L’ascesa di Matteo Renzi prima a segretario del Partito Democratico e poi a Presidente del Consiglio dei ministri si è caratterizzata per una retorica di forte discontinuità rispetto al passato recente. Il consenso che ha velocemente guadagnato nell’opinione pubblica si è costruito prima sulla critica dell’incapacità del governo Letta di proporre riforme strutturali e provvedimenti coraggiosi che portassero l’Italia fuori dalla crisi, poi con la presentazione – in una conferenza stampa che sembrava una televendita – di un programma di interventi economici, sociali e istituzionali di forte impatto.
Ottanta euro nette in tasca ai lavoratori che prendono meno di 1500 euro al mese, riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, finanziamenti alle scuole, abolizione del Senato e delle Province, cambiamento della legge elettorale.
In realtà il governo di Matteo Renzi si è insediato nel segno della continuità con i governi che lo hanno preceduto. Continuità nella maggioranza che lo sostiene, trasversale rispetto ai due principali schieramenti politici fronteggiatisi alle ultime elezioni. Anche Forza Italia, che non è più nella maggioranza di governo, si astiene dal praticare una forte opposizione in virtù degli accordi sulle riforme istituzionali e del sostanziale accordo sul segno delle politiche economiche e sociali[1]. La continuità fondamentale con il passato infatti risiede nell’applicazione delle politiche di austerità che scaricano i costi sociali della crisi interamente sulla classe lavoratrice, nonostante gli annunci della prima ora.
Il miraggio degli 80 denari
La prima mela avvelenata Renzi l’ha offerta ai lavoratori con la promessa di 80 euro in busta paga per chi prende uno stipendio inferiore a 1.500 al mese. Intanto non c’è ancora alcun provvedimento concreto in questa direzione, anzi già la promessa si va ridimensionando. Nella direzione del PD dello scorso 28 marzo, Renzi ha ridimensionato la soglia dei 1500 euro mensili a 1300, la qual cosa porterebbe la percentuale dei lavoratori dipendenti eventualmente interessati dal 50% al 35%, cioè solo uno su tre, rifacendo i calcoli sui dati riportati trionfalmente dal Sole 24 ore del 13 marzo. C’è da capire poi la cifra reale che dovrebbe entrare in tasca agli eventuali beneficiari. Gli 80 euro promessi saranno erogati agendo sulla detrazione per lavoro dipendente, è quindi improbabile che saranno 80 euro per tutti, per la maggior parte saranno ancora meno. Infine gli 80 euro al mese potrebbero essere tali solo per il 2014, riducendosi a circa 60 euro già dal 2015, quando le detrazioni dovranno essere spalmate su 12 mesi anziché su 8. Ma fino a maggio c’è ancora tempo per ridurre ulteriormente e potenzialmente annullare qualsiasi vantaggio economico per i lavoratori. Renzi non è quello che “mai al governo senza elezioni”?
Il Jobs Act
Intanto una cosa certa il governo l’ha messa in campo con il decreto legge sulla riforma dei contratti di lavoro a termine e di apprendistato. Al principio il Jobs Act doveva consistere nell’unificazione delle tipologie contrattuali in una sola a tempo indeterminato, seppure senza alcun diritto per i neoassunti fino a tre anni. Nell’applicazione pratica invece che abolire le forme di lavoro precario si sono potenziate rendendole la regola anziché l’eccezione, sostanzialmente legalizzando ciò che già avviene da molti anni nella società italiana e di cui soprattutto i lavoratori più giovani hanno esperienza diretta. Il contratto a tempo determinato non ha più bisogno di alcuna causa specifica per essere attivato, e può essere rinnovato senza intervalli tra un contratto e l’altro per ben otto volte. Il che significa che nell’ambito dei 36 mesi di lavoro precario con lo stesso datore di lavoro, con un minimo intervallo tra 8 rinnovi e altri 8, il numero di contratti può essere enorme, e dopo i tre anni di precariato si può ricominciare presso un’altro padrone, non essendo previsto obbligo alcuno di assunzione a tempo indeterminato. L’eliminazione della causa dai contratti a tempo determinato era una richiesta pressante di parte padronale perché costituiva l’elemento principale cui potevano appigliarsi i lavoratori per vedere convertito il proprio contratto in uno a tempo indeterminato dal giudice del lavoro.
Se questo non fosse abbastanza per i padroni, che nel frattempo incassano anche lo sconto del 10% sull’Irap, possono sempre usare i contratti di apprendistato, che da oggi non prevedono più l’obbligo di assunzione del 30% degli apprendisti per poter attivare nuovi contratti. Non ci sarà neanche più bisogno di scrivere un “piano formativo individuale” per l’apprendista, che potrà nel pieno diritto essere un lavoratore come gli altri, ma pagato il 35% in meno.
In tutto questo rimane in piedi l’idea di smantellare ogni diritto per i lavoratori neoassunti per i primi anni di lavoro, niente garanzie contro i licenziamenti illegittimi, con l’eliminazione totale del già malridotto articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Questa parte della riforma avrà tempi un po’ più lunghi, insieme alla riforma degli ammortizzatori sociali, ma comunque il segno dell’intervento è chiaro: sempre più precarietà, ricattabilità e sfruttamento, nel silenzio-assenso dei principali sindacati dei lavoratori.
