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Dia-Azzawi-Sabra-ShatilaLe riflessioni sul caso Di Battista (Uno scandalo italiano: Di Battista! ) mi hanno spinto a rivedere alcune cose scritte una decina di anni fa, quando ancora alcuni settori palestinesi utilizzavano il terrorismo come arma, e quando sembrava che alcuni giovanissimi fossero attratti da Al Qaeda e dai suoi metodi. Era già sul sito, in un mio testo scritto come introduzione al libro Israele sull’orlo dell’abisso: Israele e il sionismo.

Aveva avuto più di mille e duecento visite, ma l’introduzione era molto più lunga e alcune delle considerazioni su questa terribile forma di lotta, anche nella tradizione del movimento operaio, rischiavano di sfuggire. Per questo lo ripropongo oggi.

 

[…] I dirigenti israeliani hanno sempre definito “terrorismo” ogni forma di lotta, anche pacifica, dei palestinesi e hanno cercato una legittimazione, all’interno e all’estero, motivando ogni loro atto con la necessità di arginare e distruggere l’Olp, presentato come il centro mondiale della “sovversione” e del “terrorismo”.[1] Questa tattica si è ovviamente rafforzata nel momento in cui Bush ha proclamato la guerra totale e duratura al “terrorismo” con metodi assurdamente incoerenti: non c’è dubbio, infatti, che bombardare un paese come l’Afghanistan, già disastrato da una guerra di oltre venti anni combattuta sul suo suolo da bande armate appoggiate dall’esterno, non serve a localizzare e neutralizzare eventuali terroristi, e al contrario ne produce altri, assetati di vendetta.[2]

Lo Stato di Israele, naturalmente, non è l’unico ad approfittare della campagna di Bush per regolare i suoi conti con un avversario interno: lo ha fatto la Russia di Putin, per evitare qualsiasi critica alla feroce politica repressiva applicata (senza successi veramente decisivi) nell’indomabile Cecenia; lo ha fatto la Cina, per avere le mani libere nel soffocare le aspirazioni nazionali della forte minoranza uygur del Xinjiang (in prevalenza di religione islamica e quindi bollata come “integralista”); lo ha fatto la Turchia, che può proseguire indisturbata lo sterminio dei militanti curdi (e anche turchi), che proseguono da mesi – ignorati totalmente dai mass media – un disperato sciopero della fame contro il terribile regime carcerario (altro che le pagliacciate di Pannella per Mancuso, amplificate da tutte le televisioni italiane!).

Nel caso di Israele, tuttavia, la pretesa di definire “terrorismo” qualsiasi iniziativa di lotta palestinese appare spudorata, alla luce di quanto abbiamo già accennato sulla politica dei sionisti prima e poi dello Stato israeliano.

Il terrorismo israeliano accompagna tutte le tappe della formazione dello Stato di Israele e del suo consolidamento, rimanendo in ogni periodo un fattore importante della strategia sionista. Accanto alle azioni più propriamente militari, infatti, sono state di puro stampo terroristico quelle che hanno trasformato gran parte della Palestina in quella “terra senza un popolo per un popolo senza terra” di cui parlavano i primi sionisti. È stato il terrorismo a scacciare gran parte dei palestinesi dai loro villaggi nei territori attribuiti a Israele dal progetto di spartizione dell’Onu e anche da quelli su cui Israele non aveva potuto ancora accampare alcuna pretesa e che non avevano alcuna colonizzazione ebraica.

Ad esempio, nel corso delle guerre del 1948-1949, il terrorismo sionista raggiunse per la prima volta anche il Sud del Libano, riuscendo a fare fuggire gli abitanti da alcuni villaggi, che vennero già allora annessi a Israele. Non c’era da fare valere nessun “antecedente storico” risalente a 2.000 anni fa, c’era solo un materialistico interesse per le numerose sorgenti di acqua potabile (da quelle del fiume Litani a quelle del Giordano) di quella zona.[3]

Senza il terrorismo antipalestinese, abbiamo visto, i sionisti sarebbero rimasti presto in minoranza nel territorio conquistato, ben più vasto di quello assegnato loro dal progetto di spartizione dell’Onu (all’interno del quale avrebbero avuto comunque una maggioranza risicatissima). Solo dopo la strage di Deir Yassin e la sua amplificazione propagandistica ( da parte delle radio israeliane, ma anche arabe, ovviamente per fini diversi) fu possibile portare l’esodo palestinese a livelli altissimi (i profughi, che erano appena 60.000 prima di Deir Yassin, passarono in pochi giorni a 350.000, arrivando poi a quasi 900.000).

I dirigenti israeliani sono dunque i meno qualificati a parlare del “terrorismo” altrui anche per altre ragioni, più recenti degli episodi che abbiamo ora ricordato. Essi, infatti, non hanno mai rinunciato al progetto di allontanare ulteriormente i palestinesi rimasti nei Territori occupati, o nei paesi vicini. Per questo ogni episodio di guerra, ogni “rappresaglia” per un attentato, ogni azione comunque motivata .dal governo israeliano, ha sempre avuto come obiettivo importante la distruzione dei campi profughi, delle scuole e degli ospedali palestinesi, di tutte le strutture civili che hanno contribuito a dare, a quelli che erano profughi dispersi e umiliati, piena coscienza nazionale e un elevato livello politico e culturale. Queste distruzioni di case, di villaggi, di ospedali e scuole avvengono a cannonate o con bombardamenti aerei o navali, non più con un bidone di esplosivo in un’auto, come nei primi tempi. Ma per questo non dovrebbero essere definite come una delle forme più gravi di terrorismo?

