Preparato da mesi, anzi da anni, è cominciato il festival del centenario della Grande Guerra. Articoli, video, libri sfornati in serie. Ai “ragazzi delle scuole” si fa “riscoprire la Storia nelle storie dei loro bisnonni”. D’altra parte come Sinistra Anticapitalista lo avevamo previsto, e per questo ero stato incoraggiato a rispondere preventivamente. Lo ho fatto, ma sorvolando in genere sulle anticipazioni del “festival”, sugli articoli più spudoratamente commissionati, sui libri preconfezionati o tradotti a raffica, e che non aggiungevano nulla di nuovo.
Nel mio libro http://anticapitalista.org/2014/06/25/primo-conflitto-mondiale-la-madre-di-tutte-le-guerre/ ), mi sono sforzato soprattutto di ricostruire il modo con cui in ciascun paese la guerra è stata preparata ingannando la popolazione e gli stessi parlamenti, dove c’erano, imponendola come una fatalità a cui non si poteva sfuggire. E dovunque è stata condotta con lo stesso cinismo e disprezzo per i propri soldati. Nel frattempo continuano a uscire libri, alcuni dei quali pregevoli per la mole di informazioni soprattutto sulle premesse della guerra, anche se indebolite da tesi discutibili: tra questi ne spicca uno, che ha avuto un grande successo e che comunque tutti citano, e a cui invece non ho fatto mai riferimento nel libro (avrebbe richiesto un libro a parte, dato che esamina in oltre 700 pagine solo gli antefatti del conflitto): è I sonnambuli di Christopher Clark, pubblicato da Laterza nel 2013. Un libro che conclude che quella guerra nessuno la voleva veramente, e infatti trova centinaia di affermazioni anche in carteggi riservati, di esponenti politici di primo piano delle maggiori potenze che erano convinti che sarebbe stata una catastrofe incontrollabile. Ma il piccolo problema è che la guerra ci fu, e con le caratteristiche terribili che assunse subito. E la tesi di fondo, che vorrebbe assolvere tutti, è ancora più inquietante perché finisce per fare paragoni con l’attuale crisi dell’UE, cercando di tranquillizzarci osservando che oggi non ci sarebbe il pericolo di perdere il controllo come nel 1914, perché allora “non esistevano potenti istituzioni sovranazionali come quelle che oggi costituiscono il quadro in cui definire gli scopi dell’azione, mediare i conflitti e individuare rimedi”. A screditare il libro dovrebbe bastare questo, specie se si pensa ai guasti permanenti lasciati nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan, ecc. dall’intervento delle “potenti istituzioni sovranazionali.
Un altro libro ugualmente finalizzato a polemizzare con chi identificava troppo semplicisticamente le responsabilità principali in uno solo dei contendenti, è quello di Niall Ferguson, Il grido dei morti, (Mondadori, Milano, 2014) che polemizza soprattutto con gli autori britannici antitedeschi. Arriva così alla conclusione che “la decisione tedesca di rischiare una guerra europea nel 1914 non era basata sulla tracotanza: non era un tentativo di diventare una potenza mondiale. Semmai, i leader tedeschi agirono spinti da un senso di debolezza. Altra cantonata sulla Gran Bretagna: scopre l’acqua calda osservando che “non fu trascinata in guerra sull’onda dell’entusiasmo popolare per il «piccolo Belgio»; un motivo per cui molti uomini si arruolarono nel corso delle prime settimane era l’aumento vertiginoso della disoccupazione scatenato dalla crisi economica”. Vero per gli arruolamenti “spontanei”, ma sorvola sulle ragioni profonde per cui la Gran Bretagna era entrata in guerra. E minimizza assurdamente il ruolo dei media, asserendo che “la propaganda non fu l’esito del controllo governativo bensì una mobilitazione spontanea della stampa, nonché degli accademici, degli scrittori professionisti e dei registi cinematografici”.
Tanta ingenuità (condivisa anche da molti altri libri del genere) si deve al fatto che Ferguson prende in esame solo le dichiarazioni pubbliche dei rappresentanti delle classi dominanti, e ignora completamente lo scontro nell’internazionale socialista e nelle sue principali sezioni, e in particolare le ragioni di lunga durata dell’adattamento alle logiche del proprio imperialismo di quello che era considerato un po’ come un “partito guida”, cioè la socialdemocrazia tedesca. Inutile dire che della Russia si analizzano gli scontri interni alla corte, o le tendenze della diplomazia, ma non il punto di vista dei bolscevichi e la loro polemica con altre tendenze socialiste.
