Tempo di lettura: 16 minuti

Nelle rivoluzioni borghesi europee del 1848-1849, che rimossero o fecero salire sulla scena della Storia una serie di nazionalità oppresse, era tipico che, se aumentava la forza e la voce del movimento ucraino, lo dichiarassero immediatamente una “invenzione” di qualche “potenza straniera” o dell’immancabile machiavellico Bismark, o dello “Stato Maggiore tedesco”, o addirittura del Vaticano. L’Ucraina costituiva una pseudo terra irredenta. Sulla stampa rivoluzionaria borghese gli ucraini erano etichettati come un popolo astorico, controrivoluzionario, di “contadini e di popi”.

Quando Engels, nel 1890, scrisse a Ginevra per il Sozialdemokrat russo un saggio su “La politica estera dello zarismo” (naturalmente messo all’Indice da Stalin), gli editori, Vera Zasulič e il padre del marxismo russo, Plechanov, protestarono scandalizzati da un passo in cui l’autore definiva gli ucraini una “specifica nazionalità, diversa dai russi”, che erano stati annessi “con la forza” nel 1772. Il marxismo ortodosso russo, dal quale si sviluppò il nazionalbolscevismo stalinista, trattava gli ucrainofili (ex “ruteni” sotto la nobiltà polacca e sotto lo zarismo) con disprezzo e ostilità. Non era raro che, tra il 1918-1919, l’Armata Rossa fucilasse la gente in Ucraina solo perché parlava l’ucraino, lingua che sarà considerata “controrivoluzionaria” all’epoca di Stalin.

La politica di Lenin rispetto alle nazionalità cercò di porre un qualche rimedio alla situazione. L’incomprensione della nazione ucraina (o di quella polacca, di quelle finlandese, lettone, bielorussa, georgiana, o armena) costò al Partito bolscevico tre anni di cruenta guerra civile e di sanguinosa divisione interna. Alla fine l’Ucraina perse la propria indipendenza nel 1922, nell’inversione di clima della repressione di Kronstadt, delle rivolte di Tambov e della restaurazione capitalistica dello Stato con la NEP (Nuova politica economica). L’incomprensione giunse a tal punto che Lenin prese misure radicali contro lo sciovinismo russo bolscevico in seno all’apparato statale e a quello del partito nella sua sezione ucraina (creata dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nell’aprile del1918, composta per la maggioranza di russi! e che rappresentava lo 0,2% della popolazione ucraina), le cosiddette “misure di “indigenizzazione” (o Korenizatsya). Si dovette attendere la fine del 1920 perché finalmente l’Ucraina avesse degli ucraini nella struttura del PCU (Partito comunista ucraino) e in quelle dello Stato. In quegli anni, in seno allo stesso PCUS si levavano voci ostili ai rapporti “colonialisti” di Mosca con Kiev. Naturalmente, la “indigenizzazione” concepita da Lenin cessò e si invertì a partire dal predominio di Stalin nel 1929. La sanguinose purghe ebbero inizio nel PCUS nel 1933, i detenuti (giustiziati) vennero accusati, ironia della Storia, come cripto fascisti e terroristi “nazionalisti degenerati”. Si proibì la lingua ucraina e si impose il russo come lingua ufficiale. Per questo si può dire che la questione ucraina va considerata il “punto nevralgico” del socialismo e del comunismo russi, ieri come oggi.

La maggior parte delle analisi e dei commenti degli autori di sinistra sull’Ucraina e la crisi in Crimea – ma vale anche per qualsiasi analisi di analoghe crisi mondiali (Libia, Siria, ecc.) – sono costruite in forma schematica, su “cattive astrazioni”, generalizzazioni lacunose, nel senso che non si tratta di veicoli concettuali adeguati per capire la concrezione reale e che possiamo sintetizzare così: “il nemico del mio nemico è mio amico”. Il grande nemico è il despota unico del mercato reale, gli Stati Uniti. Si tratta di una logica binaria, manichea, teologica, non necessariamente ancorata alla lotta di classe ma a un antimperialismo meccanico a una sola testa. O Napoleone o la Santa Alleanza, in modo sbrigativo e irrazionale.

