La terra te lu mare, te lu sule e te lu jentu: così è definito il Salento nella tradizione popolare. Gli elementi principali della vita e della natura sono dunque così perfettamente integrati nell’ecosistema della subregione pugliese, un tempo nota come Terra d’Otranto e che comprende l’intera provincia di Lecce, quella brindisina ad esclusione della zona al confine con la Terra di Bari, e quella orientale jonica della provincia di Taranto. Una terra con circa un milione e mezzo di abitanti e tantissima storia. Il capoluogo è la città di Lecce.
Il Salento ed in particolare la parte adriatica coperta da buona parte del Leccese e dal Brindisino sono da sempre strategici: il Canale d’Otranto lo separa per meno di ottanta chilometri dalle coste dell’Albania e dall’isola greca di Corfù. E’ ovviamente vicino anche al Montenegro ed alla ex Jugoslavia in genere, non molto distante dalla parte europea della Turchia con l’antica Bisanzio. La posizione geografica del tutto peculiare di questa terra le ha consentito da sempre, nel bene e nel male, di sviluppare interazioni commerciali, culturali e politiche con il vicino Oriente europeo. La ricchezza culturale e di tradizioni del Salento sta anche nell’ospitalità accordata all’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg nel XV secolo, che la difese per 25 anni assieme all’Albania ed all’Europa occidentale dall’avanzata dei Turchi che, tuttavia, riuscirono ad espugnare nel 1480 Otranto rendendola martire (secondo la tradizione furono ottocento gli idruntini decapitati dagli Ottomani) e tagliandola fuori dai principali traffici con Bisanzio e con il Medio Oriente.
Il Salento è una terra meravigliosa, sia sotto il profilo paesaggistico che culturale. Come accennato, infatti, ha subito diverse dominazioni, a partire dai Messapi sino ai Greci (parte di esso ricadeva infatti nella Magna Grecia), ai Romani, a Normanni, Turchi, Spagnoli e via discorrendo. Ciò ha consentito la realizzazione di diverse contaminazioni culturali, che si leggono anche e soprattutto nelle facciate delle chiese barocche e romaniche, in quelle dei palazzi nobiliari, nei monumenti di città come Lecce, Brindisi e molti altri centri delle tre province.
Tutte queste qualità, unite ad un mare senza eguali e ad un clima assolutamente mite, hanno attirato e continuano a trainare le attenzioni di turisti e tour operator verso la terra del mare, del sole e del vento. Negli ultimi anni, infatti, i flussi turistici dall’Italia e dall’estero verso il Salento sono fortemente cresciuti, pur nell’ambito di una congiuntura internazionale sfavorevole. L’incidenza del turismo sul Pil regionale – dato generale comprensivo dell’aggregato pugliese – è passata dal 3,2%, nel 2006, all’8,3% nel 2013 (fonte IPRES). I dati dell’Osservatorio sul turismo della Regione Puglia (dati febbraio 2013) evidenziano che, rispetto alla media nazionale, il turismo nella nostra regione tiene bene: con un calo degli arrivi nel 2012, rispetto all’anno precedente, di appena un – 0,89% e delle presenze del -2,03% (contro il dato nazionale: -6,2% gli arrivi, -7,1% le presenze). Oltre 3,2 milioni gli arrivi e 13 milioni di presenze complessive in un anno. Il 70 % delle presenze e quasi il 60% degli arrivi in Puglia sono concentrati nelle province di Lecce e Foggia. Lo stesso Osservatorio regionale, inoltre, mette in evidenza un fenomeno da non trascurare: le stime sui flussi reali, incluso il sommerso e il non dichiarato, parlano di oltre 75 milioni di presenze turistiche in Puglia nel 2011, di cui oltre 26 milioni 792mila nella provincia di Lecce (più di 22 milioni le presenze non rilevate contro i 4 milioni sui dati ufficiali). Questo significa che esiste una quantità elevata di flussi turistici (più dell’80% nel Salento) che sfugge alle stime istituzionali per varie ragioni: tra queste occorre considerare anche la presenza di strutture di accoglienza non censite o che operano nel nero.
Nel 2012 la filiera turistica complessiva pugliese può fare affidamento su un giro di affari di 2,2 miliardi di euro. Questo dato però deve essere confrontato con le perdite nette registrate dalla filiera pari a 27,5 milioni di euro. A fronte del trend decrescente, però, i livelli di redditività sia operativa (8%) che netta (-2,5% circa), seppur bassi, hanno fatto registrare una lenta e costante crescita.
