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4372B4973E92099E575DC9FBC98EAIl 3 giugno 2014, Bashar al-Assad, in seguito a una rielezione mistificatrice, riservata alle sole dittature che hanno l’audacia di metterle in scena, «affermava democraticamente il proprio potere» sui territori che le sue forze armate, poliziesche, mafiose controllano con pugno di ferro. Mercoledì 16 luglio 2014, Bashar al-Assad prestava giuramento, sul Corano, davanti ai deputati. Li aveva riuniti in sessione cosiddetta straordinaria. Un solo luogo era degno di questa riunione «post-elettorale»: il suo palazzo sovrastante la capitale Damasco.

Un migliaio di invitati siriani avevano il dovere di obbedire alla convocazione. Potevano, così, fiutare il cambiamento di clima. Il dittatore affermò la propria determinazione di farla finita «con i terroristi». Indicava, con il suo atteggiamento, che la «comunità internazionale» – sotto l’impatto, tra l’altro, della inarrestabile avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante [Isil], dei negoziati con l’Iran, dei rapporti conflittuali fra l’Arabia Saudita e l’Iran degli ayatollah – aveva intenzione di ritessere legami con il clan Assad.

Questa «comunità» – i cui attori hanno interessi e obbiettivi diversi – cerca di tirarsi fuori dalla rete intrecciatadopo il disastro dell’intervento imperialista in Iraq e della sua «gestione diplomatica» della sollevazione popolare contro il regime autocratico e criminale degli Assad. Si presumeva che questa gestione dovesse sposare il modello di transizione dello Yemen – ma non ha avuto un buon esito. Così Bashar, il 16 luglio, senza timore, con eloquenza, ha dichiarato: I paesi occidentali e arabi pagheranno molto caro il sostegno alla opposizione terrorista siriana. I volti mostruosi si sono svelati, la maschera della libertà e della rivoluzione è caduta.» Egli ha preteso dagli oppositori che depongano le armi per «cessare lo spargimento di sangue»! Gli «oppositori» con i quali potrebbe essere stabilito il dialogo sono quelli, a contrario, che hanno «dato prova del loro patriottismo». C’è di chetentare di definire le linee di forza di un nuovo governo di «coalizione» nelle settimane a venire!

La Russia di Putin e l’Iran di Khamenei sono stati ringraziati dal quarantottenne autocrate. Va da sé. Ora, come dice Leslie Gelb, ex funzionario del Dipartimento di Stato e del Pentagono, presidente emerito del Council on Foreign Relations, «in Iraq, essi [gli Iraniani] sono i nostri alleati naturali» per lottare contro lo Stato Islamico del califfo di Baghdad e anche per trovare un’ alternativa a un padrone sciita e mafioso dell’Iraq di cui bisogna sbarazzarsi: Nouri al-Maliki.

Come per caso, il 18 e 19 giugno 2014, su invito del ministero degli Affari esteri norvegese, Boussaina Chaabane, consigliera del presidente Bashar al-Assad, si è recata a Oslo. Una porta diplomatica più facile da aprire di quella della Unione europea (UE). A Oslo, Bussaina Shaaban ha incontrato: il ministro degli Affari esteri norvegese, Borge Brende, l’ex-presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, il segretario generale aggiunto delle Nazioni unite per gli affari politici, Jeffrey Feltmann. E, non va dimenticato, il capo dell’ufficio del presidente iraniano Rohani. Egli ha insistito «su ciò che l’Occidente può fare per mettere fine all’arrivo di armi, di denaro e di terroristi in Medio-Oriente…».

Tutto dunque si mette a posto – con i diplomatici che «ritrovano» l’«affascinante» Damasco al momento dei cocktail – per stabilire rapporti pubblici con questo «presidente eletto» in giugno.

Intanto la popolazione martire di Aleppo muore sotto i barili di TNT (trinitrotoluene, esplosivo militare) o tenta di sopravvivere in campi profughi È ciò che il racconto, agghiacciante, di Edith Bouvier descrive. (Redazione A l’Encontre)

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Due bambine giocano su un’altalena, un ragazzino di una decina d’anni le spinge in avanti. Le loro risa rumorose non possono nascondere il rumore sordo delle bombe che cadono qualche strada più in là. In fondo al giardino, un uomo abbassa la serranda della sua piccola bottega. Tutto il giorno, vende gelati e caramelle ai bambini del quartiere di Salahaddin al centro di Aleppo.