Più sconcertante ma comprensibile, date tali premesse, la conclusione generale: “Né il militarismo, né l’imperialismo né la diplomazia segreta resero inevitabile la guerra. Nell’Europa del 1914 l’antimilitarismo era dovunque la dominante politica”. In questo modo si consolida il principale mito sulla Grande Guerra: si sarebbe scatenata per errore, disattenzione, senza che nessuno dei responsabili dei vari paesi la volesse in modo cosciente. Lo contesta oggi Mark Harrison dell’Università britannica di Warwick (“Myths of the Great War” CAGE Working Paper, nº 188, University of Warwick, Department of Economics), che sostiene che la maggior parte dei protagonisti avevano piena coscienza dei rischi, ma avevano interessi diversi da quelli delle popolazioni su cui sarebbe ricaduto il peso della guerra. Non mancava la comprensione dei pericoli, dunque, ma pesava il fatto che in tutti i paesi belligeranti i sistemi politici rappresentavano scarsamente le classi subalterne. Un altro mito da sfatare è che l’ecatombe delle trincee fosse dovuta a uno sperpero di vite umane imprevedibile e imprevisto da tutte le strategie del periodo. In realtà era l’equilibrio delle risorse militari tra le due parti che rendeva inevitabile una guerra di logoramento e distruzione: la Germania aveva vantaggi in termini di popolazione e di forze già addestrate mobilitabili rapidamente, mentre gli avversari (a parte la Russia) avevano maggiori risorse disponibili per la produzione bellica, dalle mitragliatrici alle navi e agli aerei e – dal 1916 – anche ai carri armati.
D’altra parte, se si guarda non solo ai principali paesi in lotta, ma anche all’Italia, la tesi della incapacità di prevedere le caratteristiche distruttive della guerra si rivela infondata: nel maggio 1915 era chiarissimo cosa era diventata la guerra, ma ciò non fermò la folle corsa per entrarvi, in cui uomini politici meno che mediocri e militari stupidi e arroganti forzarono (con l’aiuto di intellettuali vanesi ed esibizionisti) sia l’opinione pubblica sia lo stesso parlamento.
E non regge la tesi che esclude la responsabilità della grande industria interessata alle forniture militari (non solo come armamenti, ma anche divise, alimenti, trasporti, ecc.) solo portando l’esempio delle consegne di armi che Krupp dalla Germania, Agnelli dall’Italia continuarono a fare a paesi dell’altro schieramento fino a poche ore dall’entrata in guerra. Ciò prova solo che per loro gli affari erano più importanti del patriottismo proclamato, ma non li assolve minimamente dall’aver finanziato le campagne di intossicazione sciovinista della stampa e di certi intellettuali.
Agli autori di questi libri, come ho già accennato, manca la conoscenza delle ragioni profonde della involuzione dei partiti socialisti. Manca anche a molti altri scritti d’occasione, come il libretto scritto da Luciano Canfora per Sellerio (dal semplice titolo: 1914), che mette insieme con buone intenzioni aneddoti e fatti marginali senza un asse e senza saper apprezzare veramente il ruolo delle minoranze che avevano previsto e rifiutato la guerra. Manca anche a quello che è forse il migliore di questi “libri d’occasione” (anch’esso col titolo sintetico 1914 ma con il sottotitolo: Come la luce si spense sul mondo di ieri), scritto dalla canadese Margaret Macmillan e tradotto dalla Rizzoli nel 2013. Un libro che mi aveva infastidito inizialmente per la sovrabbondanza di gossip su alcuni dei governanti di inizio secolo, sulle loro amanti, sulla stupidità e la presunzione di regnanti che avevano poteri enormi in paesi come la Germania o la Russia. Il tutto in quasi 800 pagine, che ricostruiscono solo il periodo immediatamente precedente il 1914. Tuttavia, attenendomi al principio che anche in un libro poco profondo si possono trovare notizie interessanti non ho rinunciato ad andare avanti, e ho scoperto con piacere che in alcune pagine la Macmillan è più attenta di altri ai dibattiti nel movimento socialista, pur essendo lontana dal coglierne tutte le sfumature. Ma in ogni caso non nasconde le contraddizioni di quelli che apparivano punti di riferimento alternativi, come ad esempio Jean Jaurès, la cui morte tragica per mano di un fanatico nazionalista (elogiato peraltro dal cardinal Baudrillard per aver tolto di mezzo “uno dei colpevoli della triste situazione odierna”) ne ha fatto l’icona dell’antimilitarismo. Eppure