Questo è antidialettico, è incapacità di immaginare che “il nemico del mio nemico possa anche essere mio nemico”. Non vi è, in questo caso, “analisi concreta della situazione concreta”, né esistono le complessità della Storia, né le sfumature e le interrelazioni imposte dalla totalità stessa. Anche se nella nostra tradizione rivoluzionaria disponiamo di linee di azione materialiste in politica estera (l’esperienza democratico-borghese di Engels e Marx sul problema delle nazionalità tra il 1849-1850; l’esperienza di fronte ai conflitti internazionali della I Internazionale, Zimmerwald, ecc.), i nostri strateghi antimperialisti le dimenticano, le ignorano o, peggio ancora, non le hanno mai lette. Tutto si riduce a una contraddizione fantasiosa, semplicistica e rozza. Nessuna sottigliezza, o bianco o nero, a partire da una “Realpolitik” elementare.

C’è una rivoluzione democratica pressoché classica a Kiev che rovescia un governo autocratico e corrotto? La si riduce in chiave cospirativa, come i ruteni nel 1848-1849, a una “invenzione”, a un prodotto artificiale degli USA, a un “colpo di Stato” del Pentagono, a un “putsch” con la supervisione dell’Unione Europea, ecc. Qui i colori della Storia diventano “bianconeri” in modo stridente. Che l’imperialismo (statunitense o di qualsiasi altra nazione) possa intervenire effettivamente in un mondo multipolare e globalizzato per orientare una rivolta popolare verso i suoi meschini interessi e i suoi fini canaglieschi è cosa ovvia. Non si potrebbe però riflettere che a noi “marxisti” non interessano le sottigliezze della “Realpolitik” borghese o alla Kissinger: né ci interessa il gioco di scacchi delle cancellerie alla Richelieu, ma quello che è il motore autentico della Storia: le masse lavoratrici ucraine, il loro problema nazionale, le loro organizzazioni, le loro parole d’ordine, le loro novità organizzative (gruppi di autodifesa, forme consiliari e di autogestione), il loro ruolo nel movimento “Maidan”, le loro direzioni, il loro rapporto con il sistema dei partiti, la situazione di doppio potere a Kiev, il contenuto delle rivendicazioni popolari (perché vogliono separarsi definitivamente dalla Russia, andarsene verso l’Europa, ecc.), le contraddizioni inerenti a qualsiasi rivoluzione democratica e il ruolo delle oligarchie, la ragione del loro carattere insurrezionale, il congelamento della rivoluzione in un mero cambio di gruppo dirigente, la stessa storia economico-sociale dell’Ucraina indissolubilmente legata all’oppressione russa, ecc.? E il tipo di indagine materialista non dovrebbe forse cambiare in sintonia con l’oggetto? Non riguarda questo la massima metodologica leniniana? In questa caricatura marxista la natura dell’oggetto non esercita assolutamente alcuna influenza sulla ricerca critica materialista. Si vuole, si desidera che la ricerca su una crisi internazionale sia seria, anche se – come diceva Marx – l’oggetto ride. Si affronta la verità come un oggetto astratto, trasformando l’arma della critica in un semplice giudice istruttore esterno, che si limita a tirar fuori un attestato spoglio e binario.

Una sollevazione popolare (con milioni di persone che vi partecipano per mesi) che rivendica meno povertà e corruzione e più democrazia si riduce con un tratto di penna a un ben orchestrato “colpo di Stato nazista” di Obama o di Cameron o della Nato (fa lo stesso), uno “script [programma informatico] predisposto”, quando invece, in realtà, si sono rispettati tutti i meccanismi costituzionali, previsti dalla stessa Costituzione ucraina (un “impeachment” votato dagli stessi deputati del partito del deposto Yanukovič!). Il movimento “Maidan”, plurietnico (ucraini, russi, polacchi, tatari, ebrei, ispirato all’attivismo di uno studente afgano e musulmano, Mustafa Nayem) e trasversale, socialmente complesso e contraddittorio, con ampia rappresentanza giovanile e studentesca (il 38% dei partecipanti avevano un’età compresa tra i 15 e i 29 anni) come ogni movimento sociale, con un vasto sostegno popolare (in alcune regioni dell’Ucraina arriva all’84%), viene imbottigliato in un’etichettatura di comodo, riducendolo alla minoranza fascista raccolta intorno a “Pravyi Sektor”. Una caricatura degna di un realista borghese.

