Riprendiamo da Movimento operaio l’intervista a Madina Tlostanova, docente ordinaria presso il Dipartimento di Filosofia dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia nazionale e Pubblica amministrazione. La Tlostanova analizza la drammatica crisi ucraina a partire dalla storia sovietica e denuncia il crescente nazionalismo che ricorda gli albori della Prima guerra mondiale.
“I miei colleghi occidentali si lamentano dei media occidentali che demonizzano la Russia, e noi, qui, siamo infastiditi e stanchi di quelli russi che stanno ritornando alle forme più vili della propaganda manipolando in maniera sconsiderata complessi collettivi e archetipi culturali. A mio avviso, riprendendo un famoso ritornello di Odessa, sia la Russia sia l’Occidente sono “peggiori”: una frase grammaticalmente scorretta, ma abbastanza esatta; non c’è niente da scegliere, sono sbagliate tutte e due le posizioni”.
Poco tempo fa ho letto che nel periodo post-sovietico i dibattiti culturali sull’identità nazionale russa si incentrano e si basano su criteri spaziali territoriali e geografici, in contrapposizione a quelli storici utilizzati durante l’Unione Sovietica. Tenendo conto del suo lavoro sulle zone di confine dell’Eurasia e il concetto di confine, che cosa pensa di questo orientamento verso concezioni spaziali (centro/periferia; “territorio centrale” o “limes”) nella definizione dell’identità nazionale russa?
L’idea della sostituzione post-sovietica della storia con la geografia sta acquistando popolarità ed è, ad esempio, argomentata in maniera abbastanza persuasiva in un perspicace libro scritto di recente da una studiosa nordamericana, Edith Clothes (Russia entro il confine). Credo però che per capire a fondo la questione dobbiamo, in realtà, andare ben oltre la retorica e la storia sovietica. La modernità in quanto tale, sovietica od occidentale che sia, ignora o sopprime, per definizione, la dimensione spaziale, perché l’essere passa ad essere inteso soprattutto attraverso il tempo e non attraverso lo spazio. La modernità sovietica è stata, dopotutto, solo uno dei rami della modernità (occidentale), con una distinta ideologia politica (anche se, ribadisco, il socialismo e il comunismo non sono nati né in Russia né in Cina), ma con caratteristiche di fondo abbastanza simili, tipiche della modernità come tale: il progressismo, lo sviluppismo e la retorica della salvezza, l’ancoraggio al nuovo, inclinazioni orientaliste ed eurocentriche e, quel che conta, la dicotomia in se stessa della modernità e della tradizione e la colonizzazione dello spazio da parte del tempo, la predominanza di criteri temporali, vettoriali e teleologici e immagini che contribuirono alla formazione delle identità popolari, riempirono la vita di un determinato significato, per problematico che fosse.
Oggi ci troviamo in un limbo, visto che ormai non ci sono più né teleologia né alcun altro punto di approdo. Credo che la gente non sia più disposta a soffrire in questo mondo e durante la sua vita in omaggio alla felicità utopica e astratta delle generazioni future, o anche di qualche altro piacere mondano. Questo ricorso all’attesa di un futuro meraviglioso, nelle presenti condizioni di privazione e di umiliazione è realmente e davvero esaurito. La storia, dopotutto, non è finita, ma ci ha lasciato ai margini. L’immensità dello spazio quasi sempre è prevalsa sul tempo nella storia della Russia, tranne in alcuni momenti di precipitazione e in grado di mobilitare energie per determinare un salto nella storia, ed ora si ripresenta nuovamente la preminenza della rudezza euroasiatica, mai adeguatamente educata o domata. La Russia post-sovietica si trova fuori dalla modernità, fuori dal tempo, nelle sue versioni occidentali o sovietiche, e giunge a un punto morto. La modernità post-illuminista ha cancellato simbolicamente lo spazio a favore del tempo, ma il suo lato più occulto – la “colonialità” – ha regolarmente accentuato lo spazio nella dinamica dei suoi complessi e contrastanti rapporti con la modernità. Oggi si chiude la modernità sovietica, il suo passato meno compromesso si trova incasellato, insieme al suo specifico ramo coloniale, nell’ambito della colonialità globale, che certamente fa ancora una volta risaltare lo spazio. In questo caso lo spazio è un modo di conquistare il tempo, o per lo meno di addomesticarlo, Lo spazio è un modo per maneggiare la storia, una storia speciale, un modo di fabbricare miti storici.
