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slavyanskDopo avere esaminato nel nostro ultimo articolo le modalità della caduta di Slavyansk e le sue possibili conseguenze, tracciamo nella prima parte di questo pezzo un profilo delle forze separatiste, della loro attuale consistenza e dei loro comandanti. Nella seconda parte analizziamo invece l’aspetto dell’assenza di un sostegno di massa ai separatisti e le sue possibili motivazioni.

 

Una mappatura delle forze separatiste

Nei giorni prima della caduta di Slavyansk svariate fonti hanno pubblicato descrizioni e cartine dettagliate relative alla disposizione e all’entità numerica dei separatisti, nonché ai comandanti che li guidano. Le valutazioni del numero degli effettivi variano, ma è possibile sulla loro base tracciare un quadro generale. A Slavyansk il comando era, come abbiamo scritto, nelle mani del “ministro della difesa” della RPD Igor Strelkov, cittadino russo, che comanda il 1° Battaglione volontari, composto da cittadini ucraini e da volontari russi. Strelkov comanda(va) direttamente anche le forze dislocate nella città di Krasny Liman e Severska, nonché nel villaggio di Yampol. Le stime dei combattenti sotto il suo comando variano da 1.000 a 2.000. A Kramatorsk, Konstantinovka e Artemovsk il comando è (era) in mano a Sergey Zdrylyuk, detto Abver, con doppia cittadinanza ucraina e russa, che ha il controllo di circa 600 uomini. Gorlovka è controllata dal comandante Igor Bezler detto Bes, anch’egli con doppia cittadinanza ucraina e russa, che dispone di circa 400-500 uomini, alcuni dei quali conducono operazioni di spionaggio e sabotaggio nelle zone occidentali della regione di Donetsk che non si trovano sotto il controllo della RPD. Donetsk, Makeevka e le aree meridionali e centro-orientali della regione di Donetsk sono sotto il controllo militare di Aleksandr Khodakovsky, cittadino ucraino e comandante del battaglione Vostok, già ufficiale delle truppe speciali “Alfa” sotto il regime di Viktor Yanukovich. Khodakovsky avrebbe il comando diretto di circa 400 uomini e risponde direttamente di fronte al premier della RPD, Aleksandr Boroday, cittadino russo. Nelle aree circostanti a Donetsk e in parte confinanti con l’area di Gorlovka controllata da “Bes” operano le truppe di Mikhail Verin, cittadino ucraino, che fa riferimento al vicepremier della RPD, il neofascista Andrey Purgin. Verin controlla circa 400 uomini organizzati nella “Armata Ortodossa Russa”, che collabora strettamente con l’organizzazione neonazista Unità Nazionale Russa di Aleksey Barkashov e ha un centro di reclutamento a Mosca. Nel complesso però a Donetsk e nella sua area operano molti più combattenti di quelli delle due formazioni citate, secondo alcune stime si arriva in tutto a 2.000-3.000. Lisichansk, Severodonetsk e Rubezhnoe (aree nord-occidentali della regione di Lugansk) sono sotto il controllo militare di Aleksey Mozgovoy, cittadino ucraino, che comanda il battaglione Prizrak e le Milizie Popolari della Regione di Lugansk, e risponde direttamente di fronte a Strelkov. Ha a sua disposizione circa 400 uomini e in passato è stato in conflitto con il presidente della LPR, Valeriy Bolotov, con il quale ha poi raggiunto un compromesso. Lugansk e le aree circostanti sono sotto il diretto controllo militare di Bolotov, che dispone di circa 600-1.000 uomini, a seconda delle stime. A Lugansk e intorno alla città opererebbe poi una dozzina di altre formazioni in conflitto tra di loro e/o che collaborano con la dirigenza della RPL e i cui effettivi totali ammonterebbero a non più di 400 uomini. L’area meridionale e sud-orientale della regione di Lugansk sono sotto il controllo militare del leader cosacco Nikolay Kozitsyn, cittadino russo, che secondo stime molto approssimative disporrebbe addirittura di 2.000-4.000 uomini, in larga parte “volontari” russi reclutati a Rostov. Kozitsyn controlla le città di Krasnodon, Perevalsk, Krasny Luch, Chervonopartizansk, Antratsit e Rovenky, nonché molti punti di transito al confine con la Russia che sono di grande importanza strategica. E’ in aperto conflitto con il presidente della RPL Bolotov, che lo ha definito un “traditore”. Nel complesso, secondo il sito ucraino “Insider”, la valutazione più realistica del totale delle forze dei separatisti dovrebbe essere compresa tra 7.000 e 10.000 uomini. Naturalmente stiamo parlando del periodo immediatamente precedente la caduta di Slavyansk, dopo la quale ci potrebbe essere stato un deflusso di effettivi.