L’ultradestra e la destra euroscettica “Svoboda”, che ottenne il 10,4% dei suffragi nel 2012, ben meno di tanti partiti di estrema destra in Francia o in Italia (ideologicamente molto simile al Partito repubblicano statunitense), non sono state né sono predominanti in Maidan. Il Pravyi Sektor, che presenterà per la prima volta la sua candidatura alla presidenza nelle elezioni fissate per il 25 maggio 2014 (strano “colpo di Stato nazista”, con un partito ebraico e che applica ricette neoliberiste, che paradossalmente convoca libere elezioni senza alcuna preclusione ideologica, cui parteciperà liberamente il filorusso Partito comunista d’Ucraina), non arriverebbe, stando ai sondaggi elettorali, neppure alla soglia minima del 2%. Quanto a Svoboda, le intenzioni di voto lo danno intorno al 4%.

Il gabinetto del governo transitorio, etichettato dalla Russia come “neonazista”, composto di venti incaricati, in sede di voto parlamentare ha concesso 4 poltrone al partito “Svoboda”, ma va segnalato che parti importanti del movimento Maidan e il partito dell’ex pugile Klitčo (ADUR, “Alleanza democratica ucraina per la riforma”, al quale i sondaggi attribuiscono un 23% di intenzioni di voto) non sono voluti entrare a far parte dell’interim. Naturalmente dobbiamo pretendere dal movimento Maidan che si liberi di questi falsi alleati, di questi pericolosi compagni di strada, che si separi da questa deriva nazionalista e superi lo Stato nascente.

Non ci meraviglia che, con la stessa meccanica visione del mondo ispirata al Diamat stalinista, tanti socialisti e comunisti dell’epoca giustificassero la guerra contro la Polonia (e l’occupazione dell’Ucraina occidentale ripopolata da nativi russi, dalla quale si deportarono in Siberia e in Asia centrale circa un milione di polacchi, ucraini ed ebrei), la guerra contro la Finlandia del 1940, la repressione degli operai tedeschi a Berlino nel 1953, l’invasione dell’Ungheria nel 1956, l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, ecc. ecc.

Nella tribù filorussa (lo sapranno che la Russia non è più l’Unione sovietica?), a partire dall’errata dicotomia, si riduce tutto a un fantasmagorico “neonazismo” che non ha bisogno di dimostrazioni, riecheggiando la retorica sciovinista del Cremlino e di Russia oggi; si impongono vuote categorie di un curioso “antifascismo senza fascismo”, un ritorno grossolano alle analisi della Guerra Fredda, che arriva addirittura alla volgare disinformazione e all’ignoranza supina. Si aggiunge a questo un apparente dato empirico: a Kiev un “colpo di Stato” c’è stato, un’asserzione senza prove che non siano le referenze del deposto corrotto Yanukovič e i rozzi cliché della propaganda russa, e con questo si rilancia la distorta equazione. Un “colpo di Stato” può definirsi, ricorrendo a un manuale scolastico di politologia, un’improvvisa e decisiva presa illegale del potere governativo ad opera di un gruppo relativamente ristretto di politici e militari (il più delle volte, i colpi di Stato cominciano e sono diretti da ufficiali degli alti gradi militari), normalmente con l’arresto, l’interdizione o l’uccisione del capo dell’esecutivo in carica e dei suoi principali sostenitori nel governo, C’è forse stato un colpo di Stato contro Yanukovič il 22 febbraio 2014?

Possiamo constatare qualche elemento di questa logica nella Verkovna Rada di Kiev. Yanukovič ha subito la destituzione tramite il meccanismo costituzionale dell'”impeachment”, così come così come lo recepisce la Costituzione ucraina, sia nella versione del 1996 sia in quella del 2004 (art. 111); e c’è di più: lo stesso Partito delle Regioni di Yanukovič ha votato per la sua destituzione legale, con votazione di 328 a favore e nessuno contro (su 447 deputati nominali, hanno votato a favore della misura i tre partiti maggioritari). Anche Clinton ha subito un impeachment, si è trattato forse di un “colpo di Stato”?