L’impero sovietico, o meglio i suoi resti e rifiuti, richiedono una notevole spinta per rivivere una missione importante, una missione imperiale e geopolitica che è piuttosto difficile (re)inventare per un paese esangue, esausto e saccheggiato. Chi sarebbe capace di rallegrarsi per l’espansione dei territori – economicamente non redditizia e moralmente discutibile – con altri simboli di potere ugualmente arcaici? Coloro che provano risentimento e vagheggiano una vendetta storica: orecchi ideali per l’attuale propaganda revanscista russa agitata da politici cinici e irresponsabili.
A lungo in Occidente il post-sovietico è stato inteso come spazio, non come persone che vivono in questo vasto territorio. La grande narrativa socialista si è chiusa e abbiamo smesso di essere interessanti per il mondo. Indipendentemente dalla nostra diversità, siamo stati ormai classificati o attraverso un modello progressista di recupero, riciclato e transitorio (Europa dell’Est, Stati Baltici, Ucraina occidentale, ecc.) o espulsi dalla modernità e perciò ancora una volta fuori dal tempo, come fondamentalmente irriformabili (in gran parte la stessa Russia, ma anche l’Asia Centrale e varie regioni del Caucaso, in funzione dei contesti e delle configurazioni politiche concrete). Nell’attuale ritorno alla geografia, vari motivi interni ed esterni, storici e contemporanei si fondono e si incrociano.
Da un lato, il ritorno dello spazio è una tendenza generale postmoderna nell’Ovest ed anche nei paesi post-coloniali e nel cosiddetto gruppo de-occidentalizzato. Ci troviamo con una vendetta dello spazio in mezzo alle rovine della modernità fallita. Naturalmente, non c’è spazio senza tempo. E nel giro globale dei giochi geopolitici del secolo i modelli del mondo spaziale e temporale inevitabilmente si sono incrociati e spesso si sono scontrati. Non è accaduto soltanto nel secondo mondo sconfitto. Alla fin fine, tutte le famose metafore del Secolo Americano e della Pax Americana illustrano la stessa tensione fra le varie forme di espansionismo.
Dall’altro lato, il senso del luogo sembra essere più acuto là dove esiste o una sindrome di post-dipendenza nell’accezione più ampia, o la sindrome di una vittoria nella sconfitta come compensazione psicologica. Vi sono molti esempi, dalle popolazioni locali post-totalitarismo, post-apartheid e post-dittatura fino al mio prediletto Sudamerica, con il suo famoso senso del luogo, “orologi senza lancette” e loro dolorose ricerche di giustificazioni spirituali, come pure delle “battaglie perse”. Infine, sono molto importanti anche la traiettoria specifica di sviluppo della Russia e la consacrazione dell’espansione spaziale nella sua storia, che spesso ha assunto la forma cristiano-ortodossa, a volte molto aggressiva (anche se spesso economicamente insostenibile) ed espansionista (la missione imperiale che aggrega ed unisce tutti i cristiani ortodossi). Quest’ultimo elemento porta a un modello imperiale problematico che misura in modo predominante l’etica russa con criteri spaziali e quantitativi, la Verità e la Giustizia assolute secondo l’interpretazione del potere, che porta automaticamente alla giustificazione dei santificati autoritarismi e delle subordinazioni (quasi una specifica comunità spirituale della Russia), il cui lato occulto era la giustificata negligenza della vita umana, dell’individuo in quanto tale, secondo il semplice modello in cui i territori come espressione simbolica di superiorità sono più importanti delle persone che vi vivono (tanto russi quanto colonizzati).