I dati delle Camere di Commercio regionali relativi al terzo trimestre del 2012, inoltre, evidenziano un aumento delle imprese attive operanti nel turismo del +3% (da 29.472 del 2011 a 30.367 del 2012) e un aumento degli addetti al turismo del +10,46% (da 122.314 del 2011 a 135.114 del2012). Il saldo della spesa turistica nel 2012 si presenta positivo (+284 milioni di euro), anche se il valore è ridimensionato rispetto all’anno precedente a causa della contrazione della spesa principalmente dei turisti italiani. A partire dal 2010 e per tutto il 2011/12 la Puglia ha trainato (insieme a Calabria, Sicilia e Sardegna) lo sviluppo e l’incremento dell’offerta ricettiva in Italia.
Brindisi: decadenza economica ed ecologica
I dati appena riportati servono a dimostrare l’importanza del turismo per l’economia salentina, tanto che sono alcuni anni che operatori ed istituzioni locali promuovono iniziative volte a destagionalizzare il fenomeno, con qualche primo risultato. L’economia agricola è da tempo in difficoltà, un po’come in tutto il Meridione, mentre a Brindisi sono anni che la zona industriale, non del tutto bonificata, è stata abbandonata dai colossi della chimica, che oltre a dare tanti posti di lavoro (Montedison), hanno inquinato gravemente l’ecosistema. Nel frattempo, negli ultimi anni, il grande porto turistico e commerciale di Brindisi, da cui partivano grandi navi alla volta di Grecia, Albania, Turchia, Montenegro, è stato fortemente depotenziato, a tutto vantaggio di quello barese. Anche il contrabbando di sigarette con le coste dei paesi frontalieri dell’Adriatico (Albania e Montenegro, in primis), è stato fortemente ridimensionato dalle forze dell’ordine.
Brindisi rimane però un importante polo energetico, con le due centrali di Brindisi Nord, gestita da A2A ed Edipower, centrale elettrica alimentata da olio combustibile, e la famigerata centrale a carbone di Cerano, la “Federico II”, di proprietà dell’Enel.
Quanto alla prima vetusta centrale, non è ancora chiaro se il nuovo gestore sia interessato a convertirla a metano, ovvero a dismettere integralmente le attività del sito, obbligata in tal caso alla bonifica ambientale del medesimo a proprie spese. La risposta è attesa entro il 30 aprile.
La centrale Enel Federico II è invece una centrale termoelettrica a carbone con una capacità totale di 2640 MW installati. Si trova presso la località Cerano, nel territorio di Brindisi. Per estensione è la seconda più grande centrale termoelettrica d’Italia. Nel documento Dirty Thirty, pubblicato nel maggio 2007 dal WWF, l’impianto è stato classificato come la venticinquesima peggiore centrale d’Europa in termini di emissioni di CO2. Aggiornamento Dicembre 2011 : è la 18esima peggiore centrale europea in termini di emissioni, la prima con riferimento alla classifica italiana. La centrale fu realizzata scandalosamente a carbone e solo a carbone, combustibile fossile altamente inquinante, grazie ad un accordo politico tra governo, Enel, Regione e Comune di Brindisi, all’epoca guidato da una giunta di sinistra, a direzione Pci. Nulla poté l’opposizione delle popolazioni interessate e del Comitato Salentino contro le Megacentrali, che organizzò con successo un referendum consultivo, ovviamente rimasto inascoltato.
L’Ilva di Taranto
A poche decine di chilometri dal Salento, c’è la città greca di Taranto, 200mila abitanti, con un altro ingombrante esempio di industria pesante e pesantemente inquinante. Ci riferiamo agli stabilimenti metalmeccanici dell’Ilva, i più grandi d’Italia, che convogliano proprio a Taranto il grosso dell’intera produzione nazionale. Lo stabilimento, oltre a creare migliaia di posti di lavoro, ha però distribuito morte e malattie.
