La strategia europea per il lavoro si pone come obiettivo un aumento importante del tasso di attività femminile in tutti i paesi dell’Unione europea. Questa strategia sembrerebbe essere in contrasto con le politiche, condotte finora un po’ dappertutto, tese ad incoraggiare le donne a restare o ritornare a casa. Ma, dietro un’apparenza positiva, questa strategia rappresenta in realtà l’elemento centrale di un dispositivo di flessibilizzazione e precarizzazione dei salariati che caratterizza le più recenti politiche sul lavoro e che mettono le donne in primo piano. Allo stesso tempo è un elemento rivelatore delle ricorrenti contraddizioni del capitalismo per quel che riguarda il lavoro salariato delle donne.
In seno alle istituzioni europee, la discussione su come affrontare il tema dell’uguaglianza uomo-donna è assai vecchia: è infatti stata affrontata sin dal 1975 nell’ambito di numerose direttive e raccomandazioni. La centralità di questo problema nella strategia europea del lavoro conferma e rafforza questa tendenza [1].
Si deve tuttavia constatare che molte buone intenzioni sono rimaste lettera morta, in particolare a causa dei molti ostacoli che si frappongono ad una politica di armonizzazione verso l’alto delle politiche sociali, in un’Unione europea concepita per estendere e generalizzare i meccanismi della concorrenza. Per contro, le istituzioni europee hanno spesso contribuito alla strumentalizzazione il concetto di uguaglianza a favore dell’efficacia economica [2] ed a promuovere un concetto liberale dell’uguaglianza, basato di fatto su un livellamento verso il basso; un esempio significativo di questo orientamento è l’introduzione, nel 1991, di una giurisprudenza che ha permesso alle legislazioni nazionali di non più poter vietare il lavoro notturno delle donne nell’industria. Oggi, il modo in cui è stata affrontata la questione di genere nella strategia europea per il lavoro è un elemento rivelatore del progetto di società auspicato dalle politiche del lavoro nel loro complesso.
La convergenza dei modelli in Europa
Nonostante gli ostacoli, in Europa l’attività salariata delle donne è in continuo aumento, protraendo, nonostante la crisi economica, quel movimento iniziato negli anni ’60 [3]. Se il tasso d’attività degli uomini è regredito (dal 71,8 nel 2001 al 70,3% nel 2011 nella zona euro) quello delle donne ha continuato ad aumentare (dal 52,4 al 58,2%) [4], anche lo scarto rispetto a quello maschile resta comunque superiore al 10%. Si può osservare la stessa tendenza a livello dell’Europa dei 27.
Ci pare importante fare alcune riflessioni sulla scelta del tasso d’attività quale indicatore primario della politica dell’impiego. Certamente esso ha il vantaggio, contrariamento al tasso di disoccupazione, di non essere falsificato attraverso l’utilizzazione di quelli che viene definiti i principi dei “comportamenti occupazionali” che, come è noto, nel caso delle donne indica come “inattività” quella che è una vera e propria situazione di disoccupazione. È infatti proprio a causa di questa lacuna nella definizione del tasso di disoccupazione che le statistiche avevano cominciato ad integrare, nei confronti internazionali, la nozione di “lavoratore scoraggiato” per indicare quella categoria di disoccupati che, per ragioni diverse (qualifiche non riconosciute, assenze per la cura dei bambini, mancanza di lavoro nelle regione) si ritirano dal mercato del lavoro ed entrano a far parte della categoria degli inattivi.
Ma, dall’altro lato, l’utilizzazione del tasso d’attività come unico indicatore pertinente pone parecchi problemi politici. In primo luogo, conforta le teorie delle cosiddette “trappole di inattività” che hanno consentito di affermare che la disoccupazione sarebbe dovuta principalmente alla mancanza di motivazione al lavoro da parte degli inattivi e al rifiuto dei disoccupati di accettare un lavoro qualsiasi. In queste analisi, disoccupati ed inattivi figurano nella stessa categoria e in balia delle loro scelte individuali. Il tasso di attività, inoltre, non tiene assolutamente conto della durata del lavoro, e contabilizza allo stesso modo lavoro a tempo parziale e lavoro a tempo pieno. Bisognerebbe quindi utilizzare per lo meno un tasso di attività calcolato in equivalente a tempo pieno.