Di fatto, ho lavorato per tanti anni con il concetto di confine, soprattutto di confine non nel senso temporale prevedibile, ma in quello spaziale ed esistenziale. Non sono molti gli intellettuali russi disposti a definire l’identità russa attraverso il concetto di confine così inteso. Ci troviamo piuttosto di fronte all’allarmante rinascita della vecchia geopolitica, con i suoi concetti familiari di “spazio vitale”, di “heart-land” [“il cuore della terra” (la parte centrale dell’Eurasia)] e di “rimland” [“terre ai bordi”] e, ancora una volta, al tentativo di trascendere la realtà contemporanea oppressa come un paradossale Nord povero, attraverso una sacra missione imperiale o una geografia santificata, come nel caso dei cosiddetti neo-eurasianizzanti. Il desiderio revanscista del soggetto post-sovietico è manipolato in un altro mito del futuro messianico.
Gran parte della discussione della crisi di Crimea si è incentrata sulla visione di potere Est-Ovest. In questa visione, il conflitto è tra Europa occidentale e Russia, o tra gli ucraini che vogliono “stare con l’Occidente” di fronte a quelli che vogliono stare con la Russia. Crede sia una visione miope e semplicistica del potere? Esiste ad esempio una lunga storia della dinamica di potere Nord/Sud nella storia della Russia, come con l’espansione dell’impero nel Caucaso. In questa dinamica di potere Nord/Sud, Russia e Ucraina hanno governato entrambe sulle popolazioni indigene, come con i Tatari di Crimea. Cosa pensa sulle ipotesi di potere che circolano nella comprensione e nell’analisi della crisi in atto?
Credo che per gli ucraini non si tratti della scelta tra Russia e Occidente, quanto piuttosto del tentativo di riprendersi in mano il proprio futuro. Quello di cui si tratta è non vedere questa divisione esclusivamente attraverso una sorta di dicotomia da guerra fredda Est-Ovest. Dobbiamo essere molto cauti nel non cadere nella propaganda in bianco e nero che sta impregnando i mezzi di comunicazione globali, dall’una e dall’altra parte. I miei colleghi occidentali si lamentano dei media occidentali che demonizzano la Russia, e noi, qui, siamo infastiditi e stanchi di quelli russi che stanno ritornando alle forme più vili della propaganda manipolando in maniera sconsiderata complessi collettivi e archetipi culturali. A mio avviso, riprendendo un famoso ritornello di Odessa, sia la Russia sia l’Occidente sono “peggiori”: una frase grammaticalmente scorretta, ma abbastanza esatta; non c’è niente da scegliere, sono sbagliate tutte e due le posizioni. E quel che importa per me in questo caso è, ancora una volta, la sorte degli ucraini. In effetti le persone, in Ucraina come in Russia,si vedono costretta a fare una scelta semplicistica tra Occidente e Russia, che si demonizzano reciprocamente nella migliore tradizione della guerra fredda. Ci vediamo costretti a vivere, ancora una volta, secondo il detto infame: “Chi non sta con noi è contro di noi”. Credo che la vita e il mondo siano molto più complicati di così e che vi siano altre scelte per gli ucraini e i russi, e che una di queste sia la scelta post-coloniale fondata sul liberarsi da questa logica in bianco e nero.
