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luganskMentre continuano le grandi manovre diplomatiche per sondare la possibilità di un accordo di pace sull’Ucraina la situazione sul terreno si fa sempre più drammatica e caotica, e aumentano i punti di domanda sulla posizione della Russia. Intanto Matteo Renzi rende omaggio all'”eurasiatico” presidente kazako Nazarbaev.

 

Si sta andando verso un piano di pace?
Dopo gli incontri svoltisi in Normandia il 6 giugno si comincia a parlare più concretamente, per l’Ucraina, di piani di pace o come minimo di una tregua, come hanno riferito nei dettagli i media. Con l’elezione di Poroshenko gli Stati Uniti e l’Ue dispongono infine nel paese di una figura di riferimento più stabile e affidabile rispetto al governo di Kiev, finora fortemente diviso tra fazioni diverse e quindi inefficace. La Russia da parte sua vede nel nuovo presidente ucraino un uomo disponibile al compromesso, sia per il fatto che è un oligarca sia perché nel suo curriculum c’è tra le altre cose anche un passato con Yanukovich. Mosca negli ultimi giorni ha ulteriormente addolcito il tono delle proprie posizioni e messo un freno alla propria guerra propagandistica.

Uno dei primi strumenti per l’avvio di trattative concrete potrebbe essere quello dell’apertura di un canale per il deflusso della popolazione civile dalle aree di Slavyansk, Kramatorsk e altre zone urbane in cui l’esercito ucraino sta conducendo la cosiddetta “operazione antiterroristica” (ATO). La proposta in tale senso di Poroshenko ha ricevuto un’approvazione condizionata da parte di Mosca. Uno dei motivi per cui l’ATO finora non si è spinta fino a un’offensiva a tutto campo nelle città è infatti proprio la presenza di civili. Un’avanzata militare in zona urbana contro paramilitari che utilizzerebbero tecniche “partigiane” rischierebbe già di per se stessa di portare a una carneficina. La presenza di civili aumenterebbe in modo esponenziale il numero delle vittime e di conseguenza anche il danno di immagine per il governo di Kiev e per chi lo sostiene, con tutte le conseguenze politiche del caso. Un deflusso della popolazione lascerebbe chiaramente mano libera all’ATO e porterebbe quindi a una probabile sconfitta, almeno in un primo momento, delle forze separatiste.

Più probabile è che in realtà queste dichiarazioni servano per preparare un vero e proprio piano di pace, anche nell’ambito degli incontri a tre già avviati che vedono la parte ucraina e quella russa condurre negoziati con la mediazione dell’Osce. Mentre da una parte con l’elezione di Poroshenko ora c’è un interlocutore che in questo momento sembra affidabile, dall’altra, quella delle “repubbliche popolari” di Donetsk e Lugansk, regna ancora il caos. Un segnale del fatto che anche su questo lato si stia cercando di ripulire le fila dagli elementi meno affidabili e/o impresentabili è la notizia dell’arresto di Vyacheslav Ponomarev, il già potente “sindaco popolare” di Slavyansk, avvenuto tre giorni fa. Un’altra ipotesi in campo, che allo stato delle cose sembra alquanto fantasiosa ma vale comunque la pena di citare, è quella di un ritiro massiccio in Russia dei quadri militari della “Repubblica Popolare di Donetsk” (RPD) attraverso gli stessi canali utilizzati dai profughi. Il sito “Petr i Mazepa” interpreta in questo senso, mettendole in collegamento con gli altri recenti sviluppi, le parole recentemente pronunciate in questi giorni da Igor Strelkov, il capo militare della RPD: “Gli aiuti che stanno arrivando dalla Russia oggi [Strelkov si riferisce al recente massiccio afflusso di armi e combattenti dalla Russia – N.d.A.] sarebbero serviti un mese fa. Allora sarebbe ancora stato possibile ottenere un grande successo con tali aiuti. Adesso invece riescono a malapena ad aiutarci a mantenere le posizioni, ma senza la possibilità di ribaltare la situazione a nostro favore. […] Ormai è troppo tardi per l’aiuto militare che avremmo potuto ricevere dalla Russia nell’ambito di un ‘riconoscimento di fatto’. Adesso l’alternativa è quella tra una ‘resa facendo armi e bagagli’ o un sostegno militare diretto. In assenza di quest’ultimo noi, con combattimenti pesanti per proteggere colonne di profughi, ci ritroveremo presto o tardi sul territorio della Russia”.