Le medie relative al tasso di occupazione indicate qui sopra corrispondono tuttavia a importanti differenze tra i diversi paesi. Ma, soprattutto, va notato come questo accesso generalizzato delle donne al lavoro salariato – realizzato comunque nel quadro di una divisione sessuale dei compiti sia sul posto di lavoro che al di fuori – è avvenuto secondo modelli differenti a seconda del funzionamento del mercato del lavoro (precariato, tempo parziale, salari) che dei concetti prevalenti di famiglia e di sistemi di protezione sociale.
Molti studi hanno accertato varie tipologie che convergono – secondo i ruoli dei rispettivi Stati e delle loro regolamentazioni collettive, del mercato e della concorrenza, della sfera privata – nella riproduzione della forza lavoro (grado di “defamiliarizzazione” e di “demercificazione”).
Di fatto, incrociando i modelli di attività delle donne con le caratteristiche dei metodi di cura, si possono trovare gruppi di paesi differenti: quelli dove il tasso di attività delle donne è elevato e a tempo pieno (Finlandia) oppure a tempo parziale lungo e con congedi parentali estesi (Svezia, Francia), dove le strutture di cura collettive e pubbliche sono importanti; vi sono poi in paesi in cui l’attività salariata delle donne è poco sviluppata (Germania), o essenzialmente privata (Gran Bretagna); infine i paesi nei quali il tasso di attività delle donne è a tempo pieno ma molto debole (Italia, Spagna) e le strutture di cura poco sviluppate, restando la cura dei bambini sostanzialmente a carico della sfera famigliare [5]. Si giunge così a una tipologia che identifica i paesi come “socialdemocratici”, “conservatori” o “liberali”.
Nonostante questi modelli distinti, che rinviano sia a storie differenti dei sistemi di protezione sociale e dei servizi pubblici, così come a norme sociali diverse (nei paesi “conservatori” persiste l’idea del “capofamiglia che guadagna il pane” e la stigmatizzazione delle donne con figli che continuano a lavorare), tutto si sviluppa come se oggi, attraverso le politiche del lavoro nell’Unione europea, tutti i paesi – compresi quelli PECO (paesi dell’Europa centrale e orientale) – tendessero a convergere verso il modello più liberale (sviluppo delle strutture di cura private [6], estensione della flessibilità e del tempo parziale). D’altra parte i paesi più avanzati per quanto riguarda il tasso di attività delle donne, come quelli nordici, presentano un tasso di segregazione delle attività particolarmente elevato (separazione importante tra i mestieri fortemente femminili e gli altri) e che non tende a diminuire [7]. Costatiamo anche che gli indicatori europei della qualità del lavoro (indicatori di Laeken), pur attribuendo grande spazio a quelli relativi all’uguaglianza donne-uomini, tacciono sia sulla questione del tempo parziale che sui salari, largamente responsabili, in tutti i paesi, dell’aumento della povertà tra le donne salariate.
Una “parità” al ribasso
Nella strategia europea per l’occupazione, la presa a carico della questione di genere è avvenuta in tre tappe:
• L’accordo scaturito dall’incontro di Lussemburgo del 1997, che include la promozione delle pari opportunità nel capito quarto delle politiche dell’impiego definite da ogni Stato. Questo articolo completa quelli relativi al diritto al lavoro, all’incoraggiamento alla imprenditorialità e al rafforzamento di adeguate strutture di produzione, che fanno parte dei piani nazionali d’azione per il lavoro.
• L’incontro di Vienna del 1998, che raccomanda agli Stati di adottare un “approccio integrato” (mainstreaming) della questione di genere, come mezzo per raggiungere obiettivi di parità.
• Il vertice di Lisbona del marzo 2000 che per la prima volta definisce obiettivi quantitativi (differenziati secondo il genere) relativi ai tassi di attività della popolazione in età lavorativa.
I paesi hanno una totale libertà per quanto riguarda il raggiungimento di questi obiettivi ed i mezzi per realizzarli.