La perizia epidemiologica commissionata di recente dalla Procura di Taranto ha evidenziato nei sette anni considerati un totale di 11.550 morti, con una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie;un totale di 26.999 ricoveri, con una media di 3.857 ricoveri all’anno, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e cerebrovascolari. Di questi, considerando solo i quartieri Tamburi e Borgo, i più vicini alla zona industriale:un totale di 637 morti, in media 91 morti all’anno, sono stati attribuiti ai superamenti dei limiti di PM10 di 20 microgrammi a metro cubo (valore consigliato OMS rispetto al limite di legge europeo di 40 microgrammi a metro cubo). Secondo il Ministero della Salute, il problema del PM10 a Taranto, seppur inferiore all’inquinamento di PM10 di molte città dell’Italia Settentrionale, è determinato dalla tipologia di inquinanti che quelle polveri sottili veicolano, mentre un totale di 4.536 ricoveri, una media di 648 ricoveri all’anno per malattie cardiache e malattie respiratorie, sono sempre attribuibili ai suddetti superamenti.
Gli esiti sanitari per cui secondo taluni esiste una “forte evidenza scientifica” di un possibile danno che potrebbe essere attribuito alle emissioni del siderurgico sarebbero: mortalità per cause naturali, patologie cardiovascolari e respiratorie, queste ultime in particolare per i bambini, tumori maligni e leucemie. Gli esiti sanitari per cui secondo taluni esiste una “evidenza scientifica suggestiva” di un possibile danno dovuto alle emissioni delle industrie presenti a Taranto inoltre sarebbero malattie neurologiche e renali, tumori maligni dello stomaco tra i lavoratori del complesso siderurgico.
La perizia epidemiologica si conclude con un’affermazione che sintetizza quella che, secondo le metodologie di rilevazione adottate, è la situazione dell’area ionica: “L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.
La crescita dei tumori in provincia di Lecce
Nonostante la provincia di Lecce non sia interessata direttamente da insediamenti produttivi o energetici fortemente nocivi per la salute, come invece quelle confinanti di Brindisi e Taranto, si registra tuttavia in essa una più alta incidenza di tumori e di morti derivanti da tumore rispetto alla media regionale. In particolare, i dati relativi al 2004 (il registro regionale dei tumori non è aggiornato) parlano, per la sola provincia di Lecce, di 2074 decessi, pari al 25,9% su base regionale, e comunque superiore di ben 3,1 punti rispetto alla media regionale. La percentuale è passata dal 23% su base regionale del 1998 al 25,9% del 2004, appunto. Più bassa invece l’incidenza proprio nel tarantino (21,9% nel 2004). Si è particolarmente registrata una recrudescenza del tumore polmonare, spesso ad esito infausto, con particolare incidenza nella popolazione maschile della provincia di Lecce, in particolare in quella residente nel distretto sociosanitario di Galatina – tra i 20 ed i 40 km a sud, sud-ovest di Lecce, e con maggiore persistenza nel territorio di Cutrofiano e di alcuni comuni limitrofi delle Serre Salentine. Si ritiene che il giogo dei venti da nord faccia concentrare proprio in questo ambito le sostanze cancerogene provenienti dagli insediamenti di Brindisi e Taranto, di tal che proprio qui vi sarebbero infezioni e decessi maggiori rispetto alle zone consedenti o confinanti con gli impianti inquinanti.
Gli studi condotti a diverso livello hanno comunque attestato la proliferazione di una varietà di agenti fortemente inquinanti e cancerogeni nell’atmosfera pugliese e salentina: a partire dall’anidride carbonica (21,23% nazionale, superiore di circa 9 punti a quella della Lombardia), e soprattutto delle diossine (Ilva, centrali brindisine etc), pari ad oltre il 90% della concentrazione nazionale, monossido di carbonio (81%), particolati (PM), al 62% dell’intera produzione nazionale.
La minaccia della Tap
Probabilmente i dati e le informazioni sopra riportate non bastano né sono bastate ad amministratori locali e non per capire quale vera e propria polveriera sia e possa continuare ad essere il Salento. Nonostante la Puglia ed il Salento, in particolare, siano più che autosufficienti in termini di produzione elettrica, tanto da esportarla grazie alle ciminiere perniciose della centrale a carbone di Cerano, nel 2003 si pensa bene di confezionare, su iniziativa di una società italiana di trading energetico ovviamente dotata delle giuste entrature politiche, la Egl, un progetto per la realizzazione di un gasdotto trans adriatico (Tap) che dovrebbe collegare la Grecia, tramite Albania, al Salento adriatico, permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio (Azerbaigian) e, potenzialmente, del Medio Oriente.