Un altro degli elementi che si introducono per banalizzare e screditare il movimento Maidan è l’accusa automatica di essere “neofascista”, per cui si aggiunge al paradigma “realista” un curioso “antifascismo senza fascismo”, che consente le più straordinarie torsioni e manipolazioni della Storia reale. Ma che cosa intendiamo allora per fascismo?, che cosa si intende per “colpo di Stato nazista”? Il fascismo, come categoria politica con una sua propria peculiarità nella teoria marxista, può definirsi a grandi linee una forma estremamente reazionaria di governo capitalista basato su un nazionalismo militarista, anticonservatore, antiliberale e antimarxista, una forma che in genere instaura la dittatura di un partito unico. Può definirsi con questi tratti il governo interinale ucraino, pieno di vecchi politici, neoliberisti e oligarchi conservatori? Di certo si tratterebbe di un “governo neonazista” peculiare, visto che alla sua testa c’è come Primo ministro Arseniy Yatseniuk, un “ebreo ucraino” che lascia legalmente esistere il Partito comunista ucraino e perseguita a morte i capi neofascisti ucraini!

Il fatto strano è che, se esiste una deriva fascista reale e non fantasiosa, questa si sta manifestando non a Kiev ma all’Est, a Mosca. L’ideologia imperiale di Putin, e i suoi alleati nazionalbolscevichi come “spirito del tempo”, raccolgono in sé quasi tutte le condizioni di un’autentica deriva verso forme fasciste. Per non parlare dei sostegni incondizionati raccolti in seno allo spettro dell’ultradestra europea, dall’Ungheria alla Spagna passando per l’Olanda. Non ci soffermeremo qui ad analizzare le mete imperiali di Putin, i suoi tentativi di ricostruire una Russia-URSS capitalista. Le istruzioni per l’uso sono elementari: si sostituisce nella dogmatica equazione dell’antimperialismo unilaterale il termine “URSS” con quello di “nemico del nostro nemico” ed è fatta. Come diceva ironicamente Marx di Urquhart: questi notisti, se non fossero spagnoli vorrebbero essere russi; se non fossero ormai atei, ambirebbero ad essere degli ortodossi russi.

A questi indignati analisti, per i quali l’imperialismo (yanqee) è la sola cosa che conti in una crisi geopolitica e rappresenta il soggetto negativo al centro della critica, anziché le classi proletarie e la loro emancipazione, va detto che in questo caso sono stati l’imperialismo russo di Putin e lo Stato-Mafia capitalista russo (e i suoi oligarchi alleati dell’Est dell’Ucraina), il suo militarismo senza fine, la sua democrazia a bassa intensità, quelli che hanno collocato e sostenuto al potere Yanukovič, dal punto di vista politico ed economico. L’imperialismo “putinesco”, con una serie di interventi militari dello stesso stampo della Crimea (Cecenia, Nagorno-Karabakh, Georgia) e la creazione di frustrati Stati satelliti (Abkhazia, Ossezia del Sud, Transnistria) non riconosciuti dalla comunità internazionale. Sì, compagni, c’è più di un imperialismo che opera in Ucraina.

È questo imperialismo reale e concreto che va, in primo luogo, messo a fuoco e criticato. Per non parlare dello pseudo-referendum “Kalashnikov” che viola la stessa Costituzione ucraina (art. 73), svolto con una rozza invasione militare della Crimea da parte di truppe russe senza insegne, ironicamente ammantata da cinico “intervento umanitario” in favore di russi-non ucraini minacciati (quando l’unico russo morto nella rivoluzione ucraina – ricordiamone il nome: Igor Tkachuk – era un militante del movimento Maidan ed è stato ucciso a Kiev per mano di franchi tiratori dei temibili “Berkut”), violando l’accordo sull’integrità dei confini di Alma Ata (1991), accordo firmato proprio dalla Russia nel 1994 per “denuclearizzare” l’Ucraina (Memorandum di Budapest), e quello sulla flotta russa del Mar Nero, violando la stessa Carta dell’ONU e la stessa legalità che regge la comunità delle nazioni e i rapporti internazionali de facto, legalità che sosteniamo in qualsiasi occasione: non l’abbiamo inalberata in Iraq, in Afghanistan, ecc.?