Storicamente l’Ucraina si è di fatto divisa tra diverse influenze: l’Est e l’Ovest, il Nord e il Sud o, in certi casi, l’Europa centrale come un’identità vagamente definita. Nel caso dell’Ucraina troviamo un’intersezione di interessi e giochi di potere non solo degli imperi capitalisti di prima classe della modernità, ma soprattutto di imperi di seconda classe, non del tutto occidentale, non-capitalista, non-occidentale, non cristiana, o qualsiasi altra combinazione di imperi, come l’Austria-Ungheria, la Russia, il Sultanato ottomano. Così, il nazionalismo ucraino di cui oggi tanta gente ha paura è di fatto più il prodotto della lotta anticoloniale che non qualsiasi altra cosa. La cosiddetta Ucraina occidentale non ha mai fatto parte dell’impero russo, mentre avuto invece suoi legami culturali con l’Austria, l’Ungheria, la Polonia, la Romania, e la sua genealogia risale principalmente alla Galizia-Volinia, il che comporta una rivalità particolare con la Russia. Tutto questo ha ben poco a che vedere con l’Ucraina contemporanea, ma la memoria storica e l’orgoglio sono ancora una volta un utilissimo materiale per i politici, come tutti adesso stiamo vedendo. E il vero conflitto originario in Ucraina non è realmente un conflitto tra Occidente e Russia, ma il conflitto interno al popolo ucraino, che è stufo del potere corrotto e vorrebbe finalmente fare qualcosa al riguardo. Non sta decidendo tra Russia e Occidente, ma vuole riconquistare la propria dignità e il proprio futuro, per liberarlo dall’ingiusto regime oligarchico. Sicuramente la protesta popolare è stata subito manipolata e (ab)usata da varie forze politiche, incluso occidentali e russe, locali e globali, mentre le vite umane hanno continuato ad essere prescindibili per tutte queste forze. Quando l’Occidente parla di violazione del diritto internazionale non è particolarmente convincente, perché sappiamo che l’Occidente è andato facendo la stessa cosa per tanto tempo, ed è questo che la Russia ha sfruttato immediatamente come falsa giustificazione. Tuttavia, che qualcuno violi i diritti umani o il diritto internazionale e poi ti chiede di osservarlo tu, perché è la legge, non giustifica la tua stessa violazione dei diritti umani o del diritto. Non è così? Perché, altrimenti, torniamo all’originaria guerra di tutti contro tutti. Dobbiamo trovare un modo globale di negoziare il nostro comune futuro in questo pianeta. Quindi non giustificherei l’invasione in base ai doppi standard occidentali. Davvero è una logica infantile quella di tapparti le orecchie per indispettire tua madre. Oltre agli argomenti della Russia sulla difesa della popolazione russa, in Crimea c’è di nuovo una manipolazione destinata a gente ignorante e che non conosce la storia.
Oggi la Crimea è una regione a maggioranza russa predominante (anche se perché sia così è un fatto che alla Russia non conviene ricordare, e ci ritorneremo più avanti). Quindi, la minaccia alla popolazione russa di Crimea è in gran parte falsa e inventata per mettere in moto il consenso popolare all’annessione. Indubbiamente riemerge di nuovo una strana doppia logica quando si costringono i russi a vedere e ad indignarsi per il fascismo in Ucraina (presumibilmente patrocinato dagli Stati Uniti), mentre si resta completamente ciechi di fronte al proprio fascismo rampante in Russia che si intensifica in conseguenza degli avvenimenti ucraini, alla stessa intolleranza e xenofobia della Russia, ora praticamente sancita ufficialmente dallo Stato, alle denunce ed epurazioni facilmente restaurate, alla caccia alle streghe, alla mentalità da campo di concentramento, ecc. Gli avvenimenti ucraini hanno avuto la conseguenza che le divisioni interne russe appaiano come due fazioni irreconciliabili, talvolta la divisione emerge in seno a una famiglia, tra un gruppo di amici vicini e tra colleghi. L’effetto dell’iniezione di euforia imperiale è quasi esaurito, mentre la dura realtà del collasso economico, la mancanza di legami tra persone che non condividono nient’altro che il luogo di nascita, la mancanza di fiducia nel futuro continuano a convivere con noi.