Il gasdotto dovrebbe partire da Kipoi in Grecia, dove si connetterà alla rete di trasmissione greca già esistente. Sarà lungo 800 km circa, di cui 115 km offshore nel mar Adriatico. L’altezza massima raggiunta prevista è di circa 1.800 metri sulle catene montuose dell’Albania; la profondità massima sarà di circa 820 m. Sono previste 3 stazioni di compressione lungo il percorso. È allo studio, inoltre, la costruzione di un deposito di stoccaggio in una caverna salina in territorio albanese, al fine di bilanciare l’offerta di gas diretta in Italia ed Europa. 8 miliardi di metri cubi di gas all’anno, aumentabili a 10, secondo le ultime proiezioni!
Nel febbraio del 2008, la compagnia di stato norvegese Statoil è entrata in joint-venture con la EGL dando vita alla TAP AG, società controllata alla pari, responsabile dello sviluppo, costruzione e gestione del gasdotto. A marzo del 2009 è stato siglato un accordo intergovernativo fra Italia e Albania per la cooperazione nei campi dell’elettricità e del gas e che individuava il TAP come progetto di interesse prioritario per entrambi i Paesi. Nel 2011 sono stati lanciati i progetti di monitoraggio del fondo marino e valutazione del percorso da seguire su terra in Albania e il 24 gennaio 2012 sono iniziati i monitoraggi ed i sondaggi marini di fronte la costa di San Foca, marina di Melendugno (circa 20 km da Lecce ed altrettanti a nord di Otranto) con lo scopo di raccogliere campioni dal fondale marino lungo il possibile percorso del gasdotto.
Alla fine si è deciso, almeno stando all’esito delle attività e delle perlustrazioni condotte dalla società Tap Ag, di individuare in San Foca, località di pesca e turismo, l’approdo del gasdotto e nel territorio di Vernole, a pochi chilometri dalla costa e da San Foca, il sito ove realizzare il depressurizzatore. Il 14 gennaio scorso il comitato tecnico regionale della Via (Valutazione di impatto ambientale) ha espresso il secondo parere tecnico negativo circa la realizzazione dell’opera, per il pregio dell’area individuata come approdo del gasdotto, interessata da un’importante area archeologica d’era messapica – Roca Antica – e da suggestive cale e spiagge incastonate nella scogliera; inoltre, dal progetto non si comprende come il gasdotto, una volta arrivato nel Salento via Adriatico dall’Albania, si connetterà alla rete nazionale. Non vengono indicati veri e propri siti alternativi. Benchè non vincolante, ma obbligatoria, la Via espressa dalla Regione Puglia sembra e si spera abbia un certo peso nei confronti del governo nazionale, anche se, all’indomani della crisi in Ucraina, l’opera è tornata ad essere strategica e pressoché irrinunciabile, almeno nelle dichiarazioni del governo Letta.
Nel frattempo nella zona alcuni importanti crolli hanno interessato le falesie sulla costa, con interdizione al transito ed alla balneazione da parte della Capitaneria di Porto di Otranto, anche nei pressi del possibile approdo, il che rende ancor più impraticabile l’opzione Tap.
Dall’avvio del progetto il gasdotto ha già ottenuto due finanziamenti dall’Unione Europea e l’opera continua ad essere fondamentale per l’Unione europea e per i Paesi caucasici. Tanti e tanti sono, ovviamente, gli interesse politici, economici e finanziari connessi.
Nel Salento il progetto è stato fortemente ed efficacemente ostacolato dalle popolazioni coinvolte: il Comitato No Tap nasce nel 2011 per opporsi alla realizzazione del gasdotto non solo a San Foca, ma in qualsiasi altro luogo. E’ un comitato di base cui partecipano associazioni di cittadini, associazioni ecologiste (Wwf, Legambiente etc), i comuni costieri interessati (Melendugno, Vernole) con Caprarica di Lecce e Castrì di Lecce, cui se ne aggiungeranno altri, associazioni di categoria. Melendugno, per altro, ha ricevuto la Bandiera Blu Europea e le 5 Vele di Legambiente. La realizzazione di un impianto di questo tipo ovviamente creerebbe forti danni al turismo e rischi di incidenti che, sinora, nella casistica disponibile, descrivono scarsi e modesti danni antropici a causa della collocazione delle strutture in zone desertiche o pressocchè disabitate. Nel caso di Tap, invece, il gasdotto, in uno all’impianto di depressurizzazione, cadrebbero in zona a medio/alta densità abitativa.