 

L’assenza di un sostegno attivo ai separatisti e le sue possibili cause

In un articolo recente ci eravamo posti il problema fondamentale dell’incognita rappresentata dalla posizione della popolazione dell’Ucraina orientale, rimasta in massima parte passiva nonostante i drammatici eventi in atto. Si tratta di un’incognita che a nostro parere permane anche oggi. Da questo punto di vista dissentiamo radicalmente dall’interpretazione che una parte della sinistra ha dato della questione (tra tutti, il più diffuso su questo aspetto è stato il marxista ucraino Volodymyr Ishchenko). Secondo questa testi interpretativa, nell’Ucraina Orientale ci sarebbe un movimento “di massa, di base e plebeo” alla testa del quale si sarebbero posti in una seconda fase elementi reazionari (secondo i più radicali, e più dozzinali, come il russo Boris Kagarlitsky, anche questa dirigenza sarebbe “obiettivamente rivoluzionaria”) e gli eventi in corso nella regione sarebbero da questo punto di vista paragonabili a quelli di Maidan a gennaio e febbraio. Si tratta di una tesi secondo noi chiaramente “romantica” e ideologica non supportata dai fatti, che non a caso i suoi sostenitori evitano accuratamente di affrontare nei dettagli, affidandosi invece a categorie interpretative molto generiche. Come avevamo già rilevato, le mobilitazioni popolari a sostegno dei separatisti sono state irrisorie, dell’ordine delle centinaia o al massimo, nei momenti topici, di un paio di migliaia. Fin dall’inizio tutto è stato organizzato da una ristretta cerchia di estremisti di destra privi di qualsivoglia forma di mandato popolare (il 6-7 aprile) e da paramilitari con comandanti russi giunti dalla Crimea annessa dalla Russia (il 12-13 aprile), rimasti isolati a livello popolare fino a oggi. Se esiste una prima fase, è quella che va da inizio marzo a inizio aprile (prima cioè della proclamazione delle “Repubbliche Popolari”), ma anche qui le mobilitazioni sono state scarse, se si eccettua la manifestazione del 1 marzo che è arrivata a circa 10.000 persone (quindi comunque non enorme), ma tale manifestazione non era a favore del separatismo, della federalizzazione o di altre forme di autodeterminazione, ed era invece un raduno organizzato essenzialmente dai potenti boss locali del Partito delle Regioni contro il nuovo governo. Le (scarne) mobilitazioni sembrano avere raccolto essenzialmente la partecipazione di settori limitati della piccola borghesia, di sottoproletari non organizzati e ai margini della società, nonché di pensionati nostalgici dell’Unione Sovietica. La dirigenza delle Repubbliche è interamente nelle mani dell’estrema destra connessa alla Russia, non ha alcuna origine popolare ed è formata principalmente da piccoli e medi imprenditori o direttori d’azienda. Brilla per la sua neutralità la classe operaia, che pure nella regione è numericamente molto rilevante e ha una tradizione di mobilitazioni alle spalle. Il caso di una grande città come Donetsk è esemplare – per tre mesi i separatisti vi hanno agito del tutto indisturbati e senza alcuna forma di repressione nei loro confronti, ma nonostante questo non sono riusciti a raccogliere una partecipazione massiccia e attiva della popolazione. Le loro stesse “istituzioni” non hanno coinvolto in alcun modo gli abitanti locali – e l’esperienza insegna che quando vi è una vera esigenza di mobilitazione dal basso le masse utilizzano e si impadroniscono anche delle istituzioni “rivoluzionarie” più sgangherate e precarie. E’ significativo anche il fatto che all’interno dell’area sud-orientale dell’Ucraina solo nel feudo dell’oligarca Rinat Akhmetov la situazione sia degenerata, mentre in importanti aree controllate da altri sistemi oligarchici il separatismo è stato debole (Kharkov), pressoché inesistente (Odessa) o del tutto inesistente (Dnepropetrovsk). Il fatto che le sorti delle correnti separatiste siano dipese di gran lunga di più dal comportamento e dalle strategie dei singoli oligarcati locali che dal sostegno popolare la dice lunga sul fatto che non abbiano alcun carattere “di massa e di base”. L’unico momento in cui c’è stata una partecipazione di massa, anche se difficilmente quantificabile, è stato quello del referendum dell’11 maggio. Solo che le modalità del suo svolgimento, organizzato in tutta fretta, senza alcuna forma di dibattito e senza alcun controllo popolare, lo hanno reso simile più a un “gioco” che a un vero e proprio referendum che impegna la coscienza politica di chi vi partecipa. Nonostante ciò, è stato indubbiamente un segno della simpatia di larghi settori della popolazione locale per i separatisti, ampiamente confermata dai più svariati reportage dalla regione e da alcune indagini di opinione, da prendere tuttavia con le pinze vista la difficoltà di condurle in una situazione di conflitto. Allo stesso tempo è chiaro anche che la grande maggioranza della popolazione non si è mobilitata contro i separatisti e tanto meno a favore delle autorità centrali di Kiev.

