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ororossoPrince Bony non avrebbe mai immaginato di traversare il deserto e il mare e trovarsi a fare lo stesso lavoro che faceva al suo paese. Seduto davanti a un casolare abbandonato, vestigia della riforma agraria, guarda l’orizzonte e riflette sulla propria vita. Prince divide questa dimora di fortuna con una decina di altri lavoratori stagionali ghanesi.

Senza documenti, senza soldi, senza prospettive, hanno trovato rifugio qui, in mezzo alla campagna, in questo gruppuscolo di ruderi che per un’ironia del destino si chiama “Borgo Libertà”.

«In Ghana, mi chiamavano Kofi America, perché ho sempre desiderato viaggiare. Volevo conquistare il mondo!» [Prince Bony – Lavoratore stagionale ghanese]

Intabarrato in un vecchio cappotto liso, Prince guarda con aria assorta il sole che tramonta all’orizzonte. Poi dice una sola parola: «Il pomodoro». Il suo volto si illumina di una luce velata di tristezza non appena la pronuncia. «Anche a Navrongo, la mia città, coltivavamo pomodori!».

Navrongo, Upper East Region, Ghana. I campi di pomodori, una volta rigogliosi di frutti, oggi sono deserti. I produttori hanno cambiato colture o abbandonato le terre.

Lungo la strada che porta da Tamale a Navrongo, le piramidi di pomodoro vacillano al passaggio dei camion carichi di casse vuote, lanciati a tutta velocità lungo l’asse che unisce il Nord e il Sud del Ghana. Il rumore dei motori, l’ululare dei clacson, lo sbatacchiare dei rimorchi copre le urla delle donne che sul ciglio della strada mettono in bella mostra i rossi ortaggi per venderli. Ma invano: il pomodoro fresco non lo compra più nessuno.

Tra i baracchini del mercato, le venditrici si lamentano. Nei loro panieri, i pomodori succosi finiscono per guastarsi e marcire. I clienti non vogliono più prodotti freschi, ma solo scatole di Salsa, Gino e Obaapa, marche di pomodoro concentrato importate dall’Italia o dalla Cina.

«In tutti i piatti ghanesi, c’è del pomodoro. Ma il pomodoro prodotto qui non si vende più». Ayine Justice Atomsko, capo della piccola comunità agricola di Vea, ha il tono amaro di chi ricorda un’altra epoca. Solo vent’anni fa, la coltura del pomodoro era florida in questa regione del nord del Ghana. Tutti i contadini ne coltivavano qualche ettaro, con la garanzia di riuscire a venderli a buon prezzo.

«Ormai non coltivo più pomodori. Non saprei a chi venderli» [Aolja Tenitia – ex contadina dell’anno 2007]

Ma all’inizio degli anni 2000, la manna si è trasformata in maledizione. L’esperienza fallita della fabbrica di trasformazione di Pwalugu, la concorrenza del vicino Burkina Faso, e soprattutto l’arrivo di un’ondata di importazioni di pomodoro in scatola dall’Italia e dalla Cina hanno distrutto i sogni dei contadini della Upper East Region. «Siamo stati traditi», tuona Aolja Tenitia, che nel 2007 era stata nominata “contadina dell’anno” dal governo e ricevuta con tutti gli onori ad Accra al ministero dell’agricoltura e poi alla televisione di stato. All’epoca, aveva un campo florido. Oggi pratica un’agricoltura di pura sopravvivenza. Sfiancati dai debiti, dopo aver investito tutti i propri risparmi nei semi, nei fertilizzanti e nelle terre, alcuni produttori di pomodori disperati sono arrivati a suicidarsi nel 2007.

“La coltura del pomodoro poteva essere una miniera d’oro”

Makola market, il mercato centrale di Accra – uno dei più grandi dell’Africa Occidentale – è il cuore commerciale della capitale. Un vero e proprio formicaio dove migliaia di venditori ambulanti si ammassano in un dedalo di stradine, ingombre di camion carichi di merci di ogni sorta. Dappertutto, baracchini di legno appaiono sommersi da rosse scatole di pomodoro, sapientemente sistemate dalle venditrici. “Gino”, “Salsa”, “Fiorini”, le marche sono un concentrato d’Italia. Il marchio funziona per il pomodoro: anche il prodotto cinese “Gino” ostenta il tricolore italiano sulla scatola per attirare clienti.