E ora parliamo un po’ dei tatari. La stampa russa ha insistito sul fatto che l’Ucraina non ha alcun diritto sulla Crimea, avendola avuta in dono nel 1954 da Nikita Chruščëv. Certo, ma la storia non è cominciata così. Il canato tataro più o meno dal XIII secolo fino al XVIII aveva rapporti politici e culturali con l’impero mongolo e, più tardi, diventò parte della Pax Ottomana e venne annesso da Caterina di Russia nel 1783. Fu un evento simbolicamente importante per gli inizi della Russia imperiale, ma segnò anche l’avvio della tragedia dei tatari di Crimea. La maggior parte di questi emigrarono nell’Impero Ottomano nel XVIII secolo, come avverrà un secolo dopo per la popolazione dei circassi, un’altra popolazione indigena della regione del Caucaso e del Mar Nero che la Russia non ama si ricordi (un recente esempio è quello delle Olimpiadi invernali): Dopo che i bolscevichi disposero della cerchia degli intellettuali tatari di Crimea con la loro teorizzazione di un futuro indipendente e ugualitario per la Crimea – un futuro nel quale si sarebbe tenuto conto degli interessi di tutti i gruppi etnici che vi sarebbero vissuti (una sorta di “federazione svizzera”), si creò nel 1921 la Repubblica autonoma di Crimea in seno alla Repubblica federale russa. Nel maggio del 1944, i tatari di Crimea vennero deportati soprattutto in Asia centrale, ufficialmente per collaborazionismo con i nazisti, e non furono mai riabilitati ufficialmente, né si permise loro di ritornare a casa loro, fino al crollo dell’Unione Sovietica. Anche sotto Gorbačëv, infatti, si fornivano spesso ai tatari falsi pretesti per non lasciarli tornare a casa (ad esempio, una pesante situazione ecologica). Le autorità si rifiutavano di registrarli in Crimea e spesso chiedevano alla gente del posto di comprare le case a proprio nome, in modo che le famiglie tatare potessero tornare non ufficialmente. E allora, chi arrivò in Corea per rimpiazzare i nativi tatari deportati? Soprattutto i russi, visto che sia l’impero russo sia quello sovietico preferirono la tattica dello sgombero della popolazione indigena dalle loro terre per poi inondare i territori annessi di coloni per la maggior parte russi.
Quei coloni non avevano la minima idea della peculiarità dei modelli agricoli della Crimea che i tatari praticavano da secoli, così la Crimea diventò ben presto una terra inaridita, con vigneti distrutti, orchidee mezzo morte e sistemi di irrigazione disastrati. Fu allora che l’Ucraina rimase senza tatari. Il futuro dei tatari di Crimea è incerto e ancora una volta nessuno è realmente interessato alla loro sorte: né la Russia, né l’Ucraina, né l’Occidente. Sono pedine nel giuoco altrui. Essi conservano però, come altre nazionalità nella diaspora, una lunga e forte storia di solidarietà e di lotta per l’indipendenza, per i loro diritti, per il loro futuro, per la loro cultura, che spero continui e si intensifichi. Ho molti dubbi che la maggioranza dei tatari voteranno per unirsi alla Russia in questo infame referendum, o che si fidino della Russia, a prescindere dal fatto che è stato loro promesso che saranno finalmente riabilitato… in cambio del loro voto, suppongo.
Io vivo negli Stati Uniti e qui gran parte della copertura mediatica sulla Russia non solo è negativa, ma presenta aspetti negativi della politica russa come rappresentativi della maggioranza del paese. C’è scarsa o nulla conoscenza degli scritti critici, pur con sfumature diverse, di autori come lei stessa o Victor Peleven, Liudmila Ulitskaya o Mikhail Ryklin. Quali prospettive o voci vorrebbe che fossero più conosciute fuori dalla Russia? Inoltre, tenendo conto della sua teorizzazione della Russia come impero subalterno, mi domando quali opinioni e prospettive lei ritenga più valide per spingere il discorso più in là della vecchia formula Est/Ovest (potere autoritario contro dissidente).