Se c’è stato un sostegno diffuso ai separatisti, è stato comunque di natura puramente passiva. Solo che la parola “sostegno” nel caso in questione spiega tutto e non spiega niente, ci sembrano molto più opportune le parole “simpatia” e “amichevole tolleranza”. Perchè l’uso del termine “sostegno” implica porsi subito la domanda “sostegno a cosa?”, alla quale è difficilissimo nel caso dell’Ucraina Orientale trovare una risposta. Per esempio, nulla lascia intendere che vi sia un chiaro sostegno di massa all’annessione alla Russia o, ancora meno, a ipotesi di indipendenza o federalizzazione. Non vi sono state mobilitazioni politiche nemmeno a sostegno dello status di lingua nazionale per il russo, per esempio. E nemmeno ci sono state rivendicazioni minimamente strutturate di natura sociale. L’impressione di chi scrive è che il motore principale della “simpatia” della popolazione sia di natura prevalentemente politica e in parte revanscista. Maidan ha colpito al cuore (senza però sconfiggerlo) un sistema oligarchico che da lungo tempo aveva come propria base economica, politica e in parte anche popolare proprio le regioni dell’Ucraina Orientale. Con la disgregazione del Partito delle Regioni e la potenziale guerra di potere tra gli oligarchi, in queste regioni si è creato un vuoto enorme e, del tutto comprensibilmente, si è diffusa la paura per un futuro incerto. L’entrata in gioco di uomini armati e, soprattutto, della “grande madre russa” immediatamente dopo il grande successo dell’annessione della Crimea ha sicuramente fatto nascere in ampi strati della popolazione la speranza di un riempimento di questo vuoto e di una rivincita rispetto a chi lo aveva creato, cioè i “banderisti di Kiev”. Tutto questo ha potuto trovare terreno fertile grazie a una serie di problemi che però non sono del tutto specifici dell’Ucraina Orientale, bensì in buona parte comuni a tutto il paese, come la precarietà sociale o il ruolo degli oligarchi, odiati ma temuti e considerati garanti di un minimo di stabilità. Se una sconfitta dei separatisti saprà mettere fuori gioco queste illusioni (o mire) revansciste, e se a Kiev, sempre più in preda a umori patriottici e a loro volta revanscisti, non prevarrà la linea della vendetta, è possibile che nel tempo si aprano spazi per una riapertura di un dialogo dal basso tra l’est, il centro e l’ovest del paese. Non c’è da essere molto ottimisti, perché nelle alte e potenti sfere dell’una e dell’altra parte, per motivi di interessi obiettivi, nessuno sembra avere l’intenzione di consentire un tale processo. Ma non va nemmeno dimenticato che solo questo autunno nessuno prevedeva lo scoppio di un movimento di massa come Maidan, che pur avendo fallito per ora i suoi obiettivi, fatta eccezione per la rimozione di Yanukovich, ha lasciato senz’altro una forte traccia nella società e nella cultura della protesta del paese.