lo stesso Jaurès pochi anni prima aveva dichiarato “sacrosanto” il diritto della Francia di impadronirsi del Marocco, sia perché secondo lui non ci sarebbe stato “alcun bisogno di attacchi di sorpresa ed episodi di violenza militare”, ma soprattutto perché “il grado di civiltà che la Francia incarna agli occhi delle popolazioni indigene è indiscutibilmente superiore a quello dell’attuale regime politico marocchino”. Su questo libro, relativamente controcorrente anche se non sempre in grado di cogliere l’essenziale, ritornerò. Ma voglio intanto cogliere l’occasione per ricordare alcuni dei precedenti dello scoppio del grande conflitto, che vengono abitualmente citati, senza presentarne la reale portata, mentre la Macmillan dedica ad essi largo spazio. Il primo è il famoso “incidente di Fashoda”, in cui si rischiò un esito sanguinoso che fu evitato per poco. La Macmillan lo ricostruisce in modo divertente, descrivendo le sbruffonerie della stampa legata alla lobby coloniale francese, che aveva annunciato con largo anticipo il progetto, e la spettacolare impreparazione della “grande spedizione” partita dalla colonia francese del Gabon nel marzo i897e arrivata a Fashoda, sulle rive di uno dei bracci del Nilo (oggi Kodok, nella repubblica del Sud Sudan) solo un anno e mezzo dopo, dopo essere stata tra l’altro mal consigliata da Menelik sull’itinerario da seguire. La spedizione, che doveva rivendicare i “diritti” della Francia sull’Egitto e sul Nilo, risalenti a Napoleone o almeno a Ferdinand de Lesseps, era in realtà composta solo da un maggiore, Jean-Baptiste Marchand, scortato da ben 7 (sette) ufficiali francesi e da 120 mercenari senegalesi, più un numero cospicuo e variabile (per fughe e reclutamenti forzati lungo la strada) di portatori, necessari per le enormi scorte, sia di munizioni, sia di altri generi: 10 tonnellate di riso, 5 di carne in scatola, una tonnellata di caffè e 1.300 litri di vino rosso, ma anche 16 tonnellate (sic!) di perline colorate e 70.000 metri di stoffe variopinte da regalare agli indigeni, e che rimasero intatte perché lungo la strada gli abitanti del posto erano fuggiti regolarmente all’avvicinarsi della spedizione. Avevano portato anche una pianola e semi di varie piante. Quando arrivarono i britannici, capeggiati da Lord Kitchener (il futuro vincitore della guerra anglo boera) e con ben cinque cannoniere, un forte contingente anche egiziano e perfino un corrispondente al seguito, che era Winston Churchill, dopo un breve fastidioso cerimoniale (scambio di brindisi sgraditi alle due parti con champagne caldo e Whisky and soda altrettanto caldo), le due delegazioni si intimarono reciprocamente di abbandonare il campo. Ma a Parigi dopo un breve braccio di ferro decisero saggiamente di richiamare in patria, per “ragioni di salute”, il maggiore Marchand, che tuttavia rifiutò un comodo passaggio su un piroscafo inglese, e proseguì a piedi arrivando a Gibuti sei mesi dopo. In quel caso la guerra tra due dei futuri alleati nel conflitto mondiale era stata evitata, ma per un pelo.
Pochi anni dopo ci fu un altro incidente poco ricordato, e che invece merita di esserlo, soprattutto in Italia, vedremo. La notte del 21 ottobre 1904 la flotta russa del Baltico stava attraversando la Manica per dirigersi, dopo aver circumnavigato l’Africa, verso la Manciuria per partecipare al conflitto russo-giapponese, iniziato da qualche mese. Il passaggio per il canale di Suez era stato negato dalla Gran Bretagna, legata da un trattato di amicizia col Giappone. Era una notte di luna piena e la visibilità era ottima. Ma dalla flotta russa, arrivata all’altezza di una trentina di pescherecci britannici posizionati nella zona tradizionale di pesca di Dogger Bank a mezza via tra Inghilterra e Germania, partirono raffiche di mitragliatrici e salve di cannoni, che lasciarono due morti, molti feriti, e un peschereccio affondato. Il commento della stampa britannica era unanime: “erano tutti ubriachi, come sempre i russi”. Il governo chiese scuse ufficiali e un congruo indennizzo, senza successo. I russi negarono che i loro marinai avessero commesso qualche irregolarità. “Sostennero che c’erano ottime ragioni per credere che alcune torpediniere giapponesi fossero entrate nelle acque territoriali europee allo scopo di attaccare la flotta baltica”. Il ministro degli esteri britannico Lord