Due articoli di Roberto Livi su il manifesto di martedì fanno il punto sulle ricorrenti notizie sulla fine dell’embargo, che è caldeggiata effettivamente da molti settori economici degli Stati Uniti, interessati alla ripresa di normali rapporti con l’isola. Il politologo accademico Esteban Morales, pensa che non si possa sperare che si tratti di un cambio di politica (degli Usa, ndr) per convivere con Cuba, ma che si voglia cambiare Cuba e il suo governo.
Non sono pochi effettivamente gli avvoltoi che guardano con interesse le nuove facilitazioni offerte da Raúl Castro, a partire dalle grandi famiglie dei Fanjul e Bacardi, che si dividono su questo. Non convince invece l’ottimismo dello scrittore Leonardo Padura Fuentes, efficace quando descrive il presente, ma poco convincente nelle sue previsioni. Il secondo articolo di Livi d’altra parte, partendo da dati ufficiali, fornisce dati inquietanti: “il volume fisico prodotto dall’industria manifatturiera cubana è il 48% di quello prodotto nel 1989, ultimo anno in cui Cuba ricevette gli aiuti dell’Unione Sovietica”. E soprattutto “il peso cubano vale 25 volte meno che nel 1990 e dunque tutti i salari sono stati di fatto ridotti di 25 volte in capacità di acquisto”. E questo contesto che rende più pericolose le aperture al capitalismo, locale e internazionale, nonostante le affermazioni ufficiali, come quelle del responsabile delle riforme Marino Murillo, che assicura che il nuovo modello economico «non implica cambi politici», ma ha lo scopo di «rafforzare il socialismo cubano». Tanto più che sta cambiando rapidamente il contesto internazionale, per l’indebolimento del ruolo trainante del Venezuela nel continente dopo la morte di Chávez, e i nuovi spazi per un ruolo del Brasile che promuove ben oltre i suoi confini un capitalismo “sviluppista”, in cui hanno un ruolo determinante alcune grandi multinazionali brasiliane. Ci ritorneremo presto, a partire da un articolo di Pablo Stefanoni sulla “lulizzazione” della sinistra latinoamericana.
Bloqueo. Forse sta per finire l’embargo Usa imposto all’isola da 52 anni
di Roberto Livi
Il passato fine di settimana, il presidente dell’Uruguay José Mujica, avrebbe trasmesso al suo collega cubano, Raúl Castro un messaggio di Barak Obama (che aveva incontrato nella sua visita ufficiale a Washington) nel quale il presidente Usa si dice pronto a intavolare un dialogo con l’Avana e a discutere la fine dell’ embargo unilaterale da 52 anni imposto a Cuba. La notizia è stata diffusa dal settimanale uruguayano molto vicino a fonti governative, Búsqueda, il quale scrive che «il presidente cubano si è dimostrato molto interessato della proposta» di Obama «a condizione che essa non implichi imposizioni ma trattative tra pari» e che Mujica sia uscito dall’incontro col più giovane dei Castro «molto ottimista».
Nell’ultimo mese si sono moltiplicati i segnali che alcuni importanti leader del Partito democratico, in primis il presidente Obama, ritengono che le riforme attuate dal governo di Raúl Castro offrano un’opportunità concreta per allentare, se non eliminare, l’embargo e iniziare un dialogo con l’Avana. Non può essere un caso infatti che una settimana prima di pubblicare Hard Choices, le memorie di HIllary Clinton, siano stati fatti filtrare dalla stampa alcuni estratti nei quali la principale candidata democratica alla (prossima) presidenza afferma di aver esortato Obama «a togliere o ridurre l’embargo», perché il blocco commerciale «non era conveniente per gli Usa e non favoriva cambiamenti (politici) nell’isola comunista».
Non è certo la prima volta che un ex segretario di Stato opini sul fallimento del blocco commerciale che gli Usa impongono a Cuba da più di 52 anni. Il fatto rilevante è che si ritenga opportuno ventilare il tema, in precedenza tabù, di trattative con Cuba in campagna presidenziale. Del resto Hillary è in buona compagnia. Charlie Crist il candidato democratico al posto di governatore della Florida ha già espresso la sua posizione favorevole alla fine dell’embargo. Non solo, si è detto pronto a visitare l’isola in piena campagna per la conquista della Florida, stato dove vivono quasi due milioni di cubano-americani. I due leaders democratici hanno fatto circolare le loro opinioni una diecina di giorni dopo che un gruppo di 44 personalità della politica, società ed economia degli Usa avevano inviato una lettera a Obama chiedendogli, in sostanza, una maggiore flessilizzazione nei rapporti con Cuba e l’inizio di un dialogo che affronti temi importanti di interesse mutuo, come la sicurezza nazionale.
