Il 7 maggio si terranno le elezioni generali in Sudafrica. Molto probabilmente l’ANC (African National Congress), sarà, nonostante tutto, vincitore, ma non uscirà illeso dallo scrutinio. La situazione economica e sociale del paese è negativa e il partito al potere deve affrontare una serie di rotture politiche significative. Venti anni! Venti anni già da quando l’ANC è stato il simbolo di questa nuova era postapartheid. Ma in fin dei conti come è stato fatto questo nuovo Sudafrica?
Cambiamenti sociali molto superficiali
Considerato un paese emergente, a volte assimilato al BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) il paese mostra però un tasso di crescita molto modesto del 1,9% nel 2013 dopo il 2,5% dell’anno precedente. Quindi questa classificazione è più simbolica o politica che economica: il Sudafrica è uno dei pochi paesi africani che dispongono di uno Stato strutturato e stabile, ma le sue performance economiche rimangono molto mediocri. D’altronde ci siamo appena accorti che la Nigeria, di cui sarebbe difficile vantare le virtù politiche, possiede un PIL di molto superiore a quello del Sudafrica. Questo paese patisce di un livello troppo basso di investimenti e di risparmio. Le esportazioni sono dominate dai prodotti di base, in particolare il platino, i diamanti, l’oro e il carbone, e il settore privato non agricolo ha perso un milione di posti di lavoro dal 1980.
Mentre l’intera politica macroeconomica del nuovo regime era orientata già dal 1994 verso la ricerca di investimenti esteri, il risultato è molto lontano dalle speranze neoliberiste di partenza. Nel 2012, il Sudafrica ha ricevuto 4,6 miliardi di dollari in investimenti esteri, ciò che lo pone dietro alla Nigeria e al Mozambico. I flussi netti di investimenti esteri sono diminuiti di circa il 40% fra il 2009 e il 2012, per assestarsi ai due terzi dei flussi netti della Nigeria. Soltanto il 17% di queste importazioni di capitale è destinato all’industria contro un 30% alle miniere e un 36% ai servizi finanziari ed immobiliari. In seguito alle scelte della banca centrale statunitense (Fed), il paese non è sfuggito, come gli altri «emergenti», all’inversione della tendenza e alla fuoriuscita di capitali, fenomeno peggiorato nel caso sudafricano dalla frequenza di pesanti conflitti sociali. La moneta, il rand, ha perso il 30% fra il 2011 e il 2013.
L’indice Gini, che misura le disuguaglianze, è per il Sudafrica uno dei più alti nel mondo (0,58), del resto uguale a quello del Brasile. Secondo le statistiche ufficiali, nel 2013 lo stipendio medio era di 3300 rand (227 €). Durante gli ultimi quindici anni, gli stipendi sono rimasti in maggioranza stagnanti mentre sono aumentati i profitti. Soltanto gli stipendi di alta fascia sono realmente migliorati. Dal 1998 al 2013, la parte del valore aggiunto che va ai salari nel settore privato ha perso sette punti, scendendoal 42%. In parecchi settori, specialmente l’agricoltura, le miniere di carbone o di platino, gli stipendi rappresenterebbero soltanto il 30% del valore aggiunto.
Come molti paesi definiti emergenti, la ricchezza globale va perfettamente d’accordo con una disuguaglianza sociale abissale. Con il piccolo particolare che in Sudafrica i poveri sono i Neri come all’epoca dell’apartheid mentre la proprietà capitalistica rimane largamente in mano ai Bianchi. Ufficialmente la disoccupazione raggiunge il 25% a livello nazionale, ma tutti sanno che in intere township può superare di molto il 50%. Il costo del lavoro estremamente basso permette alle classi superiori di usufruire di servizi accessori a prezzi infimi. I più ricchi, il 10%, dispongono del 52% dei redditi.