Lansdowne respinse le scuse, e chiese alla flotta di restare all’ancora a Vigo, sulla costa atlantica della Spagna. Se avessero proseguito, il rischio di guerra sarebbe diventato enorme, superiore al 50%. Il governo russo reagì assicurando che c’erano “prove inconfutabili” delle intenzioni ostili dei giapponesi e aggiungendo che comunque la colpa era dei pescherecci che avevano intralciato la rotta della flotta. La flotta comunque non si fermò a Vigo, come sarebbe stato meglio, e proseguì verso il suo destino, che si compì nello stretto di Tsushima, tra la Corea e il Giappone, dove venne annientata in una delle più grandiose battaglie navali della storia. Più di 4.000 marinai russi perirono in mare, altrettanti furono presi prigionieri. Il Giappone aveva perso 116 uomini e qualche piccola torpediniera. E aveva vinto la guerra. Venuto a più miti consigli in seguito alla rivoluzione, il governo russo accettò una commissione internazionale che calcolò l’indennizzo per i pescherecci e i familiari delle vittime, e rinunciò a trasformare in eroi gli sparatori con le traveggole. Comunque la guerra tra Russia e Gran Bretagna era stata evitata…
Il libro della Macmillan è ricco di altri spunti: anche se non ne tira tutte le conclusioni descrive vari altri “incidenti” che hanno spinto la Gran Bretagna a staccarsi dalla Germania da cui il suo gruppo dirigente sembrava fortemente attratto. Ad esempio la crisi legata a una spedizione che nel 1902 la Germania aveva proposto e il governo britannico accettato, per imporre al Venezuela, fortemente indebitato con banchieri tedeschi e inglesi, il pagamento totale del suo debito. La spedizione anglo-tedesca fu bloccata dalle minacce degli Stati Uniti, guidati dal futuro premio Nobel per la pace Teddy Roosevelt, ed “eroe” dell’invasione di Cuba. Naturalmente gli Stati Uniti si rifacevano alla cosiddetta dottrina Monroe, e cioè pretendevano di essere loro a imporre il pagamento del debito al Venezuela… [Sui premi Nobel per la pace si veda la rassegna che ne facevo in Un giusto premio ] Ma la Macmillan (ed è il pregio maggiore del suo libro) dedica parecchio spazio alla ricostruzione della Conferenza per la pace dell’Aja voluta nel 1899 dal ridicolo Nicola II. Nel descriverlo e nel riportare i giudizi degli altri sovrani (tutti imparentati tra loro e abituali a grotteschi scambi epistolari confidenziali) non mancano toni surreali. Mentre il Kaiser decide di “appoggiare questa pagliacciata” solo “per risparmiare allo zar una pessima figura di fronte all’Europa intera”, e l’ambasciatore degli Stati Uniti a Berlino Andrew White commentava sarcastico che “dev’essere la prima volta dall’alba dei tempi che tante persone si riuniscono in uno spirito di scetticismo così totale e improduttivo”. La ragione era evidente: nessuno dei partecipanti credeva alla conferenza, e tutti sapevano bene che Nicola II l’aveva voluta soprattutto perché “non riusciva più a tenere testa alla spesa militare delle altre potenze europee”, ma tutti dovevano fare i conti con un’opinione pubblica affascinata dalla inconsistente proposta del giovane zar.
Proprio in Germania, il paese da cui erano venute le critiche più severe all’iniziativa dello zar, era stato raccolto un milione di firme a sostegno di una campagna per il disarmo. La petizione tuttavia conteneva frasi che la svuotavano di fatto: ad esempio diceva che la Germania non procederà al disarmo finché i Paesi che la circondano saranno irti di baionette”, e anche che non sarà disposta a “rinunciare ai legittimi vantaggi che ci spettano nel quadro di una leale competizione tra le nazioni”. Insomma l’attesa per quella iniziativa di pace era assurdamente infondata, e naturalmente non vi fu nessuna conclusione, a parte una moratoria sullo sviluppo dei gas tossici (e si vide ad Ypres, ma anche su altri fronti, a cosa era servita quella risoluzione), o il divieto di sparare dai palloni aerostatici. Ma ci fu chi si tranquillizzò.
L’atteggiamento dell’opinione pubblica ricordava quello dei parigini che attendevano l’aereo di Daladier di ritorno dalla Conferenza di Monaco. Daladier, vedendo quella folla, pensò che lo attendessero per linciarlo, come avrebbe meritato, ma lo aspettavano invece per esaltarlo come il salvatore della pace. Vive la paix!, gridavano, e alla guerra preparata da quell’ennesima concessione a Hitler mancava meno di un anno.