Per chiudere, riguardo alle ipotesi sui possibili futuri sviluppi vale la pena di citare il caso di Mariupol, rimasta da tempo ai margini delle cronache. Questa città di 400.000 abitanti è passata, anche se con le sue peculiari tempistiche, attraverso tutte le fasi della crisi nell’Ucraina Orientale, dall’occupazione dell’amminsitrazione regionale e la proclamazione dell’adesione alla RPD, a un’azione militare dei battaglioni di Kiev finita il 9 maggio in un bagno di sangue seguita immediatamente da una riconquista militare da parte dei separatisti, e infine alla ripresa del controllo in modo pressoché pacifico da parte delle forze di Kiev. Mentre fino al 9 maggio i separatisti di Mariupol assomigliavano molto ai loro colleghi di Donetsk, cioè un gruppo folcloristico isolato dalla maggioranza della popolazione, l’episodio violento del 9 maggio ha fortemente alimentato le simpatie degli abitanti locali nei loro confronti, tanto che la partecipazione al referendum dell’11 maggio sembra essere stata particolarmente ampia e i giornalisti hanno cominciato a definire Mariupol una delle città più filo-separatiste. In realtà dopo la sua riconquista da parte delle forze di Kiev, e nonostante la città venga governata in modo pacifico e senza particolari repressioni, i sentimenti filoseparatisti sembrano essersi volatilizzati in un batter d’occhio. I filoseparatisti manifestano liberamente, ma raccolgono al massimo qualche decina di persone sotto slogan oggi fattisi generici, come quelli contro la NATO. Insomma, il caso di Mariupol sembra essere un segno della labilità del sostegno, anche solo di quello passivo, ai separatisti. Certo, la città non può essere considerata esemplare di tutto il Donbass: è una città portuale, lontana dai centri nevralgici dei separatisti e, soprattutto, è il centro dell’impero economico di Akhmetov. Il caso di Slavyansk e Kramatorsk è molto diverso, in particolare per il fatto che le due città, a differenza di Mariupol, sono state oggetto di un lungo e violento assedio da parte delle forze di Kiev, con distruzioni e molte vittime, cosa che ha sicuramente alimentato un sostegno ai separatisti presso ampi settori, così però come le violenze e le repressioni esercitate dai separatisti devono avere alimentato l’odio nei loro confronti presso altri settori. La situazione a Slavyansk è quindi sicuramente quella di una città di gran lunga più ferita rispetto a Mariupol o ad altri centri, con tutte le relative conseguenze. Per questo sarà importante ora seguire attentamente cosa vi accadrà, nella speranza che tra le autorità di Kiev non prevalga la linea dura. A questo proposito è necessario che vengano subito estromesse dai battaglioni che operano nell’ambito della “operazione antiterroristica” (ATO) i membri di formazioni di estrema destra che sono entrati a farne parte a partire da maggio. Un esempio è quello dei “Patrioti dell’Ucraina”, una formazione apertamente neonazista che diffonde odio e si è macchiata di crimini sia prima dell’ATO che nell’ambito della stessa, così come d’altronde lo stesso Pravy Sektor di cui fa ancora parte, nonostante stia gravitando sempre più verso il Partito Radicale di Oleg Lyashko. Si tratta di una formazione molto pericolosa, ma piccola e che inoltre ha in alcune occasioni svolto un ruolo doppiogiochista: non sarebbe difficile cominciare proprio da lei una pulizia antifascista dei battaglioni. Poroshenko sta puntando molto sul crearsi un’immagine di uomo risoluto e forte, ma da questo punto di vista si sta rivelando molto debole e nei fatti connivente con i neofascisti.