L’AIDS colpisce fra il 14 ed il 18% della popolazione secondo alcuni studi. Ufficialmente la criminalità rappresenta all’anno 20.000 omicidi e 30.000 tentati omicidi, 50.000 stupri, 300.000 furti con scasso… La speranza di vita è regredita durante questo periodo e si ferma ai 49,5 anni. Sono state pesantemente aumentate le forze dell’ordine, alle quali si aggiungono 420.000 agenti di sicurezza privata. Oltre 1,5 milione di Sudafricani, sopratutto Bianchi, godono di una protezione particolare.
Anche se fin dal 1994 è stato instaurato il suffragio universale e sono state soppresse tutte le leggi di segregazione razziale, parecchie caratteristiche dell’apartheid sono rimaste. A causa specialmente della debole mobilità sociale, l’identità dei quartieri rimane legata al colore della pelle dei suoi abitanti: questo township è essenzialmente «Africano», mentre quell’altro è sempre «meticcio» [1], e ci si aggiungono i ghetti di migranti venuti da altri paesi… I braccianti vivono sempre con le famiglie in baracche miserabili nelle tenute dove lavorano. Le baraccopoli crescono senza tregua. L’afflusso massiccio di immigranti africani si è aggiunto all’importante esodo rurale interno dopo la fine del sistema dei bantustan (specie di riserve etniche giustificate dallo «sviluppo separato delle razze»). Questi lavoratori africani aumentano la pressione sugli stipendi, attizzano, loro malgrado, l’odio dei Sudafricani neri e a volte sopravvivono solo unendosi a ogni sorta di bande criminali.
Inserirsi nel mercato mondiale
Questo è il bilancio difficile dei venti anni di governo ANC, appoggiato dalla centrale sindacale COSATU (Congress of South African Trade Unions) e dal partito comunista. Dall’inizio, il nuovo regime pilotato da Nelson Mandela adottò un doppio orientamento: sul fronte interno una politica economica di «discriminazione positiva» per agevolare l’ascensione sociale dei Neri e l’apparizione di un capitalismo nero, sul fronte esterno un richiamo ai capitali esteri che avrebbero potuto aiutare la transizione postapartheid. Questa «dialettica» ha ottenuto alcuni successi: boom del consumo, ritorno degli investimenti esteri, crescita del PIL (3,1% nel 1995 e 4,3% nel 1996). Ma niente di tutto questo poteva durare.
Anche se la «discriminazione positiva» ha permesso a decine di migliaia di Neri di accedere ad impieghi meglio qualificati e remunerati, e la nascita di una burocrazia affaristica nera ha agevolato il consumo interno, un sistema d’intensa corruzione si è sviluppato a favore di centinaia di quadri dell’ANC, del partito comunista e dell’apparato sindacale, diventati azionisti di grandi società o dirigenti di ogni tipo d’imprese. In pochi mesi, numerosissime figure della lotta antiapartheid si sono così «tramutate» in nome della fine delle discriminazioni. E per quanto concerne l’apertura del paese al capitale estero, finita l’euforia iniziale, è stato necessario tornare a un maggiore realismo. Con il passaggio al XXI° secolo, il capitale finanziario è stato infinitamente più attratto dalla Cina, dal Brasile e dall’Europa centrale che da un paese ancora molto poco industrializzato, molto insicuro socialmente e situato a sud di un continente che consuma pochissimo.
Capitalismo sognato e capitalismo reale
La classe dirigente bianca aveva quindi perfettamente contrattato la svolta istituzionale, mantenendo l’essenziale dei suoi vantaggi economici. Invece, il grande sogno dell’ANC di un «capitalismo normale» che sarebbe decollato, una volta liberato dalle rigidità dell’apartheid e dall’isolamento internazionale, ovviamente non si è realizzato.
Questa illusione aveva la sua origine «teorica» nell’analisi del regime segregazionista fatta dal PC sudafricano, organicamente legato all’ANC: secondo lui non era un modo specifico di accumulazione capitalista (indubbiamente allo stremo) ma un «colonialismo di tipo speciale». L’analisi molto limitativa degli impegni democratici e rivoluzionari aveva a lungo giustificato, fin dagli anni 50, l’avvicinamento del PC all’ANC, e il suo condannare, durante gli anni 80, i militanti di estrema sinistra di qualsiasi appartenenza. Quando a partire del 1987 si radicalizzarono le lotte sociali, il PC diventò tuttavia il più caldo fautore (ultrasinistra) della lotta per il socialismo. Ma, al momento di negoziare il futuro sistema economico attorno al 1994, tornò senza problemi alla sua vecchia dottrina per giustificare il compromesso con la necessità di fare uscire il paese dal regime coloniale passando attraverso la tappa di un capitalismo virtuoso o perlomeno moderno.