Questa legalità, che si è andata formando a partire dalla costituzione dell’ONU, può sintetizzarsi in sette punti: 1) Esiste una comunità internazionale di Stati indipendenti; 2) Questa comunità ha una Legge che stabilisce i diritti dei suoi membri (soprattutto in due ambiti esistenziali: integrità territoriale e sovranità politica; 3) Qualsiasi uso della forza o minaccia imminente della forza da parte di uno Stato contro la sovranità politica o l’integrità territoriale di un altro Stato costituisce un’aggressione e un atto criminale; 4) L’aggressione legittima due classi di risposta violente: a) una propria reazione difensiva da parte della vittima o b) una guerra in difesa della Legge di convivenza internazionale, sia da parte della vittima sia da quella di qualsiasi altro membro della società internazionale; 5) Niente se non l’aggressione può legittimare la guerra; 6) Una volta che lo Stato aggressore è stato ricacciato militarmente, può anche essere sanzionato; 7) Se gli Stati sono membri di una comunità internazionale, soggetti di diritto, debbono anche essere oggetti di sanzioni.

E invece, accanto alla logica primitiva e binaria, l’antimperialismo unilaterale, la trita cantilena de “il nemico del mio nemico è mio amico” ci procura un’ulteriore sorpresa. A sostegno dell’anti-nordamericanismo radicale e astratto (coincidente per larga parte dei suoi topici con l’estrema destra europea) e dell’errata dicotomia, c’è soggiacente un’altra idea non di certo premarxista ma preborghese, di prima della democrazia, ed è quella per cui i nostri critici e la stessa linea ufficiale di molti partiti di sinistra si muovano comodamente all’interno del paradigma “realista” dei rapporti internazionali. Sostituiamo pure Lenin con De Gaulle!

Il paradigma realista (PR) – presente da oltre cinque secoli nella tradizione europea – presuppone come soggetto centrale lo Stato, che costituisce ed è per questa impostazione l’entità principale. Si tratta di un’ideologia “stato-centrica”, basata su Machiavelli, Hobbes, Spinoza, sulla Macht Politik tedesca, sulla dottrina dello Stato-Potenza, che presuppone lo Stato come organicità piena. Nel PR, sorto prima della democrazia moderna, pur considerando che all’interno e al di sotto dello Stato esista qualcosa come una comunità con cittadini-membri, non si tiene comunque presente la figura di una “società civile”, ed è indifferente per il giudizio del realista politico se questa sia libera, autonoma, se elegga i propri dirigenti, se la comandi un satrapo, ecc. Lo Stato è l’organizzazione territoriale che monopolizza gli strumenti di violenza all’interno (sovranità interna) e chi detiene il potere sono i detentori in ultima istanza della decisione in materia di rapporti con l’ambiente esterno (sovranità esterna). Lo Stato persegue le sue mete e struttura la propria agenda autonomamente dalle classi dominanti e dai rapporti di dominio interni. In secondo luogo, nel PR ciò che domina i rapporti fra questi Stati è la legge della giungla, l’anarchia estesa non come mancanza di ordine (per i “realisti” esistono potenze egemoni, alleanze e rapporti gerarchici chiari) ma come assenza di autorità centrale. È ovvio che l’ideologia del PR è nata nell’Europa “anarchica” del 1700, effettuando la transizione tra l’Assolutismo e il nuovo Stato borghese, senza reti istituzionali né accordi che andassero oltre l’unilateralità. Il PR costituisce una visione statica, anche reazionariamente ciclica della Storia (la perenne alternanza tra pace e guerra, tra forte e debole, tra nemico principale e nemico secondario, tra integrazione e disintegrazione, ecc.). L’anarchia come presupposto assoluto è quel che spinge all’uso della forza, è per i “realisti” una componente irrinunciabile dei rapporti tra Stati che devono attenersi come legge bronzea al “Self-Help”, preoccuparsi in qualsiasi momento della propria sopravvivenza, per cui le relazioni internazionali stanno sempre all’ombra della guerra. Il terzo elemento di fondo del PR è l’idea che lo Stato è sempre considerato un “attore unitario”, che opera razionalmente sulla scena internazionale, valutando costi e benefici, il proprio comportamento per salvaguardare la propria sopravvivenza e i propri “interessi vitali” nel contesto selvaggio e anarchico del mondo globalizzato. La politica internazionale è una “Power Politik”, cinica e legata alla lotta per l’esistenza (statuale). La rapidità con cui l’URSS, specie sotto la dominazione di Stalin, adottò acriticamente il PR ce la dice lunga indirettamente sulla sua ideologia nazional-russa e l’abbandono dell’internazionalismo di classe.