Il complemento imprescindibile di questi obiettivi è l’aumento della flessibilità e del tempo parziale, dato che non è stato fissato alcun criterio relativo né allo statuto dell’impiego né alla durata del tempo di lavoro.
Negli obiettivi intermedi si manifesta in modo evidente l’approccio neoliberale alle politiche del lavoro, declinato secondo il genere. In particolare:
• l’incoraggiamento all’apprendistato sull’arco della vita e alle misure attive di lavoro per le donne;
• il rafforzamento del diritto al lavoro delle donne e del loro accesso alle tecnologie dell’informazione, in particolare favorendone la partecipazione ai dispositivi della formazione
• i correttivi ai presunti effetti dissuasivi che scaturirebbero dalla protezione sociale e della fiscalità nel lavoro, in particolare per quel che riguarda la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Infine, l’importanza attribuita al tema della conciliazione tra lavoro e cura (da sempre considerata prerogativa delle donne) mostra molto bene i limiti della parità così concepita. Uno sforzo particolare è richiesto ai paesi nei quali le strutture di cura dei bambini sono poco sviluppati (come in Germania, nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna). Il Consiglio di Barcellona, nel marzo 2002, fissava per gli Stati membri l’ obiettivo di realizzare entro il 2010 strutture di accoglienza per almeno il 90% dei bambini tra i tre anni e l’età scolastica obbligatoria e per almeno il 33% dei bambini di meno di tre anni. Siamo molto lontani! [8]. Per di più non esiste alcun criterio di qualità, né di armonizzazione dall’alto per questi progetti di cura: siamo molto lontani dall’obiettivo di un servizio pubblico della prima infanzia: i modelli di asilo nido nelle imprese, gli asilo nido privati come gli asilo nido gestiti da genitori vengono considerati sullo stesso piano degli asilo nido collettivi pubblici. E in più, viene posto in permanenza l’accento sui congedi parentali che, come tutti gli studi sottolineano, di fatto non fanno altro che rafforzare la ripartizione tradizionale dei ruoli [9].
Da due anni a questa parte osserviamo però un cambiamento nelle raccomandazioni europee per quel che riguarda il lavoro delle donne. Dopo aver vantato per oltre vent’anni il tempo parziale come panacea per conciliare vita familiare e vita professionale, si è costretti ad ammettere che in Europa esso è responsabile della situazione di povertà e di precarietà di numerose donne e a riconoscere come oggi un lavoro a tempo pieno sia il miglior antidoto contro la povertà.
Le contraddizioni del modello
Queste evoluzioni ed incertezze delle politiche europee dell’impiego rappresentano la contemporaneità di una contraddizione, vecchia come il capitalismo, in materia di lavoro femminile. Oggi, il bisogno di mano d’opera – in particolare di mano d’opera qualificata – è incompatibile con disuguaglianze e discriminazioni troppo grandi e con un modello troppo apertamente patriarcale [10]: da questo punto di vista, la popolazione femminile rappresenta una riserva di mano d’opera qualificata, non sufficientemente sfruttata, e le discriminazioni appaiono come ostacoli ad una attribuzione ottimale dei fattori di produzione. Ma, d’altra parte, le esigenze di redditività del capitale necessitano della perpetuazione della specificità del lavoro femminile: l’attività delle donne mantiene un carattere contingente (il salario secondario è sempre più necessario, come ha confermato al promozione del tempo parziale), e il padronato continua ad aver bisogno di una manodopera che continui a rimanere con un piede nell’esercito di riserva, potendo così essere supersfruttata e precaria; continuando tuttavia, grazie al suo specifico ruolo sociale, a contribuire alla diminuzione del costo della riproduzione della forza lavoro. Da qui la permanenza della difesa del ruolo della famiglia, pur auspicando che possa evolvere – nonostante tutto – in un senso più paritario, più funzionale e “modernizzato”, ma senza rischiare di rimettere in discussione i ruoli sociali sessualizzati. Siamo ben lontani da una parità effettiva.
Conclusione: per un vero diritto al lavoro a tempo pieno per tutte e tutti
Le politiche neoliberali dell’impiego continuano a progredire e a definire una coerenza in opposizione alla quale appare più che mai necessario proporre politiche alternative di pieno impiego per tutte e tutti a tempo pieno.