È davvero orribile e c’è qui un’isteria molto simile, in questo momento, rispetto agli Stati Uniti, che mi sembra una follia. Ricordo che, quando lessi in un libro di storia che il sentimento anti-tedesco della Prima Guerra mondiale negli Stati Uniti giunse in certi momenti al punto di uccidere i cani bassotti per la strada, di boicottare i concerti di Beethoven, non riuscivo a crederci. Ora però siamo testimoni di una moda molto simile, con maggior sapore consumista: il ristorante francese si rifiuta di servire i turisti russi, i negozi russi annunciano orgogliosi che sono chiusi per il presidente Obama o per i congressisti statunitensi. Žirinovskij suggerisce di vietare tutti i McDonalds in Russia e il pubblico russo abbandona in massa il teatro durante l’esibizione di una celebre compagnia di danza nordamericana. Mi sono formata come americanista e sono passata per varie ondate di questo genere di demonizzazione degli Stati Uniti nel corso della mia vita. Ma questo va veramente oltre ogni limite. Quanto meno sa la gente degli Stati Uniti e gli statunitensi, più facilmente è d’accordo con questa demonizzazione e omogeneizzazione, assumendo che tutti gli statunitensi appoggiano unanimemente le decisioni del governo, indipendentemente dal fatto che noi sappiamo che c’è molta critica interna negli Stati Uniti, una cosa che è anch’essa ingannevole. Ho letto di recente, ad esempio, una serie di opinioni oneste di storici e slavisti nordamericani, per non parlare di quelli di sinistra, che criticano le posizioni degli Stati Uniti in Ucraina e in qualche modo difendono o giustificano la Russia. Psicologicamente lo capisco, ma credo che gli intellettuali ufficiali debbano essere molto cauti nel non andare oltre nella strada dell’obbiettività fino a trasformarsi, sia pur senza volerlo, in difensori di governi e regimi reazionari repressivi. Possiamo parafrasare il discorso del Nobel Albert Camus e dire che oggi un intellettuale responsabile “non può mettersi, per definizione, al servizio di quelli che fanno la storia, deve essere al servizio di quelli che la subiscono”.
Un’assimilazione del genere si verifica nel caso dell’America: la maggior parte degli statunitensi non sa niente sulla Russia e sui russi e non ha particolare interesse a saperne di più, supponendo che tutti siamo d’accordo con le opinioni del nostro governo. Mi sono imbattuta in questo tante volte negli Stati Uniti e soprattutto in persone che hanno subito l’influenza della guerra fredda. Non importa quel che puoi fare o dire, venivi vista come una spia o un agente del KGB. Come con qualsiasi stereotipo, la migliore ricetta è imparare di più, nutrire un interesse genuino, per cercare di cogliere la diversità e la molteplicità delle voci e delle opinioni. Naturalmente questo è soprattutto proprio degli strati istruiti, dei giovani, sia in Russia sia negli Stati Uniti. Questi punti di vista unanimi e i sondaggi di opinione costruiti in tutta fretta che sta attualmente producendo la sociologia ufficiale russa sono difficilmente attendibili e non rappresentano la Russia nel suo complesso. Ci sono infatti sempre più persone, gruppi e strati sociali che non sono soddisfatti dell’auge crescente d’isteria imperiale rispetto alla guerra di Crimea. Si tratta di gruppi molto variegati e politicamente differenti – da anarchici a neo-marxisti, da liberali a patrioti nazionali (che non sono tutti a favore dell’annessione). Tra i critici più attivi degli ultimi avvenimenti troviamo studenti (molti miei studenti partecipano alle riunioni, ai cortei e alle manifestazioni contro l’annessione della Crimea e poi passano le notti nei commissariati di polizia), la residua cerchia intellettuale e soprattutto i professori universitari, accademici e, senza dubbio, il piccolo e debole ceto medio russo. Naturalmente si può ancora trattare di una minoranza (anche se non lo sappiamo e non abbiamo modo di saperlo), ma una minoranza molto importante in questo caso.