A questa ideologia ottocentesca e assolutista della politica estera, l’ascesa della borghesia rispose con quello che chiameremo il “paradigma liberale” (PL), dal momento che la dottrina realista non corrispondeva più alla specifica logica del Capitale, né alla sua forma di Stato nazionale e sovrannazionale. Il PL non parte più dagli Stati come per i “realisti”, ma dagli individui, la sua base è l’individualismo proprietario e intende la politica internazionale non come una decisione statuale, ma come una contrattazione complessa, come risultato di composizione di agenti individuali, poiché per loro lo Stato è un’organizzazione delle tante in più, ma una delle tante, tra le variabili organizzative (orizzontali e verticali) e la sovrastruttura di norme e istituzioni nazionali e internazionali che compongono la risultante “politica estera”. Se i “realisti” attribuiscono importanza decisiva e smisurata alla forza militare, i “liberali” rivalutano la “Low Politics”, la Bassa Politica – ad esempio la politica commerciale, finanziaria, cooperativa, ecc. – attribuendo al potere economico pari importanza rispetto a quello militare. Il PL ha una visione dinamica della Storia per cui, da un lato, gli attori imparano dagli errori passati e, dall’altro, all’eredità della fase “eroica” dell’ascesa borghese si associa una visione ottimistica intrecciata all’idea del progresso illimitato. Ovviamente, per un marxista il PL altro non è che il frutto più genuino dello stesso sviluppo capitalistico e della lenta imposizione globale della Legge del Valore, motore propulsivo del militarismo e dell’imperialismo:

Il problema è che, inconsciamente, sostenendo l’ ideologia del paradigma “realista” si abbracciano senza saperlo una tesi antropologica negativa e un’altra di natura strutturale, radicalmente contrapposte sia al liberalismo sia allo stesso marxismo. Marx rompe simultaneamente con entrambe le “Weltanschauung” sulla politica estera, conservando postulati di quello che chiamiamo “Paradigma legalista”: né quella conservatrice, né quella borghese (pur essendo questa più progressista). I nostri “realisti” di sinistra sono “stato-centrici” nelle loro analisi, in contrapposizione alla tradizione marxista. Per Marx, non esistono “Stati” univoci di fronte a “Stati” univoci, ma “Stati” con società civili (Hegel!), con contraddizioni sociali, con lotte economiche e sociali. Stati con lotta di classe. La complessità in questi marxisti “realisti”, invece, costituisce una barriera insormontabile per la conoscenza. L’unica cosa che importi è il rozzo ragionamento sull’imperialismo yanqee e lo schierarsi a sostegno dei suoi nemici congiunturali. Non importa se un giorno si tratti del dittatore teologico Assad o un altro giorno del nepotismo della Corea del Nord: Eureka! Facile: non serve nient’altro, non certo conoscere la storia dell’Ucraina, né analizzarne i rapporti di classe, meno ancora leggere l’ucraino o il russo. Questo non è fare analisi materialista e non è internazionalismo proletario.

