L’aggressione dello Stato Israeliano ha come obiettivo il popolo palestinese e i suoi diritti, da sempre negati. Non siamo di fronte ad “una guerra contro Hamas”. Lo conferma la repressione sanguinosa operata dalla polizia israeliana e dagli attacchi dei coloni, cosiddetti “estremisti”, contro le attuali numerose ed ampie manifestazioni dei Palestinesi nella Cisgiordania occupata, al di là dei massacri dei civili e della distruzione delle infrastrutture come delle abitazioni a Gaza.
La guerra condotta da una esercito che pretende di qualificarsi come “esercito di difesa” rimanda a molteplici fattori. Due meritano in particolare di essere sottolineati.
Su una catena televisiva in lingua francese –I24News, espressione della “lobby ebraica” per riprendere una formula utilizzata da un giornalista di Yediot Aharonot, durante un dibattito con Serge Dumont del quotidiano Le Soir (Belgio) e del Temps (Svizzera), viene alla luce un argomento di glorificazione mai usato così apertamente neanche nel 2009. Si insistite su un fatto: l’industria di armi, nelle sue diverse componenti in seno all’economia d’Israele, rappresenta un ammontare di esportazioni pari a 7,5 miliardi di euro. Nel 2013, si collocano al 3% delle esportazioni di armi nel mondo. Israele si trova quindi nelle “top ten” (tra le prime dieci) degli esportatori d’armi, riporta con enfasi, Le MondeJuif.info del 27 luglio 2014. Riporta dei dati del settimanale della City: The economist.
Durante un dibattito su I24News, il 26 luglio, un argomento, del tutto realista, è stato avanzato da un “esperto” sull’argomento: i progressi nella esportazione di armi sono collegati alla sofisticazione crescente dei diversi tipi di produzione militare. Ora questa capacità tecnologica è direttamente collegata, per riprendere la formula di questo specialista dell’industria di armamenti, “agli effetti di ritorno delle guerre condotte e all’esperienza accumulata”. Questo significa che ciascuna “operazione, da “Piombo fuso” a ” Margine protettivo”, sfocia su un rafforzamento dell’industria di armi che gioca, con tutte le sue ramificazioni, un ruolo importante nel sistema produttivo israeliano.
L’esperto di armi, intervenendo su I24News, aggiungeva che questa progressione accresceva l’autonomia in termini di armamento in relazione ai “più grandi”. Ossia gli Stati Uniti. Questo favorisce la possibilità di manovra del governo nelle “trattative” con l’alleato statunitense, comunque tanto fedele. La virulenza – certo caratteristica dei compiti politici-diplomatici dell’ultradestra governativa – contro il piano di tregua di Kerry, che viene qualificato di essere “pro Hamas”1, ne è una espressione congiunturale.
A suo modo, questa retorica, segue le tracce dei “successi militari” della cosiddetta operazione “Margine protettivo” della vantata “Cupola di ferro” (Iron dome: sistema d’arma mobile per la difesa antimissile, ndr) che ha neutralizzato la quasi totalità di missili di Hamas. Questo “Dome” è esportbile, per lo meno in parte, verso diversi paesi. Tra l’altro nel quadro della lotta del dittatore del dittatore Abdel Fattah al-Sisi contro i Fratelli musulmani, gli omaggi che gli rende il governo Netanhyau non poggiano solamente sulla riconoscenza per la distruzione dei “tunnel” cosiddetti di Hamas sulla frontiera egiziana e per i suoi sforzi diplomatici che vengono presentati in opposizione a quelli di Kerry. La potenza economica dei militari egiziani costituisce uno sbocco in crescita per le armi israeliane. La camera di commercio Franco-isrealiana (Ccfi) indicava, nel giugno 2014, che le consegne di materiale elettronica erano stata stabilite dal 2010. Con Sisi possono riprendere2.
In realtà, esiste un complesso militare-industriale israelo-americano. Tra le imprese israeliane – dove il collegamento tra lo Stato e il ministero della Difesa giocano evidentemente un ruolo di rilievo – si possono menzionare: Elbit Systems, Israel Aerospace Industries (IAI), Israel Military Industries (IMI), Isreal Weapon Industrie (IWI), Rafael Advanced Defense Systems che è il creatore dello “Iron dome”. Alcune di queste imprese hanno una presenza internazionale come Elbit e IWI. Un’ impresa statunitense come Ratheon,le cui vendite nette, durante il solo secondo trimestre del 2014, superano i 5,7 miliardi di dollari, costituisce, tuttavia, un anello significativo di questo complesso.
Tra guerra e accumulazione del capitale avviene un matrimonio volto a sollecitare con regolarità un insieme di iniziative che vanno dalla guerra a bassa intensità legata all’occupazione, a quella di “sicurezza” regionale e agli interventi circostanziati (per esempio in Siria), sino alle guerre di aggressione contro la “striscia di Gaza”. Per non parlare delle campagne di minacce all’indirizzo dell’Iran. Queste ultime servono a gonfiare gli ordini delle industrie israeliane e statunitensi. In questo caso il doppio complesso militare-industriale funziona meglio delle centrifughe iraniane.
