La squadra di calcio dell’Algeria ha appena annunciato che darà tutto il suo premio ai palestinesi di Gaza. Combattiva e con un gioco piacevole, non è riuscita a battere gli Stati Uniti e superare gli ottavi di finale, ma questo gesto verso la popolazione martire di Gaza la mette sul podio del campionato della solidarietà internazionale [anche se gli amici di Israele si sono affrettati a minimizzare la notizia, basandosi su altre dichiarazioni di burocrati sportivi legati al governo di Algeri NdR]
Ai «Fennecs» [nome della squadra nella stampa francofona] bisogna aggiungere un altro algerino (o piuttosto franco-algerino), il prestigioso cannoniere della squadra francese, Karim Benzema, che in molte occasioni ha espresso la sua solidarietà al popolo palestinese.
Che cosa fa sì che, anche in questo sport di competizione, dove gli attori si preoccupano più delle cifre astronomiche che incassano che dei valori morali, ci sia una tale passione per la Palestina e il suo popolo? La risposta che ci danno i sostenitori incondizionati dello Stato ebraico non ci può sorprendere: dietro questo sostegno alla Palestina si nasconde, o piuttosto non si nasconde neanche, l’antisemitismo, soprattutto se si tratta di arabi, di qualsiasi posto siano. Avendo interiorizzato la teoria dello «Scontro di Civiltà», i sostenitori incondizionati di Israele vedono nella solidarietà alla Palestina l’espressione dell’odio eterno (sic!) del mondo musulmano verso quella che chiamano la civiltà giudaico-cristiana. La storia del mondo si riassumerebbe in questa guerra eterna, iscritta nel codice genetico della civiltà musulmana: è quello che ci si ripete senza sosta ormai da più di un quarto di secolo, tralasciando i due millenni di antisemitismo cristiano e i numerosi secoli di coesistenza giudaico-musulmana più o meno armoniosa. A meno di sbagliare gravemente, Treblinka non era nel Magreb, né Sobibor un sobborgo di Damasco.
A prima vista, l’argomento della solidarietà comunitaria è più raffinato: se si è arabi o musulmani si sostengono i palestinesi che sono arabi, così come se si è ebrei si è a fianco dello Stato ebraico. Sarebbe così che va il mondo.
Ma questa riduzione della simpatia verso la lotta dei palestinesi a una questione di solidarietà comunitaria si scontra con due fatti: le decine di milioni di persone che si sono mobilitate per i diritti del popolo palestinese sono lungi dall’essere tutte arabe o musulmane, e la posizione critica verso Israele della maggioranza delle istanze sindacali internazionali e dei movimenti sociali dei cinque continenti è il fatto di uomini e donne che appartengono anche a culture non arabe e non musulmane. Se torniamo al calcio, la squadra dell’Italia che dona simbolicamente la coppa del mondo che ha vinto nel 1982 all’ambasciata palestinese a Roma, non era composta da musulmani o arabi. E Messi che posa davanti alle fotocamere del mondo intero con una kefia sulla quale si può vedere il ritratto di Yasser Arafat, anche lui non è arabo.
Da qui la pertinenza della nostra domanda iniziale: da dove viene questa passione particolare – e unica dopo quella per il Vietnam negli anni sessanta e settanta – per la causa palestinese?
Il fatto è che da oltre mezzo secolo la Palestina è allo stesso tempo la trincea avanzata della guerra globale tra il disordine imperialista e i popoli, e il simbolo della resistenza all’ingiustizia strutturale che i grandi di questo mondo vogliono imporci con la forza. Non è esagerato dire che il popolo palestinese tiene sulle sue deboli spalle l’avvenire dell’umanità, tra barbarie e liberazione.