Che cosa direbbe oggi Marx dell’Ucraina e dell’annessione della Crimea da parte della Russia? Per Marx l’impostazione corretta di una politica estera “proletaria” era fondamentale, qualcosa che derivava dalla sua idea di emancipazione: se l’emancipazione delle classi lavoratrici richiede unione fraterna e collaborazione fra nazioni, si domandava, parlando della spartizione e dell’annessione della Polonia da parte della Russia, “come si potrà mai raggiungere questa grande meta con una politica estera che persegue fini canaglieschi, che specula su pregiudizi nazionali e dilapida in guerre piratesche il sangue e la ricchezza del popolo?” La sua visione critica si basava sulla considerazione del Capitale come una Totalità concreta, in cui Nazioni e Stati erano inestricabilmente connessi e interdipendenti tanto dall’alto in basso quanto orizzontalmente, ed il cui epifenomeno era l’incipiente globalizzazione. La logica storica transnazionale della Legge del Valore avrebbe fatto a pezzi l’illusione di Nazioni e Stati “separati”, illusione creata sia dai passati confini geografici che separano i popoli governati da diversi sistemi politici, sia gli interessi di dominio delle rispettive borghesie nazionali.

Per questo Marx rinnega il riduzionismo grezzo del PR, giacché la forza degli Stati è una forza derivata, secondaria, e anche terziaria, nelle “faccende umane”, rispetto al modo di produzione, allo sviluppo delle forze produttive e oh!… alla lotta di classe. L’intera organizzazione delle Nazioni e i loro corrispettivi rapporti internazionali, la stessa competizione geopolitica, per Marx può dedursi (è una “manifestazione”) da una determinata divisione del lavoro su scala mondiale. E se questi rapporti cambiano, è perché è mutata la divisione basilare del lavoro nella Legge del Valore. La capacità di spiegazione del marxismo in quanto materialismo nasce a partire dalla struttura di classe, non dalla dominazione nazionale, né dall’onnipresente figura dello Stato. La politica internazionale è comprensibile nella sua ricchezza e complessità soltanto attraverso le classi e la Legge del Valore. La prospettiva totale della lotta di classe, che mescola inevitabilmente insieme politica interna con politica estera, i gravi errori di alienazione di tanti partiti e dirigenti operai dell’epoca, avevano impartito una lezione, che le classi lavoratrici hanno il dovere di “iniziarsi ai segreti della politica internazionale, di vigilare sugli atti diplomatici dei rispettivi governi, per scontrarsi con questo all’occorrenza”, e nei casi in cui non possono riuscire a fermarli, “unirsi nella simultanea denuncia e far valere ugualmente le semplici leggi della Morale e della Giustizia che regolano i rapporti tra persone”, ed anche imporre, prosegue Marx, “che vigano come Leggi Supreme del comportamento tra Nazioni”.

La lotta per una politica estera “di sinistra”, nuova e che rompa con i paradigmi realisti o liberali faceva dunque parte, in Marx (e nella ricca esperienza della I Internazionale), della lotta generale per l’emancipazione della classe operaia. Ma vediamo come Marx applicò questa “Politica Estera proletaria” in un caso concreto, anche se ce ne sono anche altri. Prendiamo l’esempio della I Internazionale in una guerra interimperialista tra la Francia di Napoleone III e la Prussia di Bismarck tra il 1870-1871. Marx incorpora nelle sue analisi (che non consistevano in elucubrazioni da salotto né nel ripetere articoli giornalistici) alcune idee come quelle della “guerra giusta”, della “guerra difensiva” e di “paese aggressore”, combinando queste varianti con la sua lotta di classe e con la “causa della democrazia”. È un caso interessante, perché si tratta di due potenze sub-imperialiste non egemoni (Germania e Francia) che si scontrano tra loro in una guerra aperta, e con la terza potenza egemone (l’Inghilterra) dall’esterno; una situazione abbastanza analoga a quella dell’Ucraina, in cui due sub-imperialismi non egemoni (Europa e Russia) più la potenza egemone (gli Stati Uniti) entrano in conflitto sul territorio sovrano di uno Stato satellite (l’Ucraina). In primo luogo, contro il “paradigma realista”, Marx comprende la situazione politico-sociale “all’interno” di ogni Stato (distinguendo l’apparato di Stato “ufficiale” dalle classi lavoratrici nazionali), analizzando sia la forma di dominio sia l’utilizzazione di guerre esterne e lo sciovinismo (tanto di Napoleone III quanto di Bismarck) per “estendere” la propria dominazione. Nel caso della Francia, definita da Marx “paese aggressore”, il complotto bellico e il militarismo costituivano la prosecuzione del colpo di Stato del 1851, per cui l’Internazionale raccomandava agli operai francesi di opporsi al loro stesso governo e a qualsiasi annessione. Dal punto di vista della Germania, Marx segnalava che si trattava di una guerra giusta, “strettamente difensiva”, raccomandando alla classe operaia tedesca di mantenere questo carattere della guerra e di opporsi a Bismark per i possibili aspetti di “conquista”. Si noti che nel conflitto franco-tedesco non partecipano direttamente né il “despota mondiale”, l’Inghilterra, né il naturale alleato di questa, la Russia zarista, paesi cui Marx guarda con la coda dell’occhio criticamente.