Questo pilastro dell’economia trova un prolungamento politico ideologico: lo stato di guerra e le guerre – che fanno da eco alla condizione di Stato colonialista con la sua punta avanzata: i coloni e le colonie – permettono di frenare, se non di impedire totalmente, l’emergere delle diverse spaccature che attraversano la società israeliana. Infatti alle diverse discriminazioni proprio di questa “condizione” si deve aggiungere un’attestata pauperizzazione che rimanda ai rapporti sociali polarizzati dalle “riforme” neoliberali. Secondo l’Ufficio centrale di statistica il “13,7% delle famiglie in cui uno dei membri lavora sono sotto la soglia di povertà” ( Le Monde, 12 luglio 2014). Una delle risposte delle classi dominanti – a grandi linee, i membri dell’apparato militare in senso largo e dei suoi prolungamenti politici così come i 100 più ricchi che hanno accumulato una fortuna che equivale a quella di 850.000 “israeliani ordinari” (Le Monde) – consiste nelle “operazioni di guerra” e nell’esacerbazione della tematica del “terrorismo”. Quest’ultimo è assimilato al Palestinese e all’Arabo. Al mantra ” il popolo di Israele deve essere unito di fronte agli attacchi terroristi” si aggiunge un razzismo alimentato dall’alto che non cessa di rinforzarsi. La messa in scena, avvenuta qualche giorno fa, dei funerali di un soldato di origine falasha – termine che significa in aramaico “esiliato” che ha una connotazione negativa … come, de facto, l “accoglienza” discriminatoria in “terra santa” – rivela, al contrario, queste crescenti fratture caratteristiche dei rapporti sociali che minano questa società capitalista e colonialista controllata dallo Stato sionista. Uno stato nel quale, sotto diverse modalità, prende una forma più concreta – al di là delle presupposte cause ideologico- teologiche – l’imprigionamento-espulsione dei Palestinesi.
1) The Times of Israel ( versione in francese) in data 27 luglio 2014 scrive sotto la firma autorevole di David Horovitz, fondatore del Times of Israel, già capo redattore del Jerusalem Post e del Jerusalem Report : “Contrariamente alla sua affermazione durante la conferenza stampa del Cairo secondo cui la proposta di tregua era stata “costruita “su iniziativa egiziana, non vi è nulla a tal proposito. Avi Issacharoff ha riportato, con altre fonti, che si trattava di una proposta che, per citare un responsabile anonimo citato dal Secondo canale, “voleva aggirare l’iniziativa egiziana”, una proposta che sembra anche essere stata redatta a Khaled Meshaal. E kerry non si è fermato qua. Dopo il fiasco di venerdì, ha preso il volo per Parigi e, cosa straordinaria, ha intrapreso nuove consultazioni con paesi che sono apertamente contro Israele. Si è intrattenuto con i suoi omologhi turchi, che hanno recentemente accusato Israele di genocidio a Gaza e ha paragonato Netanyahu a Hitler, e anche con il Qatar, donatore di fondi al capo di Hamas, direttamente accusato l’ultima settimanale dal presidente Shimon Peres di finanziare i suoi missili e i suoi tunnel. Incredibilmente,Kerry non ha invitato né Israele, né l’Egitto, né l’Autorità palestinese ai suoi incontri di Parigi. Netanyahu e i suoi colleghi non hanno annunciato ufficialmente il loro rifiuto unanime della proposta di tregua lanciata da Kerry per evitare di provocare pubblicamente un contrasto diplomatico con il più importante alleato di Israele. Sembra comunque strano che quella che è chiaramente una crisi forte tra Israele e gli Stati Uniti avvenga nel momento in cui Israele si trova nel mezzo di una guerra complessa e costosa. Quando Hillary Clinton si era impegnata nello sforzo negoziale per mettere fine all’operazione “Pilastro di sicurezza” nel novembre 2012, era evidente che, oltre ad aver a portata di mano la tregua, avesse coordinato il lavoro diplomatico con Gerusalemme e che avesse preso in considerazione gli interessi vitali di Israele.
2) Secondo Slate (Copyrights ): “nel corso degli ultimi cinque anni, Israele ha esportato del materiale di sicurezza verso il Pakistan e quattro altri paesi arabi: l’Egitto, l’Algeria, gli Emirati arabi uniti e il Marocco. Il quotidiano Haaretz fornisce una lista esaustiva degli equipaggiamenti esportati: nel 2010, Israele ha chiesto un permesso per fornire all’Egitto e al Marocco dei sistemi di guerra elettronici”. (12 giugno 2014).