 

La situazione sul terreno rimane drammatica
La situazione a Slavyansk, a Kramatorsk e in altri centri delle regioni di Donetsk e Lugansk è drammatica. In particolare Slavyansk e Kramatorsk sono ormai da lungo tempo sotto assedio dell’ATO e i colpi di artiglieria di entrambe le parti seminano il terrore tra la popolazione e causano vittime civili. Da alcuni giorni manca l’acqua, l’elettricità va e viene, i negozi sono quasi vuoti e le poche merci in vendita hanno prezzi che sono quadruplicati, non vengono più versate le pensioni e ogni attività economica è ferma da tempo. I racconti dei profughi, raccolti da fonti sia dell’una che dell’altra parte, dipingono nel complesso un quadro in cui anche le persone che fino a poco tempo fa avevano una posizione neutrale o passiva stanno passando, spesso anche prendendo le armi, dalla parte dei separatisti. Sembra insomma che si sia prodotta in ampie zone della regione una frattura che fino a non molto tempo fa poteva ancora essere evitabile. Da questo punto di vista le autorità di Kiev hanno condotto una politica che si sta rivelando fallimentare. All’inizio hanno tollerato le occupazioni di uffici amministrativi da parte di alcune centinaia di estremisti di destra nel feudo di Akhmetov. Sono rimaste senza conseguenze per un periodo di tempo protratto anche le occupazioni dei paramilitari partite proprio da Slavyansk e Kramatorsk. La prima fase dell’ATO a fine aprile è stata disastrosa e ha raggiunto un insuccesso dietro l’altro, sia per l’impreparazione militare sia perché la presenza capillare tra gli effettivi di Kiev di uomini delle forze di sicurezza del precedente regime ha di fatto sabotato molte operazioni (per esempio quella terminata con la famosa resa della colonna di corazzati a Kramatorsk). Poi si è dato il via libera ai “battaglioni privati”, che hanno causato vittime inutili tra civili aumentando così il fossato tra la popolazione locale e il governo di Kiev. Poi, in seguito al massiccio arrivo di paramilitari e armamenti dalla Russia a sostegno dei separatisti, il governo ha ampliato e intensificato ulteriormente le proprie operazioni, utilizzando anche l’aviazione, con altre vittime civili e riuscendo solo a contenere i separatisti nelle loro posizioni. Sull’altro fronte, quello delle “repubbliche popolari”, si è passati da una prima fase all’apparenza “da operetta”, ma in realtà di preparazione alla degenerazione militare a tutto campo, alla fase dei rapimenti, delle torture e delle inutili provocazioni armate, fino all’ultimo stadio della militarizzazione totale, dell’aperto intervento dalla Russia e della strumentalizzazione della popolazione a fini esclusivamente militari. Il risultato, dopo questa degenerazione e i fossati che sono stati scavati tra la gente, è che ogni eventuale accordo di pace avrà ben poche speranze di tenere sul lungo termine.

Nella regione di Lugansk gli ultimi sviluppi sembrano però andare in senso contrario a quello di un eventuale accordo di pace. Come racconta la “Novaya Gazeta” gli attacchi sistematici portati dai separatisti contro i punti di confine dell’esercito ucraino hanno portato di fatto a una cancellazione per un lungo tratto dei confini tra Ucraina e Russia, con l’afflusso massiccio di armamenti per i separatisti, ivi compresi mezzi corazzati. La regione è di fatto divisa in tre, come spiegano il sito “Insider” e altre fonti. Al nord ci sono le forze di Kiev, al centro quelle della “Repubblica Popolare di Lugansk” (RPL) guidata da Valeriy Bolotov e al sud le truppe dal cosacco Nikolay Kozitsyn, l’ennesimo cittadino russo che entra sulla scena dei combattimenti. Mentre le forze di Kiev sono riuscite a mantenere le loro posizioni a nord, Bolotov ha conquistato nuovi importanti edifici nella città di Lugansk. Gli attacchi ai posti di confine sarebbero però opera delle milizie cosacche di Kozitsyn venute dalla Russia che, stando a quanto riferisce nei dettagli “Insider”, si stanno avvicinando sempre più alla capitale Lugansk e potrebbero puntare a esautorare Bolotov, forse nello stesso modo in cui i cittadini russi Strelkov e Borodaj hanno preso in mano il controllo militare della RPD. Gli sviluppi delle ultime ore confermano la situazione altamente instabile. Il governo di Kiev afferma di avere riconquistato il controllo dei confini con la Russia, ma la notizia non viene confermata da fonti indipendenti. Mentre scriviamo è in corso un’intensa offensiva delle forze governative contro i separatisti a Mariupol che ha causato svariate vittime. A Donetsk c’è stato invece un attentato con autobomba di fronte all’edificio dell’amministrazione regionale, dove da inizio aprile ha sede il governo della RPD, attentato che ha causato diverse vittime e aveva come obiettivo il “premier” Denis Pushilin, già sfuggito non molto tempo fa a un analogo attentato. Inoltre, la drammatica crisi apertasi in questi giorni in Iraq rischia di avere ripercussioni indirette anche sulla crisi ucraina. Vi è la possibilità di una minore attenzione da parte delle cancellerie occidentali e di un’alterazione delle loro posizioni nei confronti della Russia, visto che l’occidente ha bisogno di qualche forma di collaborazione con la stessa al fine di evitare un disastro in Medio Oriente. Va notato infine che se nell’Ucraina occidentale la situazione è tranquilla, ci sono alcuni segni di tensione. Innanzitutto, recentemente famigliari di coscritti hanno protestato a Lvov contro l’invio di soldati in prima linea nell’ambito dell’ATO, un segno per ora limitato ma eloquente del fatto che il governo di Kiev rischia di perdere ulteriormente sostegno con il proseguimento della linea militare. A Kiev ci sono state poi manifestazioni per le dimissioni del capo dei servizi di sorveglianza dei confini, da una parte, e un tentativo di assalto alla Procura per chiedere l’avvio della lustrazione, cioè l’epurazione dal sistema giudiziario degli uomini del regime di Yanukovich.