La vicina Otranto è interessata da un altro progetto di gasdotto, Poseidon, sottoscritto da Italia, Grecia e Turchia. Poseidon dovrebbe consentire dal 2016, l’importazione di gas naturale proveniente dal Mar Caspio, dal Caucaso e dal Medio Oriente. La lunghezza complessiva dell’interconnessione dovrebbe essere di circa 800 km. Il tracciato del gasdotto comprenderebbe una stazione di compressione e misura in Grecia, una sezione sottomarina con profondità massima di 1370 m ed uno spiaggiamento in Italia, a sud del porto di Otranto, con annessa cabina di misurazione. Nel 2006 il progetto è stato incluso e finanziato dall’Ue tra i progetti di interesse europeo, proprio come Tap. Questo a soli venti chilometri a sud di Tap!
I rifiuti tossici
Da un po’ di mesi non si fa altro che parlare, nel Salento, di eventuali rifiuti speciali e tossici interrati sotto strade e campagne. Un pentito della camorra dei casalesi, Carmine Schiavone, nell’illustrare alla magistratura la mappa dei rifiuti tossici sotterrati illecitamente nel sud Italia, si è soffermato anche sulla Puglia e sul Salento, dicendo che, sino al 1991, il Sud sino alle Puglie, è stato interessato da un intenso traffico di rifiuti tossici provenienti dall’Italia ma anche da altri paesi europei.
Grazie alla collaborazione di un altro (ex) uomo di mafie, Silvano Galati, di Supersano (uomo forte del clan della Scu del Sud Salento fino al 2005, poi prezioso collaboratore di giustizia che ha svelato alleanze criminali e fatti di sangue) sono stati indicati agli inquirenti della Dda Antimafia di Lecce i siti in cui erano stati interrati rifiuti. L’indicazione, rimasta top secret, è stata verificata nel più stretto riserbo. Solo recentemente, dopo il clamore delle dichiarazioni del pentito dei casalesi Carmine Schiavone, si è appreso che il suggerimento di Galati era stato verificato e che l’accertamento ha svelato una situazione ancora più drammatica di quella descritta dal collaboratore di giustizia. Il sito indicato da Galati, infatti, rientra nell’ambito di una vasta area, trasformata in un cimitero di rifiuti.La zona si trova nelle campagne intorno a Casarano e abbraccia aree industriali ed agricole.
C’è da rilevare che in un primo momento il Procuratore Capo della Repubblica di Lecce, al contempo anche responsabile della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, Cataldo Motta, non aveva dato peso alle parole di Schiavone e Galati, ritenendo che il fenomeno mafioso in provincia di Lecce fosse ormai sotto controllo, ed escludendo inoltre che le mafie locali si siano mai dedicate al traffico ed allo smaltimento illecito di rifiuti. E’ stata necessaria la denuncia del senatore pentastellato Maurizio Buccarella, con tanto di foto aeree relative alla dichiarazione di Galati, per indurre la Procura a riaprire l’inchiesta.
L’operazione per accertare la presenza di rifiuti nel sottosuolo è stata coordinata dal sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone,. Raccolte le verità di Galati, il magistrato ha fatto intervenire anche un mezzo aereo del Noe, il Nucleo operativo ecologico dei carabinieri. Il velivolo dotato di una strumentazione d’eccezione ha sorvolato la zona. Una sorta di georadar, montato fra le apparecchiature di bordo, ha consentito di individuare l’area in cui sono stati sepolti rifiuti. Si tratta di una zona così vasta da rendere impossibile la verifica della tipologia di rifiuti. I veleni interrati sono ancora lì!
Altri rifiuti pericolosi interrati sono stati trovati in questi giorni nel Basso Salento, in una zona comprendente i comuni di Tricase, Alessano, Tiggiano e Patù. In particolareaTricasela Guardia di finanza ha trovato in questi giorni scarti di pellami ealtri rifiuti all’interno di quella che fino al 1995 è stata la discarica della spazzatura del Comune. I ritrovamenti sono dovuti all’azione delle ruspe che stanno lavorando per l’ampliamento da due a quattro corsie della strada statale che da Maglie conduce fino a Leuca. Gli scavi hanno portato alla luce anche rifiuti chimici e di provenienza ospedaliera.