Su questa base ANC e PC hanno promesso tante cose in materia di alloggi, servizi di base (acqua, elettricità, fognature). Solo una piccola parte di queste promesse fu mantenuta durante il mandato di Nelson Mandela. Bisognava semplicemente essere pazienti? Neppure il mandato presidenziale seguente, di Thabo Mbeki (1999-2008) diede niente di più nonostante l’accentuazione del liberismo. Ciò permise al vice presidente Jacob Zuma, minacciato da uno scandalo di corruzione e di stupro, di porsi come un’alternativa di sinistra appoggiandosi su settori populisti e stalinisti dell’alleanza (ANC, PC, COSATU). Mbeki fu finalmente sconfitto all’interno dell’ANC e si aprì la via ad una presidenza Zuma fortemente appoggiata da questi settori. Ma molto presto il suo mandato è stato dominato dalla corruzione e nel 2013 è scoppiato un nuovo scandalo riguardo a lavori faraonici eseguiti a spese dello Stato in una delle sue proprietà. E’ questo marciume del regime che ha provocato i fischi di una parte degli spettatori quando Zuma ha preso la parola il 10 dicembre 2013 al FNS Stadium durante l’omaggio a Nelson Mandela. Il regime è completamente corrotto dall’affarismo, ma ciò non vieta i proclami «progressisti» e «proletari» da parte del partito comunista e dei sindacati del COSATU; i secondi finanziando il primo con le loro quote.
Gli strappi
Il primo evento importante è stata l’esclusione di Julius Malema dall’ANC nel 2012. Abituato agli scontri interni fra cricche, presidente della Lega della Gioventù dell’ANC dal 2008, ha progressivamente sviluppato una linea «di sinistra» molto ostile ai Bianchi, che a volte ricorda gli sbandamenti del presidente Mugabe in Zimbabwe. Il 10 novembre 2011, la commissione di disciplina del movimento lo ha sospeso per cinque anni per aver seminato la divisione all’interno dell’ANC, sfidato i dirigenti nazionali e attentato all’immagine del partito. Il 29 febbraio 2012, viene escluso dal movimento della gioventù dell’ANC. Da allora, Malema crea il proprio partito (EFF per Economic Freedom Fighters).
E’ piuttosto difficile inquadrare questo movimento oltre alle dichiarazioni del suo dirigente. Il discorso è essenzialmente orientato contro la corruzione e contro il liberismo, ma talvolta contiene riferimenti anticapitalistici. Promette la «vera libertà» alla maggioranza nera, ma il programma economico rimane piuttosto confuso e la sua democrazia interna è piuttosto dubbia. Ha promesso che «fra cinque anni, nessuna comunità mancherà di acqua e di luce» «La vera libertà significa luce, acqua, impieghi decenti e stipendi che permettono di vivere» L’adozione del basco rosso per tutti i militanti e le sceneggiature a volte un po’ militariste danno l’impressione di una corrente ispirata al nazionalismo africano radicale sotto la vernice socializzante, come potevano essere alla fine delle lotte di liberazione il MPLA in Angola, il Frelimo in Mozambico o sopratutto la Zanu di Mugabe. Comunque l’evento è importante. L’EFF ha oggi una piccola influenza fra i giovani e le sue liste alle prossime elezioni potrebbero ottenere alcuni buoni risultati. Il fatto che sia una scissione dell’ANC rafforza il simbolo.
