Ieri è arrivata la notizia di una nuova lettera di 50 riservisti israeliani che hanno rifiutato di combattere a Gaza. Nessuno ne parla. Per questo abbiamo ripreso un articolo di Andrea Dessi, di tre anni fa, ma comunque utile. Sosteniamo la coraggiosa resistenza di Gaza, e anche la presa di coscienza di una piccola minoranza di israeliani. Piccolissima, anzi, ma è proprio questa che in prospettiva può salvare Israele dal consolidamento delle tendenze fascisteggianti che la portano inesorabilmente allo scontro con i popoli vicini, nonostante i governi autoritari asserviti all’imperialismo e a Israele che li governano con feroci metodi dittatoriali.
La guerra a Gaza ha avuto il 94% dei consensi in Israele, ma ha anche riportato alla ribalta il ruolo dei refusenik, gli obiettori di coscienza israeliani, oggi riuniti nell’associazione Courage to Refuse, che conta oltre 600 soldati e ufficiali dell’esercito. Perseguitati e incarcerati per il loro rifiuto di combattere nei Territori occupati.
L’ultima guerra nella Striscia di Gaza ha ottenuto un sostegno senza precedenti da parte della popolazione israeliana. Secondo un recente sondaggio dell’Università di Tel Aviv, l’appoggio per l’operazione “Piombo fuso” ha raggiunto il livello record del 94%. In questo contesto, la minoranza che si è opposta è rimasta per lo più ignorata o, peggio ancora, pubblicamente accusata di “alto tradimento”. Courage to Refuse è forse l’unico gruppo che, grazie alla sua composizione, può sperare di suscitare una risposta meno ostile da parte della società israeliana. Fondato ufficialmente nel 2002 con la pubblicazione di una lettera firmata da 50 soldati e ufficiali dell’esercito israeliano (Idf), è il primo gruppo interamente composto da refusenik, obiettori di coscienza, in Israele. L’organizzazione conta attualmente 628 membri, tutti soldati o riservisti nelle file dell’Idf, che nel firmare la “lettera dei combattenti”, pubblicata sui maggiori quotidiani d’Israele a intervalli continui dal 2002, hanno apertamente rifiutato di servire nell’esercito per qualsiasi azione correlata all’occupazione dei Territori palestinesi. “Noi, riservisti e soldati dell’Idf [..] siamo consapevoli che i territori [occupati] non fanno parte d’Israele” afferma la lettera, che dichiara: “Non continueremo a combattere al di là dei confini del 1967”, ma “continueremo a servire nell’Idf in qualsiasi missione il cui scopo è la difesa d’Israele. Le missioni d’occupazione e oppressione non hanno questo scopo, e noi non ce ne renderemo complici”.
Rifiuto di combattere
Le recenti operazioni militari a Gaza hanno di nuovo posto in rilievo il ruolo degli obiettori di coscienza nella società israeliana. Sarebbero almeno 10 i refusenik di questa guerra, e tutti rischiano dai 14 a 35 giorni di galera. In due sono già stati condannati. Tra questi Noam Livne, 34 anni, che studia per un dottorato in matematica. Lo abbiamo raggiunto al telefono nella sua casa di Tel Aviv il 19 gennaio, la sera prima della sua apparizione di fronte alla corte. «Ho il presentimento che andrò in galera» dice con rassegnazione.
Per Noam non sarebbe la prima volta; è stato già condannato nel 2001 a 22 giorni di prigione per aver rifiutato il richiamo alle armi durante la seconda Intifada. Avendo servito nel genio militare israeliano per più di 7 anni come ufficiale, Noam racconta com’è arrivato alla decisione di diventare refusenik. «E’ stato un processo di maturazione. Mi sono sempre opposto all’occupazione [..] il mio servizio di leva obbligatorio è stato negli anni degli accordi di Oslo, un periodo molto ottimista. Sembrava fossero gli ultimi giorni dell’occupazione e noi dovevamo fare il necessario per porre fine al conflitto».