Posizioni similari si manifestano anche nelle élites dei cubano-americani, tradizionalmente drasticamente favorevoli all’embargo e a politiche che favorissero «l’abbattimento della dittatura dei Castro». Alcuni membri della potente famiglia dei Fanjul (ricchissimi imprenditori cubano-americani) si sono detti disposti «a investire a Cuba», Facundo Bacardi ( brand del rum) ha rivelato che la sua famglia è divisa in tema di embargo e che lui personalmente pensa che a Cuba siano in corso riforme. Infine, nei giorni scorsi, il Cuban Research Institute, ente dell’Università internazionale della Florida che dal 1991 monitorizza i rapporti con l’isola caraibica, ha pubblicato un’inchiesta nella quale si afferma che, per la prima volta, la maggioranza ( 52% ) dei cubani-americani è favorevle alla fine dell’embargo (nelle inchieste condotte alla fine del secolo scorso la media dei favorevoli era dell’85%). Dall’indagine risulta che questo cambio di posizione «è un trend», visto che i favorevoli a posizioni dure sono concentrati nella fascia di età superiore ai 65 anni. Non solo, il 68% degli intervistati si è espresso a «favore del ristabilimento di rapporti diplomatici» tra gli Usa e Cuba.
Frutto di questa situazione è anche la visita di recente attuata a Cuba da Thomas Donohue, presidente della Camera di commercio degli Stati Uniti, accompagnato da una nutrita delegazioni di impresari, i quali si sono dichiarati interessati a conoscere di prima mano le nuove riforme economiche in corso nell’isola. Dopo aver incontrato Raúl Castro, Donohue ha affermato che «è giunta l’ora» di iniziare un nuovo capitolo nelle relazioni tra i due Paesi.
L’accademico e politilogo cubano Esteban Morales, esperto in questioni razziali negli Usa, è convinto che questa nuova tendenza che si manifesta nell’amministrazione americana a aprire a al dialogo con Cuba «è frutto di un contesto più generale e riguarda i mutamenti geopolitici in America latina e non solo il progredire delle riforme» nell’isola caraibica. Il professore si riferice alla recente presidenza di Cuba della Celac (Comunità che raggruppa i paesi dell’America latina e del Caribe) e al fatto che la grande maggioranza dei paesi dell’Osa (Organizzazione stati americani) hanno detto chiaro a Obama che parteciperanno al prossimo vertice (a Panama) solo se vi sarà ammessa Cuba (paese espulso per volontà degli Usa all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso). Però, avverte Morales, «non possiamo certo sperare che si tratti di un cambio di politica (degli Usa, ndr) per convivere con Cuba, ma per cambiare Cuba». Ovvero per cambiare il governo socialista dell’isola. Su questo il professore non ha dubbi. «Si tratta di un cambiamento tattico» — afferma. In sostanza, ormai, il vertice statunitense –a parte i falchi anticastristi del partito repubblicano– si sono convinti che l’embargo non solo è obsoleto, ma dannoso nei confronti degli Usa (anche nell’ultima sessione dell’Onu la condanna è stata generale, a favore hanno votato solo Usa e Israele). La nuova politica del dialogo, se e quando si esprimerà, si avvarrà di nuovi strumenti , in sostanza di una penetrazione nell’isola del capitale internazionale seguita dall’emergere di “nuovi valori”, politici e sociali, ma l’obiettivo strategico rimane: «Recuperare Cuba».
Il famoso scrittorre Leonardo Padura Fuentes pensa che se i nuovi segnali che vengono dagli Usa porteranno alla fine o anche alla riduzione dell’embargo «Cuba otterrà un’importante vittoria politica e i cittadini cubani riceveranno un desideratissimo sollievo» soprattutto economico «dalla fine di quello che si è convertito in un interminabile conflitto».
Al caffè delle riforme sostenibili
di Roberto Livi
Raúl Castro cerca di rimettere in piedi l’economia rafforzando il welfare socialista
In un articolo pubblicato in 14ymedio.com, il giornale online della superbloguera Yoani Sánchez, una nota dissidente ammette che in sei anni di presidenza Raúl Castro ha introdotto «una quantità di cambiamenti legali (ovvero riforme) paragonabile a quella prodotta nei primi anni della Rivoluzione e molto maggiore delle riforme messe in opera nei quarant’anni precedenti il “raulismo”». E elenca le maggiori riforme: distribuzione delle terre incolte in usufrutto a agricoltori privati e a cooperative; legalizzazione del «lavoro non statale» ovvero del «business privato»; permesso di vendere e comprare case, mezzi di trasporto e altri beni; autorizzazione all’uso di telefoni cellulari e accesso a internet e permesso di alloggiare in alberghi e altre località prima riservate ai turisti stranieri; nuova legge sull’immigrazione che elimina «l’autorizzazione all’uscita e all’ingresso» e estende il permesso di residenza all’estero fino a 24 mesi e la più recente legge sugli investimenti esteri per favorire l’afflusso di capitale straniero.