Il secondo evento, più significativo, è stato la strage di 34 scioperanti della società mineraria Lonmin a Marikana il 16 agosto 2012, per disperdere la loro manifestazione. Ha provocato un trauma enorme che si spiega con il ricordo delle grandi repressioni del regime bianco. Zuma ha dovuto proclamare un lutto nazionale di una settimana. Ma le conseguenze sindacali e politiche sono molto significative. Durante tutto lo sciopero, il NUM (National Union of Mineworkers), sindacato dei minatori e uno dei pilastri del COSATU, ha rifiutato di sostenere le rivendicazioni degli scioperanti per uno stipendio mensile di 12.500 rands (circa 850 €). Il NUM è apparso come il pupazzo docile della compagnia mineraria e Cyril Ramaphosa, il suo ex dirigente ai tempi dell’apartheid, uno dei dirigenti attuali dell’ANC e… azionista della stessa compagnia, risulta tra coloro che avevano consigliato la “fermezza”. La linea rossa è stata quindi sorpassata e il malessere corrisponde al livello di questi degenerazioni burocratiche e affaristiche.
E’ toccato al sindacato della metallurgia (NUMSA – National Union of Metalworkers of South Africa) iniziare la lotta dichiarando durante il congresso di dicembre 2013 la fine del sostegno all’ANC e al partito comunista. Finiti gli aiuti economici e il sostegno elettorale, la parola d’ordine è «non dimenticheremo Marikana». Il processo di scissione del COSATU è quindi iniziato, e il NUMSA deve ora sapere convincere ed aggregare. Esercizio difficile, tanto più che il sindacato dichiara contemporaneamente la sua volontà di ricostruire un movimento operaio socialista e solleva il problema di un partito dei lavoratori. Impegno particolarmente esaltante, ma che esige una rottura con il passato stalinista specialmente per quanto concerne il legame tra partito e sindacato, che richiede un chiarimento su tutti i meccanismi burocratici iniziando dalla gestione d’importanti fondi finanziari sindacali. Il modo in cui il NUMSA saprà tessere legami senza egemonismo con le multiple forme di organizzazioni nei township e nelle campagne sarà molto importante. Assente dalla baraccopoli da più di venti anni, il movimento sindacale, anche se indipendente, deve dimostrare la sua utilità fra ampie frazioni della popolazione che sono escluse dal lavoro salariato.
Per questo si tratta fin d’ora di una svolta eccezionale nella situazione politica del paese. Perché tutto quanto si svolge in uno scenario di lotte sociali quotidiane, di scioperi operai e di movimenti di protesta nei township più diseredati. Mentre scriviamo questo articolo, 80.000 minatori stanno scioperando da dieci settimane.
L’obiettivo di una forza democratica, popolare e socialista
Sta iniziando un lungo processo. Ci saranno altre partenze, altre rotture. Sta anche sorgendo una nuova generazione militante che ha conosciuto soltanto il governo ANC e non è necessariamente affezionata agli emblemi formali del passato. Da parte sua, la sinistra socialista sudafricana dovrà lavorare su parecchi fronti: continuare le discussioni con la direzione del NUMSA o con una parte dell’EFF e probabilmente con altri ancora, ma anche estendere la sua influenza sociale e politica indipendentemente dai ritmi della ricomposizione complessiva.
Il fatto che la schiacciante maggioranza dei poveri e degli operai siano Neri e che il cuore dell’economia sudafricana rimanga in mano alla borghesia bianca dimostra che il «capitalismo razziale» è ancora molto presente. Quindi, ancora oggi, le lotte prendono anche la forma di una rivolta contro questa oppressione specifica. Continua la complessità politica del paese, mentre l’articolazione necessaria fra rivendicazioni emancipatrici e rivendicazioni anticapitalistiche resta una difficoltà permanente.
[1] Nel Sudafrica, secondo una convenzione progressista che datava dalle lotte antiapartheid, tutti coloro che non usufruivano della totalità dei diritti civili (Africani, meticci, indiani) si dichiaravano «Neri». Ma la legge li distingueva giuridicamente così come per i luoghi di residenza secondo una gerarchia che poneva gli Africani allo scalino più basso, frammentati secondo la loro etnia (zulu, xhosa…)