Le tematiche della strategia europea per l’impiego può sembrar convergere con le rivendicazioni femministe: aumentare il tasso di attività delle donne, individualizzare le prestazioni sociali e la fiscalità, ecc.
La posta in gioco e di uscire dagli obiettivi della logica liberale e commerciale e rimpiazzarli con una logica di accesso a diritti collettivi, che costituisca una vera rottura e non un semplice miglioramento marginale. La prospettiva di una effettiva riduzione del tempo di lavoro (senza perdita di salario, senza flessibilità e con il divieto del tempo parziale imposto), la difesa dei sistemi di protezione sociale e la difesa ed estensione dei servizi pubblici, in particolare la creazione di un vero servizio pubblico di accoglienza per la prima infanzia, deve restare l’asse centrale di questa prospettiva strategica.
A livello europeo ciò implica anche l’approfondimento di modalità concrete in una logica di armonizzazione dall’alto (servizi pubblici, protezione sociale, tempi di lavoro, ecc.). Occorre anche riaffermare che il finanziamento della pensione con una ripartizione a tasso pieno, a 60 anni per tutte e tutti, porta ad una vera politica del lavoro e ad un aumento del tasso di attività delle donne a tempo pieno [11].
Attualizziamo l’obiettivo di restaurare la norma del lavoro a tempo pieno, senza flessibilità. Questa è la posta in gioco per l’autonomia delle donne.
*Stéphanie Treillet è economista e membro della Fondazione Copernic. Questo contributo è apparso sul nro 2 (inverno 2013-2014) della rivista Les Possibles, edita da Attac Francia. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà.
[1] Olivier Thévenon, « Les enjeux pour l’emploi féminin de la stratégie européenne pour l’emploi », Revue de l’OFCE, n° 90, luglio 2004, p. 379-414.
[2] Christiane Marty, « Stratégie européenne de l’emploi versus égalité hommes/femmes », ottobre 2004, http://hussonet.free.fr/lisbofem.pdf.
[3] Margaret Maruani, « Activité, précarité, chômage : toujours plus ? », Revue de l’OFCE, n° 90, luglio 2004, p. 95-115.
[4] Eurostat.
[5] Jeanne Fagnani, « Activité professionnelle des mères et politiques de soutien aux parents qui travaillent : quels liens au sein de l’Union européenne ? », Informations sociales, n° 102, 2002. Françoise Milewski, « Femmes : ‘top’ modèles des inégalités », Revue de l’OFCE, n° 90, juillet 2004, pp 11-68. Hélène Périvier, « Emploi des mères et garde des jeunes enfants en Europe », Revue de l’OFCE, n° 90, luglio 2004.pp 225-255.
[6] Mathilde Guergoat-Larivière, « L”emploi des femmes en Europe », laviedesidées.fr, 14 gennaio 2013.
[7] Christel Gilles, « Réduire la segmentation du marché du travail selon le genre et accroître les taux d’emploi féminin : à court terme, est-ce compatible ? » Note de veille du Centre d’analyse stratégique, n° 72, 10 settembre 2007. Lucie Davoine et Christine Erhel, « La qualité de l’emploi en Europe : une approche comparative et dynamique », Économie et statistiques, n° 410, 2007, p. 47-69.
[8] Antoine Math, « Structures d’accueil pour les jeunes enfants et stratégie européenne pour l’emploi. Que reste-t-il des engagements de Barcelone ? », Chronique internationale de l’IRES, n° 117, marzo 2009, p. 47-53.
[9] Hélène Périvier, « Emploi des femmes et charges familiales. Repenser le congé parental en France à la lumière des expériences étrangères », Synthèse des débats, Revue de l’OFCE, n° 90, luglio 2004.
[10] Stéphanie Treillet, « L’instrumentalisation du genre dans le nouveau consensus de Washington », Actuel Marx, n ° 44, 2/2008, p. 53-37.
[11] Christiane Marty, Femmes et retraites : un besoin de rupture, http://www.fondation-copernic.org/IMG/pdf/Femmes_et_retraites3.pdf