista né il sostegno a Dayton, né la sua denuncia da parte delle élite nazionaliste: si tratta sempre di un sostegno all’intervento della Russia o degli Stati Uniti e dell’UE; e sempre di una richiesta a proseguire la distruzione neoliberista.
Su queste basi il movimento può legittimamente difendere i diritti di tutte le nazioni, incluse le minoranze, come i Rom, che non sono rappresentate nel regime di Dayton. Collegando la questione sociale alla questione nazionale – mostrando che le disuguaglianze di classe non possono essere contestate se il movimento operaio rimane diviso in termini di nazionalità e se rinuncia a difendere il diritto di libera associazione di tutte le nazionalità contro ogni forma di coercizione – si potranno fare i primi passi per superare la sfiducia fra i popoli e per creare un movimento per l’unità del movimento operaio. Per andare avanti, la sinistra deve dimostrare che l’uguaglianza sociale è inseparabile dall’uguaglianza nazionale, e che non si può realizzare nessuna delle due senza lotta internazionale contro l’alleanza fra i nazionalisti dell’intera regione e le grandi potenze rivali (7).
1. Altri esempi di minacce dello stesso tipo nella stampa dell’Austria (paese di origine dell’attuale Alto Rappresentante – NdT Mathieu Bonzom) su: http://www.novinite.com/articles/158040/EU+to+Consider+Intervention+in+Bosnia+if+Tension+Escalates
2. V. «Sarajevo : 1621». . http://balkans.aljazeera.net/vijesti/demonstranti-se-razisli-uspostavljen-saobracaj
3. Dall’accordo di pace di Dayton (14 dicembre 1995), la Repubblica di Bosnia-Erzegovina è composta da due entità non indipendenti, la Federazione della Bosnia-Erzegovina e la Repubblica serba di Bosnia (abbreviazione corrente: RS). La Federazione è inoltre incaricata di rappresentare l’insieme della Repubblica sulla scena internazionale. V. anche più avanti (NdT Mathieu Bonzom).
4.V. «Bosnia and Herzegovina: Fourth Review Under the Stand-By Arrangement and Request for Modification and Waivers of Applicability of Performance Criteria», Rapporto per paese N° 13/321, 1° Novembre 2013. . http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2013/cr13321.pdf
5. V. Andreja Živković, «From the market… to the market : The debt economy after Yugoslavia», in Srecko Horvat et Igor Stiks (dir.), The Rebel Peninsula : Radical Politics after Yugoslavia, Verso, di prossima pubblicazione (2014).
6. Per una storia della «lunga durata» dell’integrazione europea della Jugolasvia e dell’ex-Jugoslavia, V. Andreja Živković, «The future lasts a long time : a short history of European integration in ex-Yugoslavia», 25 ottobre 2013. . http://www.criticatac.ro/lefteast/the-future-lasts-a-long-time-a- short-history-of-european-integration-in-the-ex-yugoslavia-2/
7. A proposito di una tale alternativa internazionalista oggi, V. Andreja Živković e Matija Medenica, The Balkans for the Peoples of the Balkans.(Prossimamente in francese sul nostro sito NdT). http://www.criticatac.ro/lefteast/balkans-for-the-peoples-of-the-balkans/
* Andreja Živković è sociologo e membro di Marx21 in Serbia. Specialista della storia delle rivoluzioni e del socialismo nei Balkani, è autore di un capitolo sull’economia politica del debito in The Rebel Peninsula : Radical Politics after Jugoslavia (a cura di Srecko Horvat ed Igor Stiks, Verso, 2014, di prossima pubblicazione). Questo testo è inizialmente uscito in inglese sulla piattaforma anglofona LeftEast del sito criticatac.ro. Nella traduzione dall’inglese di Mathieu Bonzom, è stato pubblicato sul sito della rivista Contretemps : http://www.contretemps.eu.
Traduzione in italiano di A. Marie Mouni. Tratto da antoniomoscato.altervista.org