Già il 4 aprile scorso, in territorio di Alessano, in un’area di 6.400 metri quadrati in contrada Matine venne riportato alla luce un vecchio deposito di rifiuti pieno di scarti della lavorazione delle industrie del calzaturiero. A poca distanza, nei pozzi artesiani, sono state trovate tracce di diossina, sebbene sotto la soglia di pericolo. A Patù, località di insediamento di vecchi e nuovi calzaturifici, a tre metri di profondità nel sottosuolo i carabinieri del Noe hanno trovato un quantitativo indefinito di rifiuti costituiti da scarti della lavorazione industriale di pellame.
Dopo questi pericolosissimi ritrovamenti, la Procura della Repubblica di Lecce ha disposto l’effettuazione di ulteriori carotaggi in agro di Tricase: vi è un serio rischio di contaminazione dalle diossine delle acque destinate non solo all’agricoltura.
La crescente consumazione del territorio salentino
In questi ultimi anni si assiste e si assisterà ad una crescente, rapida e nociva consumazione di territorio, non solo per la costruzione di nuovi edifici semmai su terreni già classificati come edificabili. E’ pur vero che un’edilizia in crisi punta ancora alla costruzione di nuovi immobili, soprattutto residenziali, nonostante un consistente calo della domanda di abitazioni e della concessione di mutui da parte del sistema bancario. Il problema sta invece nella costruzione ed ampliamento di strade già esistenti.
Il caso più noto e più eclatante è quello della Regionale 8, progetto approvato con difficoltà e previsto dalla Regione Puglia già 25 anni fa. La strada nell’ultima variante stimolata dall’intervento dei principali comuni interessati (Lizzanello, Vernole, Melendugno, Lecce) verrà realizzata con un risparmio di territorio del 30% rispetto alla precedente versione, grazie ad un accordo con la Regione. Si tratta di un’opera inutile e faraonica che collegherà Lecce, passando per la strada provinciale esistente sino a Melendugno e le sue marine, proprio a Melendugno ed al Mare Adriatico. Si tratta della stessa zona che dovrebbe essere interessata dal gasdotto Tap.
Non pochi tratti saranno interessati da un brutale raddoppio delle corsie (già in fase di realizzazione), con danno all’ambiente e con l’abbattimento di migliaia di ulivi, molti anche secolari. Quest’ultimi dovrebbero però essere risparmiati dalla morte e trasferiti altrove: questo stabilisce la normativa regionale in materia. Va detto che l’impresa interessata ai lavori è quella Leadri amministrata dal costruttore Mario Palumbo con diffusi interessi economici e finanziari, dentro e fuori il Salento. La famiglia Palumbo aveva, tra l’altro, una significativa partecipazione azionaria in quella Banca 121 acquistata a peso d’oro dal Monte dei Paschi di Siena nel 1999, la cui cessione ha arricchito non poco la famiglia.
La realizzazione dell’opera è stata ostacolata da un ampio fronte , dalle associazioni ambientaliste al Movimento Cinque Stelle, ad associazioni di cittadini, alle stesse amministrazioni comunali, con pesi e modalità diversi.
La strada dovrebbe servire a rendere più sicura la viabilità ed a servire i movimenti dei turisti verso le marine di Melendugno nel solo periodo estivo, ma l’impatto ambientale è insostenibile e le dimensioni della nuova strada sono in molti punti sproporzionate all’uso.
Anche il raddoppio della Strada Statale 275 Maglie – Leuca oggi in standby a causa del ritrovamento di rifiuti tossici proprio in corrispondenza del tracciato della nuova strada, costituisce un significativo apporto alla consumazione del territorio del Salento. Dopo corsi e ricorsi agli organi giurisdizionali amministrativi, nel 2013 il Tar di Lecce ha sbloccato i lavori, seguiti da un’Ati, risolvendo a danno dei ricorrenti (Gruppo Matarrese) esclusi dall’aggiudicazione dell’appalto, il ricorso presentato. E’ l’opera più imponente tra quelle progettate nel Salento nell’ultimo trentennio: riguarda ben 15 Comuni ed ha un costo a molti zeri, lievitato negli anni fino a 288 milioni di euro (152 milioni di fondi Cipe e 135 milioni di fondi Fas 2000-2006 della Regione Puglia).Un’opera di quasi 40 km che prevede per quasi tutta la percorrenza il raddoppio delle attuali due corsie, con espropri a danno non solo dell’ambiente, ma anche di attività di produzione agricola. Le popolazioni ed i proprietari dei fondi, riuniti in un comitato, hanno ostacolato anche a forza di carte bollate, sino all’ultimo la realizzazione dell’opera, battendosi per ottenere quanto meno delle varianti per ridimensionare la consumazione del territorio: anche qui ci sono ulivi, alcuni secolari, ed il Sud Salento è una zona di grandissimo pregio paesaggistico e dunque turistico. Quindi, secondo il comitato, l’ampliamento potrebbe essere molto più contenuto, solo se giustificato da esigenze di messa in sicurezza della viabilità e nel maggior rispetto possibile della preesistente configurazione dei fondi confinanti interessati da procedure espropriative.