Un particolare distingue questo giardino d’infanzia dagli altri: all’ingresso, una trentina di tombe ancora fresche dice la violenza dei combattimenti in questa città del nord della Siria. Da un lato, quelle dei civili uccisi durante gli ultimi bombardamenti. A fine aprile, un barile di TNT è stato gettato da un aereo del regime su una scuola di un quartiere vicino. Una ventina di bambini dagli otto ai dodici anni sono stati uccisi in queste violenze. Molti sono sepolti là, i fiori stanno appena cominciando a spuntare sui piccoli monticelli di terra. Un uomo è seduto su un bordo di pietra, lo sguardo sembra fisso sulla tomba delle sue due giovani sorelle, gli occhi tremano ancora di emozione.

Dall’altra parte, altre tombe appena più vecchie: quelle degli abitanti di Aleppo uccisi nei combattimenti contro gli estremisti dello Stato Islamico (ex-Stato islamico in Iraq e nel Levante). Questo movimento ha raggiunto le strade di Aleppo nel settembre 2013 ed è stato molto rapidamente combattuto da tutti i gruppi della opposizione siriana. Questi scontri hanno fatto qualche centinaio di morti nella città di Aleppo, e hanno permesso di respingere i membri dell’Esercito Islamico più a est.

Oggi, meno di 200.000 persone vivrebbero ancora ad Aleppo. La città era un tempo la capitale economica del paese e popolata da più di 1,6 milioni di abitanti, prima che scoppiasse la rivoluzione nel marzo 2011. Dopo la battaglia di Aleppo dell’agosto 2012, la città si svuota. Quando non è la guerra, gli ultimi resistenti si battono contro il tifo, la leishmaniosi e la carestia. Proprio dietro il giardino e l’altalena, una scuola è nascosta negli edifici della moschea. L’ambiente è pesante, nessuno corre nei corridoi. Forse perché i bambini hanno già tutti pagato un pesante tributo alla rivoluzione siriana. Secondo l’ONU, più di 160.000 siriani sarebbero stati uccisi nelle violenze che scuotono il paese.

La direttrice della scuola, Afraa Hashem, ha appeso alcuni disegni sui muri del suo ufficio. Tutti o quasi mostrano bombe sganciate sulla città e genitori sepolti. «I nostri bambini sono cresciuti troppo presto. Pagano il prezzo forte di questa rivoluzione. Ogni giorno sentono cadere i barili e contano i morti nelle loro proprie case. Sono esposti a una violenza estrema, molti non si rimetteranno mai. Sono costretta ad adattare i programmi e i metodi di apprendimento. Bisogna evitare ad ogni costo di creare una generazione di analfabeti, ma i bambini non hanno più la testa per apprendere e costruire il loro avvenire», spiega la direttrice. Un bambino, il viso abbassato e gli occhi arrossati, entra nel suo ufficio, lei lo prende sulle ginocchia e gli parla all’orecchio. Il bambino si calma e ritorna in classe. Certi quartieri della città non esistono più.

Si attraversano zone intere svuotate di ogni traccia umana. Qui si teneva un vecchio bazar, le strade attorno erano sempre intasate. I luoghi non sono altro che mucchi di macerie. Qualche abitante attraversa correndo, nessuno cammina, più nessuno prende il tempo di vivere. Non si vive più, si sopravvive. In certe strade, pozzanghere di sangue scorrono lentamente. I bambini passano davanti e voltano la testa. Alla svolta di una strada, più persone alzano la testa e scrutano il cielo con angoscia. Un aereo Mig del regime sorvola la città, presto sgancerà uno di questi terribili barili di esplosivi. L’autista accelera, poi improvvisamente inchioda davanti a una piccola drogheria e corre a comprare delle bevande fresche. Fare finta di niente, come se la morte non si aggirasse al di sopra delle teste.

In certi giorni, gli aerei possono sganciare circa trenta barili. La morte viene a sorprendere gli abitanti fin nel sonno. Generalmente, i bersagli sono moschee, scuole o ospedali. Gli abitanti di Aleppo, terrorizzati, non gridano neanche più. Guardano cadere le bombe. «Spesso, il regime mira alla stessa zona due volte di seguito per fare più vittime. I curiosi e i soccorritori accorsi sul posto per cercare dei vivi sotto le macerie cadono a loro volta.» L’uomo che fa questa triste constatazione porta un casco da montagna e protezioni alle ginocchia. Sono una ventina, come lui, a raggiungere al più presto le zone bombardate dal regime per tentare di salvare dei civili. Questa volta la bomba è caduta molto vicino a una moschea, all’ora della preghiera per i musulmani. Per fortuna, solo quattro persone sono state uccise. Una donna è ancora sepolta sotto le macerie della sua cucina. La sua famiglia si lamenta, alcuni gettano grida di dolore, le lacrime scorrono sulle gote. La vita si è fermata. Si muore, ad Aleppo, nient’altro. Si aspetta e si muore. (Le Temps, 19 luglio 2014)