 

L’incognita della posizione russa
Su tutto questo incombono i numerosi punti di domanda riguardo alle reali intenzioni della Russia. Molti inoltre si chiedono se in questo momento Mosca si trovi in una posizione politica ancora di forza, come nei primi due mesi dopo la conquista della Crimea, oppure in una posizione di debolezza. Ci sono alcuni segnali che secondo noi lasciano indirettamente pensare a una situazione difficile per la Russia in questo momento. Il primo elemento che lo fa intendere è il caos generato dalle forze sulle quali la Russia ha fatto affidamento come canali (se non addirittura come propri agenti) della propria politica di destabilizzazione dell’Ucraina. Il fatto che per l’operazione di conquista iniziale delle amministrazione regionali Mosca si sia ridotta a utilizzare bande di neofascisti ed estremisti di destra evidentemente incapaci e privi di senno, e in alcun casi addirittura degni di un ospedale psichiatrico, non è certo segno di forza, così come non lo è l’attuale utilizzo di una massa informe e frammentata costituita da politologi di estrema destra, combattenti caucasici e cosacchi ultranazionalisti. La Russia sembra attualmente pagarne il prezzo in termini strategici. Sul piano internazionale Mosca nelle ultime settimane ha siglato due importanti accordi (qualcuno li ha definiti “storici”) che secondo noi in realtà ne confermano la debolezza. Il primo, quello sul gas con la Cina, è stato siglato a prezzi di dumping e questo sul lungo termine rischia di avere conseguenze pesanti sulle casse di Mosca, oltre ad averne intaccato fin da ora la credibilità politica. Il secondo, quello sull’Unione Economica Eurasiatica con la Bielorussia e il Kazakistan, è stato stipulato dalla Russia cedendo completamente alla richiesta di Nazarbaev di tenere fuori dall’accordo ogni aspetto politico, al contrario di quanto invece avrebbe voluto Mosca, e piegandosi alla richiesta di Lukashenko di tenere in sospeso l’aspetto dei dazi sul transito del gas. Per non parlare poi del fatto che l’Unione entrerà in vigore dal 2015 solo nei suoi aspetti meno importanti, mentre molti dei punti più rilevanti sono ancora da definire e sono stati rimandati a scadenze molto lontane. In entrambi i casi ci sembra evidente che Mosca abbia dovuto cedere molto pur di avere in mano subito due “successi geopolitici” da sbandierare, e questo è un segno di debolezza. Dietro a tutto questo c’è la situazione dell’economia russa, con la fuga di capitali che in questa prima parte dell’anno è arrivata non lontana dai livelli del crollo del 2009, l’inflazione in forte crescita, il rublo svalutato e sempre traballante, il ristagno della produzione industriale e l’aumento costante dei crediti inesigibili delle banche.