Il caso Nardò
Nardò, con i suoi circa 33mila abitanti, è il centro più popoloso della provincia di Lecce, ovviamente dopo il capoluogo. Dispone di un territorio amplissimo, che si estende sino al confine con la provincia di Taranto, per circa 190 kmq. Il fiore all’occhiello di questa cittadina salentina, che si sviluppa anche sul mar Jonio, è il Parco naturale regionale Porto Selvaggio e Palude del Capitano, assolutamente tutelato.
A pochi passi dal Parco, a nord dell’abitato di Sant’Isidoro, nella marina di Nardò, c’è la Sarparea. Un oliveto monumentale, una foresta di ulivi cresciuti su una zona rocciosa. Nel mezzo dell’oliveto, sulla parte più alta, domina la masseria Sarparea de’Pandi e tutto intorno, sparsi tra gli ulivi, ci sono ancora oggi i resti di antiche fornaci, stradine selciate e sorgenti d’acqua dolce. Un recinto di muretti a secco che racchiude storia e natura nel mezzo di uno dei tratti di costa che più ha subito, negli ultimi decenni, la mano pesante del cemento.
La zona è interessata da un progetto ostacolato dagli ambientalisti, ma approvato e confermato nella sua validità recentemente dal Tar di Lecce, di un mega-resort disseminato tra gli ulivi e un porto turistico da 624 posti barca: il progetto è stato elaborato da “Oasi Sarparea Srl”, una società di immobiliaristi inglesi guidata dalla londinese Alison Deighton. L’uliveto ha un estensione di 25 ettari, il progetto invece ricomprende un’area di 16 ettari nei quali sono previsti 130.868,85 mc di costruzione e 41.023,15 mq di superficie coperta.
Un primo progetto prevedeva l’abbattimento degli ulivi ma è stato seguito da un secondo, quello attuale che prevede invece la realizzazione di tutta l’opera sotto forma di costruzioni e moduli abitativi sparsi tra gli spazi vuoti degli ulivi, senza l’abbattimento degli alberi. E’ evidente però che la realizzazione di tali e tanti moduli abitativi avrà quali conseguenze il totale snaturamento della zona e la deprivazione del naturale paesaggio dominato dagli olivi. La realizzazione dell’insediamento turistico e’ stata ampiamente avallata dal Comune di Nardò con il suo Prg del 2002, che ha previsto la lottizzazione praticamente di tutta la zona di S.Isidoro, ma bocciata nel 2012 dalla Regione. Nel proprio provvedimento la Regione evidenziava infatti come il progettato intervento prevedesse “la realizzazione di volumi edilizi e opere annesse su aree che (…) risultano insistere in un contesto rurale di alta valenza paesaggistica connotato dalla consistente presenza di alberature di ulivo significative per dimensione e testimonianza storica (…). Pur non prevedendone l’espianto (…) queste sono dislocate secondo un assetto posto in continuità naturalistico-ambientale con le aree rurali adiacenti costituendo, nell’insieme, un ambito significativo da un punto di vista identitario e paesaggistico. Inoltre, l’intervento appare impattante rispetto al contesto di riferimento (…) introducendo un diverso uso del suolo e una eccessiva pressione antropica che contrastano fortemente con la natura rurale dei luoghi, interferendo negativamente con la percezione d’insieme del paesaggio costiero e del paesaggio agrario (…), modificando l’assetto idrogeomorfologico d’insieme, ed essendo la tipologia stessa dell’intervento particolarmente impattante e fondamentalmente incompatibile con la natura stessa dei luoghi e con gli obiettivi di salvaguardia dell’assetto attuale, di per sé già altamente qualificato”.
Il Tar di Lecce però ha dato ragione ad Oasi Sarparea Srl, ritenendo non decisive le argomentazioni della Regione Puglia.
Tratto da www.antoniomoscato.altervista.org