«Prima vendevo zuppe e ortaggi freschi. Oggi, i clienti comprano solo barattoli» [Agnes Sewa – Venditrice ambulante]

«Questa scatola di Gino è quella che si vende di più, ma anche la Salsa va forte», spiega Agnes Sewa, una venditrice davanti al suo piccolo baracchino colorato. Nel corso degli anni, Agnes ha visto a poco a poco scomparire le montagne di frutta e verdura fresca dal mercato, rimpiazzati da scatole di conserve importate dal mondo intero.

Per Philip Ayamba, direttore del Community Self Reliance Center, organizzazione vicina ai produttori di pomodoro, il governo avrebbe dovuto limitare la quantità di pomodoro concentrato proveniente dall’estero. «Se il mercato fosse stato regolato, gli agricoltori avrebbero potuto beneficiare di prezzi migliori e avrebbero avuto un mercato in cui vendere i propri prodotti. Ma il governo ha fatto il contrario. Ha spalancato le porte del paese alle importazioni di pomodoro concentrato europeo. C’è una tale scelta e una tale quantità che è praticamente impossibile vendere i pomodori prodotti localmente».

A partire dagli anni 2000, il governo di Accra ha ridotto i dazi doganali sulle importazioni di alcuni prodotti, fra cui il pomodoro concentrato, generando a medio termine un vero e proprio diluvio di prodotti esteri nei mercati locali.

Ogni anno, il Ghana importa circa 50mila tonnellate di pomodoro concentrato. Un mercato succulento che l’Italia, già monopolista fino a circa dieci anni fa, si contende oggi con la Cina.

“Le massicce importazioni di concentrato di pomodoro dall’Europa hanno distrutto il mercato locale”

L’industria dell’oro rosso – Nocera Superiore – Campania, Italia

Nella fabbrica di lavorazione del concentrato “Salsa”, i barattoli piroettano lungo i binari con un frastuono assordante. Operai indaffarati al volante di muletti caricano pile di scatole di cartone su un container. «Questo parte domani per la Costa d’Avorio», spiega il direttore.
«Quando mio padre ha fondato l’impresa nel 1968 produceva 10mila scatole al giorno. All’epoca era eccezionale», racconta Angelo D’Alessio, amministratore delegato di Cec Esportazioni. «In Africa, fino a vent’anni fa, il concentrato di pomodoro era esclusivamente italiano». Ancora oggi, l’impresa vive grazie al mercato africano. Tutta la produzione di questa fabbrica di Nocera Superiore, in provincia di Salerno, è esportata a sud del Mediterraneo. Grazie alla sua marca più importante, “Salsa”, la società ha un fatturato annuo che oscilla tra i 20 e i 30 milioni di euro.

«L’Italia è il secondo trasformatore e conservatore mondiale di pomodoro dopo la California, in termini di quantità di prodotti freschi trasformati», si rallegra Giovanni de Angelis, direttore dell’ANICAV, associazione nazionale dei produttori industriali di conserve alimentari vegetali. Nel 2013, l’industria italiana di pomodoro trasformato ha esportato 1,127 milioni di tonnellate di conserve di pomodoro, per un fatturato di 846 milioni di euro, in un mercato in crescita dell’8,32% in un anno, secondo dati elaborati da Federalimentare.

Il cuore di questo “business” si trova nel centro-sud, nella regione di Napoli nucleo strategico per la trasformazione e il commercio. Sui moli del porto partenopeo, container carichi di barattoli di pomodoro concentrato “made in Italy” partono ogni settimana per i quattro angoli del pianeta.
La produzione agricola è stata invece delocalizzata in Puglia, dopo che i terreni dell’agro napoletano sono stati a poco a poco divorati da un’urbanizzazione rampante. La piana della Capitanata, intorno a Foggia, già luogo principe delle colture cerealicole, è oggi diventata la miniera dell'”oro rosso”.