Per completare il quadro citiamo infine alcuni interessanti commenti del giornalista Georgi Bovt, pubblicati dal sito “Gazeta.ru”. Bovt constata come la posizione della Russia in relazione all’Ucraina orientale sia oggi molto diversa da quella immediatamente successiva all’annessione della Crimea nel mese di marzo. Allora Putin, senza praticamente sparare un colpo, aveva ottenuto un grande successo, sia per la dimostrazione di forza a livello internazionale sia per il consenso raccolto a livello nazionale. Oggi le cose non stanno così, la situazione nell’Ucraina orientale è un pantano, è in atto una vera e propria guerra con assedi e molte vittime, mentre internamente solo il 30% dei russi è a favore di un intervento militare diretto. Riportiamo qui alcuni dei brani più interessanti della lunga analisi di Bovt: “Anche se la decisione di non entrare (per ora) in Ucraina con l’esercito dovesse essere stata adottata già tempo fa, questo non vuole dire che questa variante non venga più presa in considerazione. Anzi, secondo me non la si può affatto escludere per il futuro. E non solo perché nella dirigenza russa ci sono forze che tendenzialmente sono a favore di una soluzione militare dei problemi, ma anche perché la situazione in Ucraina potrebbe causare ancora non poche spiacevoli sorprese. Già in autunno potrebbe verificarsi un ulteriore inasprimento della crisi, con un calo della popolarità di Poroshenko”. Su un altro fronte, scrive Bovt, “la RPD e la RPL non sono riuscite a creare organi di governo paralleli efficaci, né a reclutare tra le proprie fila una parte sostanziale della nomenclatura o, aspetto ancora più importante, delle forze di sicurezza locali. I miliziani non controllano nemmeno la maggior parte della regione di Donetsk o di Lugansk. Le forze di sicurezza ucraine, anche quando sono pronte a fare defezione, non vogliono certo entrare nelle fila della RPD o della RPL. Preferiscono andarsene a casa e attendere che tutto sia finito. Tutto lascia pensare anche che i leader della RPD e della RPL non abbiano dalla loro parte nemmeno la maggior parte della popolazione: gli abitanti non sono disposti a pagare un prezzo così alto per una incomprensibile ‘federalizzazione’ e la maggioranza è ancora meno disposta a entrare a fare parte della Russia. […] Oggi gli umori sono ben diversi da quelli in Crimea. Puntare su un flusso massiccio di ‘volontari’ dalla Russia si è evidentemente rivelato un errore, oppure a questo punto viene retrospettivamente valutata da Mosca come una mossa troppo rischiosa”. Secondo Bovt poi l’esercito ucraino attualmente sta dimostrando di essere in grado di combattere contro i separatisti, contrariamente a prima. Di conseguenza, se la Russia dovesse intervenire direttamente con le sue forze armate “dovrebbe schierare non meno do 100.000 uomini, come in Afghanistan”. “Dal punto di vista politico-militare il ruolo dei miliziani”, prosegue il giornalista, “è sempre quello di resistere il più a lungo possibile, per rafforzare le posizioni di Mosca nell’ambito delle trattive con l’Occidente e, soprattutto, con Kiev”. Il rischio però, secondo il giornalista di Gazeta.ru, è che alla fine Putin si ritrovi in un vicolo cieco e scelga comunque l’intervento diretto, uno scenario che Bovt non esita a definire “da guerra mondiale”.

 

Matteo il kazako

Nel momento in cui la crisi in Ucraina continua a incombere sull’intero spazio post-sovietico, il premier italiano Matteo Renzi ha inserito nel suo tour asiatico un’importante tappa in Kazakistan. Come avevamo già notato in precedenza, Renzi sta seguendo le orme di Berlusconi nell’ambito della politica verso la Russia e i paesi post-sovietici. In Kazakistan, paese appena entrato a fare parte dell’Unione Economica Eurasiatica insieme a Russia e Bielorussia, Renzi ha firmato l’accordo per la creazione di una joint-venture tra l’italiana Eni, controllata dallo stato, e l’impresa statale kazaka KazMunayGaz, per lo sfruttamento del giacimento di gas a Kashagan. L’accordo è stato firmato in presenza del “grande capo” Nursultan Nazarbaev, un particolare importante, perché durante l’ultima visita di un premier italiano, quella di Mario Monti, questo onore era stato rifiutato. La firma della parte italiana è stata apposta dal nuovo CEO di Eni, Claudio Descalzi, che nelle scorse settimane ha preso parte alla “Davos” russa organizzata dal braccio destro di Putin, Igor Sechin, colpito da sanzioni Usa – una presenza che ha avuto sicuramente un suo significato politico. La presenza di Renzi e Nazarbaev alla firma costituisce di fatto anche una riappacificazione tra i due paesi dopo l’imbarazzante scandalo Shalabaeva. Come riferisce il quotidiano “Kommersant”, Matteo Renzi ha dichiarato a Nazarbaev che l’Italia “ha sempre sostenuto la politica del Kazakistan”, una dichiarazione veramente pesante se si pensa che il regime kazako non esita a sparare e uccidere operai che scioperano pacificamente, come è avvenuto a Zhanaozen nel 2011, e arresta in massa gli oppositori. Di fronte a Renzi il presidente kazako Nazarbaev ha ricordato tra le altre cose la creazione dell’Unione Economica Eurasiatica con Russia e Bielorussia. A questo proposito “Kommersant” commenta che il Kazakistan viene considerato da molti osservatori come il canale attraverso il quale, nel caso in cui dovessero essere approvate sanzioni economiche nei confronti della Russia, potrebbe essere aggirato l’embargo contro Mosca.