Queste misure, scrive, dovrebbero costituire una svolta radicale rispetto al modello socioeconomico precedente, quello che definisce «l’immobilismo di Fidel», ovvero «una società soggetta a un centralismo che ha eliminato ogni vestigia di autonomia della società civile cubana». La dissidente afferma, però, che il «nuovo modello economico» proposto dalla squadra di Raul è «più un’operazione di facciata che una realtà».
Si tratta di critiche di natura politica, afferma in un suo articolo l’economista Rolando López del Amo, perché, come ha messo in chiaro in più occasioni il vice presidente del Consiglio dei ministri e responsabile dell’attuazione delle riforme, Marino Murillo, il nuovo modello economico «non implica cambi politici», ovvero ha lo scopo di «rafforzare il socialismo cubano» e non di smantellarlo. Però, a livello di macroeconomia, gli argomenti non mancano all’opposizione: secondo i dati resi pubblici dall’Uffico nazionale di statistica, il volume fisico prodotto dall’industria manufatturiera cubana è il 48% di quello prodotto nel 1989, ultimo anno in cui Cuba ricevette gli aiuti dell’Unione sovietica.
Tale livello raggiunge il 53% se si esclude l’industria dello zucchero, che è stata una delle più colpite dalla crisi. Non solo, il peso cubano vale 25 volte meno che nel 1990 e dunque tutti i salari sono stati di fatto ridotti di 25 volte in capacità di acquisto.
La perdita di valore del peso cubano, scrive López del Amo, «è la madre della perdita di altri valori perché, semplicemente, i lavoratori non possono soddisfare le loro necessità con i salari che ricevono. Da questa necessità di sopravvivenza sono nati i concetti di “luchar” (lottare per sopravvivere), non importa come, anche rubando e prostituendosi».
Per questo, conclude, è necessario accelerare il movimento di riforme già approvate con l’obiettivo di mettere le basi di un «socialismo prospero e sostenibile». Però, non è possibile cambiare un modello economico basato sul quasi totale controllo statale dei mezzi di produzione e dei servizi e su un forte egualitarismo «senza sconfiggere il burocratismo», una mentalità burocratica che tutto giustifica e che paralizza il Paese. Per liberare le forze produttive dalle briglie impostele «dal burocratismo, è necessario un cambio di mentalità, di strutture e anche di quadri politici».
Gli effetti delle riforme, però, si fanno già sentire. Innanzi tutto nel settore privato. «La liberalizzazione ha attivato una nuova mentalità » nei gestori di cafetterie, paladares (ristoranti), pizzerie, officine, cooperative, negozi di artigianato, barberie e ginnasi: più di 450.000 cubani, più o meno il 9% della popolazione attiva, lavora in 200 categorie di cuentapropistas (gestione privata), da agenti immobiliari a sarti, da falegnami a fotografi e tassisti.
Ma il vicepresidente Murillo ha messo in chiaro che per finanziare le misure che rendano possibile la crescita e nel contempo mantenere la «giustizia sociale»–istruzione e sanità gratuite, la libreta che assicura a tutti i cubani una quota di beni alimentari a bassissimi prezzi– è necessario aumentare il flusso di investimenti esteri fino al tetto previsto per quest’anno di 2,5 miliardi di dollari. L’obiettivo principale è rafforzare quei settori – come la produzione agricola– che permettano di sostituire le importazioni. Cuba infatti compra all’estero il 60% di quello che consuma con una spesa che l’anno scorso ha sfiorato 1,8 miliardi di dollari.
Il socialismo cubano ha dimostrato di saper redistribuire la ricchezza a livello sociale, ma oggi, afferma lo storico Lopez Oliva, il problema principale è produrre, senza rimettere in piedi l’economia è impossibile redistribuire e mantenere il welfar sociale.
Attrarre capitali stranieri e soprattutto investimenti che implichino un trasferimento di tecnologia, dunque una modernizzazione del settore industriale cubano, è dunque uno degli obiettivi strategici del governo di Raúl Castro. Con questi obiettivi si è aperta lunedì all’Avana «la Prima convenzione e esposizione internazionale Cubaindustria 2014 alla quale, riferisce il quotidiano del pc Granma, partecipano più di 400 impenditori stranieri in rappresentanza di 29 paesi (Italia compresa).