“Nemmeno in Africa ho mai visto persone vivere e lavorare in tali condizioni”

Oro rosso sangue nero – Borgo Libertà – Puglia, Italia

In mezzo alle praterie giallastre della piana della Capitanata, che si estende tra le coste del mare Adriatico e le colline del Gargano, dei tir carichi di casse di pomodoro vanno a tutta velocità su strade male asfaltate in direzione di Napoli, sollevando nuvole di polvere. Un’atmosfera da Far West americano, che a poco a poco lascia spazio a uno scenario africano. In fila indiana, lavoratori stagionali ghanesi, maliani, senegalesi raggiungono i loro accampamenti, alla fine di una giornata di duro lavoro. Dalla fine di luglio alla metà di ottobre, sono migliaia a fare tappa nei campi del sud Italia per la stagione della raccolta di pomodori.

Impiegati per lo più al nero, non sono pagati a ore, ma a cottimo. 3,5 euro ogni cassone di 300 chili, cioè meno di 20 euro al giorno, per un lavoro sfiancante. Senza contratto di lavoro, né copertura sanitaria e alla mercé dei “caporali” – gli intermediari tra lavoratori e datori di lavoro. Se hanno fame a metà giornata, sgranocchiano di nascosto un pomodoro. La sera, rientrano nel loro campo, dove hanno affittato un “posto letto”: un materasso all’aria aperta o in una baracca di fortuna.

Gli “invisibili” delle campagne di raccolta sono migliaia in tutto il sud Italia. Quasi tutti privi di documenti, sono disposti a tutto pur di lavorare. «Neanche in Africa ho mai visto gente vivere e lavorare in tali condizioni», si indigna Yvan Sagnet, studente camerunese che ha organizzato nel 2010 il primo sciopero di lavoratori stagionali nei campi delle Puglie. Oggi lavora per la CGIL, principale sindacato italiano, per difendere i diritti dei lavoratori stagionali immigrati.

L’Italia, terza agricoltura europea dopo la Francia e la Germania, si contende con la Spagna il primato nella produzione di ortaggi. Negli ultimi dieci anni, sulla base dei dati FAOSTAT, l’Italia ha prodotto in media 6 milioni di tonnellate di pomodori ogni anno. Secondo la FAO, l’ammontare medio degli aiuti europei al settore del pomodoro era nel 2001 di 45 euro alla tonnellata. Inoltre, secondo Oxfam, l’Unione europea sovvenziona la produzione totale di pomodoro in Europa per circa 34,5 euro a tonnellata; una sovvenzione che coprirebbe il 65% del prezzo di mercato del prodotto finale.
Ma chi si rende conto a Bruxelles del paradosso di sovvenzionare un prodotto destinato all’esportazione, che fa dumping sulle produzioni locali in Africa?

«Durante la stagione della raccolta dei pomodori, riesco a mandare un po’ di soldi alla mia famiglia in Ghana. Ma non posso ripartire, né farli venire, né dire loro in che condizioni vivo qui» [Prince Bony – Lavoratore stagionale ghanese]

La storia di Prince Bony è emblematica di questo meccanismo perverso. Seduto davanti alla sua casa fatiscente, che dovrà presto lasciare perché il tetto minaccia di crollare, non sa dove andrà per continuare il suo viaggio. Vero e proprio Sisifo dei tempi moderni, sembra condannato a raccogliere pomodori come il figlio di Eolo faceva rotolare la sua pietra verso la cima della montagna. Quello che Prince ignora è che il frutto del suo lavoro al nero, nei campi di pomodori del sud Italia, rischia di spingere a loro volta gli agricoltori dell’Upper East Region, nel nord del Ghana, ad abbandonare le loro terre. Quelle stesse terre che un tempo erano anche le sue.

 

Fonte con i video-reportages dell’articolo: http://www.internazionale.it/webdoc/tomato/