Una ricetta nuova: privatizzazioni
Sulle privatizzazioni Renzi minaccia di riprendere la stessa velocità che ha caratterizzato la furia di dismettere il patrimonio pubblico dei passati governi di centrosinistra, Prodi in testa. D’altronde le dichiarazioni del ministro dell’economia Padoan al forum della Confcommercio a Cernobbio, subito dopo la conferenza/televendita di Renzi, sono state chiare: “la riduzione della pressione fiscale si può fare solo con riduzioni permanenti della spesa”. Il governo Renzi è assolutamente intenzionato a rimanere nel quadro dei vincoli di bilancio del Fiscal Compact. Il governo ha promesso lo sblocco del pagamento dei debiti della PA alle imprese, ma del debito fiscale verso le lavoratrici e i lavoratori che subiscono il fiscal drag non se ne parla. Il pagamento dei debiti verso le imprese comporterebbe un aumento ulteriore e sostanziale del debito pubblico, se non accompagnato da un nuovo piano di privatizzazioni, alcune delle quali già avviate dal governo Letta come per le Poste e altre che sono già state annunciate, come per Fincantieri, Grandi stazioni, Stm, Enav, Sace, Eni, Cassa Depositi e Prestiti.
Inoltre la Spending Review ha segnalato che la PA impiega 85mila lavoratori di troppo, che il governo si prepara a tagliare dando un ulteriore colpo all’occupazione e soprattutto ai servizi che garantiscono i diritti fondamentali dei cittadini a partire dalla sanità e l’istruzione pubblica.
La scuola azienda
Su quest’ultimo terreno i viaggi di Renzi nelle scuole italiane ricordano il presidente operaio che si faceva fotografare con l’elmetto giallo (per non andare più indietro nella storia italiana). Mentre i media ci consegnano le immagini delle scolaresche di bambini festanti all’arrivo del Presidente (ma perché non visita le scuole superiori?) e si annunciano interventi per l’edilizia scolastica che in realtà sarebbero insufficienti anche solo a fronteggiare l’emergenza della sicurezza nelle scuole, la ministra Giannini ha chiarito che il suo modello di scuola è fortemente aziendalistico. Basta con gli scatti di anzianità per gli insegnanti, che dovrebbero invece essere retribuiti in base alla loro produttività, misurata sulla base delle ore di lezione frontale oltre quelle previste dal contratto e dei famigerati quiz Invalsi; assunzione degli insegnanti sulla base della chiamata diretta da parte dei dirigenti, con buona pace della libertà di insegnamento nella scuola pubblica. Per le centinaia di migliaia di precari che lavorano a tempo determinato nella scuola (e per cui continua a non valere il limite dei 36 mesi, cosa per cui l’Italia è sotto processo alla Corte di Giustizia europea) il destino continua ad essere quello di essere assunti a settembre e licenziati a giugno, fino a quando un taglio dopo l’altro, a cominciare da quello di un anno del percorso di istruzione, non li costringerà alla disoccupazione o a reinventarsi un mestiere e provare ad essere assunti in un altro settore, ovviamente a tempo determinato.
Il DEF e l’austerità europea
Nelle prossime settimane il governo dovrà predisporre il documento chiave dell’applicazione delle politiche di austerità europee, il Documento di Economia e Finanza. Renzi è andato in Europa per accreditarsi dagli altri capi di governo più influenti come il garante della compressione fiscale richiesta dalle istituzioni dell’Unione europea, altro che rivedere i vincoli del Fiscal Compact! Se il rapporto deficit/PIL non sarà mantenuto al 3%, come è probabile che sia portato al 2,6 o al massimo 2,8%, il taglio del cuneo fiscale che avvantaggia soprattutto le imprese ricadrà ancora più pesantemente sulle spalle (e nelle tasche) dei lavoratori e dei cittadini, che potrebbero dover fronteggiare ulteriori pesanti tagli sui servizi sociali e sulle pensioni.
Costruire un movimento per l’Europa dei lavoratori e delle lavoratrici
Il Partito Democratico ha ormai gettato la maschera, ma sono molti quelli che si ostinano a non vedere il chiaro segno di classe dietro le politiche del suo governo. La sinistra sindacale e politica in Italia deve riprendere la parola e mobilitare le lavoratrici e i lavoratori contro questo governo e le politiche di austerità dell’Unione europea. Il 12 aprile ci sarà un primo importante momento in questa direzione, con la manifestazione nazionale contro l’austerità a Roma. Bisogna lavorare perché quella data non rimanga un evento isolato, come purtroppo è rimasto quello delle manifestazioni del 18 e 19 ottobre scorsi, ma che dalla manifestazione prenda le mosse un movimento di massa in tutto il paese, nelle città come nei luoghi di lavoro e di studio. Un movimento solidale con le lavoratrici e i lavoratori che in tutta l’Europa si stanno opponendo allo strapotere della borghesia, dal Portogallo alla Grecia (il 9 aprile è previsto un altro sciopero generale), dalla Spagna alla Francia per rovesciare i governi dell’austerità, di centrodestra come di centrosinistra.
1. Sul rischio di deriva autoritaria che si cela dietro le riforme istituzionali invitiamo a leggere l’interessante articolo di Bevilaqua apparso sul manifesto (clicca qui)
Tratto da www.anticapitalista.org