Vari dei nomi da lei citati rispetto alle posizioni russe alternative appartengono a scrittori, filosofi, insegnanti; tutti sono arrivati a farsi conoscere negli Stati Uniti, grazie al fatto che i loro punti di vista sono stati tradotti e interpretati dagli studiosi americani, Tuttavia, è molto difficile per un intellettuale russo arrivare ad avere ascolto presso il pubblico statunitense. Non si tratta di un problema linguistico, è un problema di colonialismo del sapere, di chi ha il diritto di produrre conoscenza e chi serve semplicemente come materiale, come fonte, ma lo si considera incapace di teorizzare. La situazione sta cambiando a poco a poco nel mondo di oggi e parte della spiegazione sta in ambito tecnologico: abbiamo Internet, che reagisce alle situazioni che mutano più rapidamente e in modo più flessibili che non, ad esempio, i mezzi di comunicazione stampati o altri precedenti strumenti. Quindi direi che è soprattutto in Internet che si trovano siti, piattaforme, risorse, con opinioni e posizioni alternative. Non c’è da stupirsi che la Duma russa [il parlamento] si stia affrettando a emanare nuove leggi che facilitino la censura, la chiusura dei siti, il divieto dei vari strumenti di comunicazione caratterizzati da posizioni più sfumate e critiche. Si tratta di siti come “Colta.ru”, sicuramente di Novaya Gazeta [“Nuovo quotidiano”], dove Ulitskaya, che lei ha ricordato, è stata intervistata di recente sulla guerra di Crimea e ha fatto la sua esposizione onesta e coraggiosa, come sempre. Tra le opinioni di scienziati, politici indipendenti che mi sono piaciuti di recente, appunto perché non sono di parte e cercano di fornire alcune ricette costruttive su quel che va fatto a livello mondiale per quanto riguarda il (dis)ordine del mondo emergente, amerei segnalare il commento di Artemy Magun su Russia e Ucraina in “Telos”, Teoria critica della contemporaneità (http://www.telospress.com/commentary-on-russia-and-ukraine/). Ci sono una serie di avvenimenti e di posizioni interessanti al di là delle vecchie divisioni Oriente/Occidente, nell’ambito dell’arte contemporanea, di cui mi sono occupata recentemente molto da vicino. Ad esempio, c’è un affascinante festival vagamente anarchico (ma che accoglie anche altre posizioni, quali il femminismo, partigiani, antifascisti, LGBT, post-coloniali, ecc.), il “Media Udar (Media Impact) che è un’intersezione di progetti d’arte contemporanea e tattiche, attivismo politico e teorizzazione (http://english.mediaudar.net/)
Una cosa che le attuali tensioni in Crimea hanno eclissato è la comparsa e la crescita di una “nuova sinistra” nell’ex regione del socialismo di Stato. Che cosa ne pensa e che idea si è fatta dei nuovi esempi di militanza di sinistra in tutta l’area, dalla Bulgaria e Romania alla Bosnia e Croazia? È un fenomeno che interessa anche la Russia?