La regola dell’internazionalismo proletario è chiara: “sta nascendo una nuova società, il cui Principio internazionale sarà la Pace, perché in essa tutte le Nazioni si reggeranno sullo stesso principio: il Lavoro”. Fino a che punto sia aperto, antidogmatico, universale, concreto, dinamico e pienamente dialettico il marxismo lo dimostra il fatto che Marx interverrà nuovamente in un Secondo Manifesto (a meno di due mesi dal precedente!) quando gli sviluppi della guerra rivelarono che la Germania stava passando dalla “guerra difensiva e giusta” a un’altra guerra “di aggressione e conquista”, annettendosi le province di Alsazia e Lorena, arrivando a Parigi (dove esplodeva la Comune) e degenerando in una guerra “contro il popolo francese”. Nel Manifesto si critica il presupposto ideologico del cosiddetto “Diritto Storico” a copertura di guerre di conquista, ma si critica anche un argomento che compare nella crisi dell’Ucraina: il presupposto della “sicurezza nazionale dei confini” in cui un’annessione creerebbe una “garanzia materiale” contro future aggressioni. Su questo presupposto errato Marx è categorico: “Non è forse un assurdo e un anacronismo questo fatto di innalzare le considerazioni di ordine militare al rango di principio consono con cui vanno tracciati i confini nazionali?”. Senza reticenze, Marx considera ogni “Politica Estera di conquista” territoriale, indipendentemente dall’allineamento sullo scacchiere mondiale che tanto amano i nostri “neorealisti” (il penultimo esempio ne è il noto economista Vicenç Navarro), “un crimine” di enorme portata. Per quanti utilizzano ancora la prospettiva realista, la logica elementare del “nemico del mio nemico è mio amico”, Marx usa parole dure, definendo il PR come “legge del vecchio sistema politico assolutista”, definendolo una cinica logica basata su “quel che vince uno lo perde un altro”, totalmente estranea alla nuova coscienza di classe operaia internazionale. In questo Secondo Manifesto Marx si preoccupa dialetticamente sia della classe operaia tedesca, già immersa in una “guerra ingiusta” e di conquista, sia della classe operaia francese, ora parte di una nazione aggredita. Egli conclude facendo appello agli operai perché compiano il proprio dovere internazionalista e si scontrino in ciascuna nazione con “i Signori della Spada, della proprietà della terra e del Capitale”.

Si può condannare l’invasione di Putin e, al tempo stesso, sostenere che a Kiev e nel movimento Maidan non deve esserci spazio per elementi neofascisti? Certo che sì. Il marxismo ha una precisa teoria dei rapporti internazionali, una teoria sua propria e indipendente dalle correnti preborghesi e borghesi, una propria concezione della politica estera, che non ha niente a che fare con questi riduzionismi primitivi e ideologicamente reazionari. Ed è abbastanza semplice. Concludendo con le parole di Marx nel “Primo Manifesto” della I Internazionale a proposito della guerra imperialista tra La Germania di Bismarck e la Francia di Napoleone III: “le semplici leggi della Morale e della Giustizia che devono regolare i rapporti tra persone debbono anche imporre la loro vigenza come leggi supreme del comportamento tra le nazioni”.

 

Da Viento Sur- http://www.vientosur.info/. Traduzione di Titti Pierini per il sito www.http://antoniomoscato.altervista.org