Distinguere le colonie da Israele
«Allora – dice Noam – non avevo problemi morali con le missioni di cui mi occupavo. Dovevo scortare i pullman scolastici dei bambini delle colonie di Gaza. Sai, non è colpa loro se sono nati nelle colonie…». Concluso il periodo di leva viaggiò molto, ma al ritorno in Israele fu convocato come riservista nell’esercito. «Era l’inizio della seconda Intifada. Al tempo leggevo molto, specie la colonna settimanale di Gideon Levy nel giornale Ha’aretz. Giunsi alla conclusione che l’unica ragione per la presenza dell’Idf nei territori occupati era la protezione delle colonie e ciò non aveva niente a che fare con la sicurezza o la difesa d’Israele. Io questo non posso giustificarlo moralmente».
Dopo essere uscito di prigione, e mentre altri come lui rifiutavano il servizio militare, nel gennaio 2002 fu pubblicata la “lettera dei combattenti” tramite cui, con il passare degli anni, più di 600 soldati hanno dato voce alla loro obiezione all’occupazione. «Noi siamo soldati, ufficiali e riservisti, ciò che la gente qui chiama sale della terra, quindi a volte è più facile che le persone ci capiscano» dice Noam. «Stiamo provando a rendere i refusenik più facili da digerire per la società israeliana».
Pochi giorni dopo l’intervista, Noam è stato imprigionato senza il diritto a un avvocato. Ora è in attesa di essere processato da una Corte militare; rischia un massimo di due anni di galera. Questo trattamento pare dovuto al fatto che, qualche giorno prima del processo, ha pubblicato un articolo nel sito internet di uno dei giornali più letti in Israele, Yedioth Ahronoth, denunciando le azioni del proprio governo a Gaza.
Una guerra contro i civili
Simile a quella di Noam è la storia di Haim Weiss, un altro membro fondatore del gruppo Courage to Refuse ed ex capitano delle forze corazzate dell’esercito israeliano. 39 anni, padre di tre figlie, è professore di letteratura ebraica antica all’Università di Be’er-sheba: «Credo che quel che è accaduto a Gaza sia vicino alla definizione di crimini di guerra» dice con sdegno. «Non c’era una guerra lì, non abbiamo combattuto contro soldati, ma contro donne e bambini. L’aviazione ha distrutto la Striscia, solo dopo è entrato l’esercito di terra. L’idea che si possa uccidere quante donne e bambini si vuole in modo da non rischiare la vita dei nostri soldati non ha mai fatto parte del dialogo morale all’interno del nostro esercito». Ciò che più di qualsiasi altra cosa ha indotto Haim a dissociarsi sono gli eventi da lui definiti “guerra tribale” tra gli israeliani e il nemico. L’attacco e il contrattacco, le “rappresaglie”, che «non hanno alcun senso se non mostrare chi è che comanda» nei Territori.
Haim ritiene che la cosa più ardua siano i posti di blocco: «Stare lì ogni giorno impedendo ai palestinesi di avere una vita normale e decente, senza alcuna buona ragione, è difficile da giustificare. I posti di blocco sono lì principalmente per difendere le colonie, non Israele» afferma, precisando che «c’è un’enorme differenza tra i due: proteggere Israele è una buona causa, ma proteggere le colonie che sono illegali secondo qualsiasi definizione del diritto internazionale non lo è, e io non sono disposto a prendervi parte».
Haim Weiss ha servito come ufficiale in commando di uno dei checkpoint più grandi nei Territori occupati che si trova sulla strada per Hebron. Dice che «è impossibile essere lì e sperare di fare la cosa giusta, l’unico modo per fare la cosa giusta e non essere lì affatto». Rispondendo a una domanda sulla reazione della società israeliana alle attività di Courage to Refuse, lascia trapelare un accenno di sconforto; lui, assieme agli altri fondatori del gruppo, all’inizio pensavano «che la gente ci avrebbe rispettato perché facevamo parte del sistema». Tuttavia, dice oggi, «Courage to Refuse è diventato famoso solo per due mesi, poi ci hanno etichettati come membri dell’estrema sinistra. Ora nessuno dei media israeliani vuole parlare con noi».
Tornando al conflitto attuale con Hamas, che descrive come una «orribile organizzazione terroristica», Haim dichiara con convinzione: «Non si può pensare di combatterli uccidendo centinaia di civili innocenti. Questo non risolverà il problema; prima o poi, ricominceranno a sparare e il rituale si ripeterà».