La crescita della nuova sinistra nella ex regione socialista è effettivamente un fenomeno interessante, che credo meriterebbe una conversazione a parte. In realtà io non sono la persona più adatta per parlarne, visto che ho maggiore familiarità con le sue espressioni nell’arte contemporanea, tra le attiviste di genere e i movimenti femministi. Nell’Est e Sud-Est europeo questa sensibilità e l’interesse per i discorsi “neo-marxisti”, anarchici e svariati discorsi trasversali è connessa, innanzitutto, alla delusione nei confronti del neoliberismo e al disinganno per l’occidente. I cosiddetti nuovi europei vengono sistematicamente rimessi al loro posto e la fortezza Europa impedisce loro di diventare effettivi europei senza prefissi, mentre l’arretramento dello Stato del benessere e l’orientamento verso programmi neoliberisti sfrenati nei loro paesi non lasciano in realtà agli europei dell’Est molte scelte da fare. Naturalmente, il tipo di discorsi e di pratiche di sinistra riscontrabili nel loro caso è spesso molto lontano dalla sinistra classica, visto che incorpora altre teorie ed esperienze, è assai più articolato, vi si trovano accenni alla teoria postcoloniale, discorsi eco-femministi, eco-anarchici e transessuali. In altri termini, si spingono ben oltre i problematici e angusti margini del precedente marxismo, ad esempio la sua cecità sull’appartenenza etnica e il genere. Questa nuova sinistra riformatasi nel mondo post-socialista è in genere molto critica nei riguardi delle esperienze del socialismo reale (per il quale non prova nostalgia), ma al contempo è libera da quella fascinazione, ignorante e irrazionale, nei confronti dell’Occidente che tanti dissidenti sovietici manifestarono in precedenza, proprio perché conoscevano ben poco dell’Occidente.
È cruciale distinguere queste tendenze dagli ideologi sovietici nostalgici (ne sopravvivono ancora alcuni in Russia) e dai residui neoconservatori filo-occidentali, post-sovietici passati di moda, per i quali ogni accostamento al marxismo e al socialismo è un tabù. È veramente curioso che le ideologie accademiche legittimate ufficialmente in Russia non concordino con il resto del mondo al riguardo. Ho parlato poco tempo fa con un “luminare”, un indologo russo che è rimasto perplesso nel venire a sapere che esistevano alcuni studi post-coloniali sospetti e, quando si vide costretto dai colleghi europei a scrivere un articolo sul tema, venne a sapere, tramite una fonte secondaria, che Edward Said era marxista… Bastò questo perché il “luminare” stigmatizzasse Said come cattivo accademico, senza neanche averlo letto o provato a capirlo. Questo è ricollegabile alla vecchia impostazione dissidente. È ormai antiquata, evidentemente, ma queste persone sono ancora quelle che spesso determinano il clima accademico in Russia. Al tempo stesso, esiste in questo paese una vita parallela di accademici più giovani di sinistra, attivisti e artisti che si basano sulla tradizione occidentale neomarxista più che non su quella russa. La maggior parte di questi pubblicano sulle loro riviste, utilizzano Internet, viaggiano, studiano e lavorano all’estero e non hanno le precedenti tendenze sovietiche isolazioniste. Un buon esempio è la famosaRivista d’Arte di Mosca di Victor Misiano con il suo molto particolare circolo di autori con una posizione chiaramente di sinistra, molti dei quali vivono all’estero o vi sono più conosciuti come casi rappresentativi dell’arte contemporanea russa di sinistra, come ad esempio il gruppo “Chto Delat?”, [Che fare?].
Ho insegnato da vent’anni in varie università di Mosca e ho la sensazione che ora gli studenti si stiano orientando sempre più verso i discorsi di sinistra, un fenomeno relativamente nuovo in Russia. Prima erano in genere gli strati giovanili proletari (lumpen) ad essere filo-marxisti, mentre gli studenti erano filo-occidentali e orientati al consumo. Oggi i giovani intellettuali con pensiero critico si orientano verso la nuova sinistra, i vari discorsi “altermondialisti”, in cerca di modelli alternativi di futuro.
*Madina Tlostanovaè docente ordinaria presso il Dipartimento di Filosofia dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia nazionale e Pubblica amministrazione. Il suo libro Gender Epistemologies and Eurasian Borderlands (2010) è considerato un importante contributo agli studi femministi e alla teoria postcoloniale. È inoltre coautrice, con Walter Mignolo, di Aprender a desaprender: reflexiones postcoloniales sobre Eurasia y las Américas (2012).
Tratto da Sinpermiso: www.sinpermiso.info. L’intervista è di Jennifer Suchland, docente presso l’Università statale dell’Ohio (USA). (4 maggio 2014)