Il massacro di Sabra e Chatila ha scosso, dopo mesi di indifferenza per quanto accadeva nel Libano, anche la coscienza dell’opinione pubblica europea (e israeliana). Ma la differenza qualitativa tra quella strage a distanza ravvicinata ( affidata non a caso a vecchi complici prezzolati, di cui era impossibile ignorare la criminale ferocia) e le stragi compiute con armi vietate da tutte le convenzioni internazionali sulla popolazione civile palestinese e libanese, sugli ospedali, sulle scuole, è minima.

D’altra parte, da quando i palestinesi hanno trovato nell’Olp una direzione politica diversa dalle vecchie cricche di notabili che tanto avevano contribuito (con i patteggiamenti sottobanco o con le sfuriate oltranziste alla Shuqeiri) alla vittoria sionista, i servizi segreti israeliani non si sono limitati alle azioni terroristiche già ricordate, ma hanno sviluppato una branca speciale, che ha braccato i dirigenti palestinesi nel Libano, in altri paesi arabi ed europei, senza rinunciare ad alcun mezzo: si va dal dirottamento di un aereo di linea, fatto atterrare in Israele nell’agosto 1973 nel tentativo di catturare un capo del Fplp che avrebbe dovuto viaggiare in quel giorno, agli sbarchi di commandos a Beirut, alle vetture esplosive e alle raffiche di mitra per abbattere i dirigenti dell’Olp; la stessa Roma è stata più volte bagnata di sangue palestinese[4].

Troppi elementi, dunque, tolgono ai dirigenti israeliani e ai loro amici europei o statunitensi qualsiasi diritto di pontificare sul “terrorismo” altrui, peggio ancora di denunciare come “terrorista” l’intera Olp che, pure, da anni ha affrontato con serietà e maturità il problema della scelta e della delimitazione delle forme di lotta.

Cerchiamo di ricostruire, sinteticamente, le attività terroristiche che hanno permesso ai sionisti di conquistare il 78% della Palestina.

 

Il terrorismo contro gli inglesi e i palestinesi nella prima fase

In un solo giorno, il 1° marzo 1947, il fuoco aperto dall’Irgun sui soldati britannici provocò venti morti, dodici dei quali in un attacco con bombe a mano nel circolo ufficiali di Tel Aviv. Il 31 marzo, un sabotaggio alla raffineria di Haifa procurò danni ingentissimi (furono necessarie tre settimane per spegnere l’incendio). Il 4 maggio l’Irgun attaccò una prigione britannica ad Acri, con molti morti. Alcuni degli assaltanti furono però catturati e condannati a morte. In risposta:

il 12 luglio l’IZL sequestrò due sergenti britannici, Clifford Martin (ebreo a quanto sembra) e Mervyn Paice, e li impiccò dopo l’esecuzione di tre suoi militanti il 29 luglio. I corpi degli impiccati erano collegati a congegni esplosivi, e nel recuperarli un capitano britannico rimase ferito. “La bestialità nazista non avrebbe saputo far meglio”, commentò il Times di Londra.[5]

Il 30 luglio ci fu una rappresaglia di soldati e poliziotti britannici, che distrussero negozi di ebrei e picchiarono numerosi israeliti del tutto estranei all’Irgun. “In una zona alcuni membri delle forze di sicurezza, perso il controllo dei nervi, mitragliarono a casaccio passanti e negozi uccidendo cinque persone e ferendone dieci”.[6]

Come si vede, il metodo della rappresaglia non era solo proprio della “bestialità nazista” (e comunque ha insegnato molto a tutti, nella regione). Se però, dopo un attacco israeliano che ha ucciso donne e bambini, un palestinese decide oggi di rispondere con un attentato suicida, tutti sono pronti ad attribuire quell’atto alla “inaudita barbarie islamica”. Comunque, subito dopo l’impiccagione dei due sergenti, il 12 agosto il Parlamento britannico in seduta speciale decide di abbandonare la Palestina senza indugi.[7]

Va segnalato che, nella spirale tra attacchi e ritorsioni, emergeva sempre una netta proporzione nell’armamento delle due parti, che si rifletteva nel numero delle vittime. Lo ammette Morris parlando degli attacchi arabi agli insediamenti rurali israeliani:

L’incursione più massiccia ebbe luogo il 9 gennaio 1948, quando più di 300 arabi, in gran parte beduini siriani, attaccarono il kibbutz di frontiera di Kefar Szold, probabilmente per ritorsione a un raid delle Palmah del 18 dicembre contro la vicina Khisas (come descritto più avanti). Il comandante del locale battaglione britannico inviò otto autoblindo a protezione del kibbutz, e gli arabi si ritirarono. La Haganah ebbe un morto e quattro feriti, gli arabi 24 morti e 67 feriti.[8]

L’episodio di Khisas è descritto in questi termini, all’interno di un lungo elenco di atti di terrorismo ebraico, non solo dell’Irgun:

Un violento attacco ebbe luogo il 18 dicembre contro il villaggio di Khisas, in Alta Galilea. Una guardia ebrea aveva sparato a un arabo del villaggio, freddandolo. L’ebreo fu arrestato dai britannici, mentre cecchini di Khisas presero di mira ebrei al lavoro nei campi. Poi gli arabi tesero un’imboscata a un ebreo che guidava un carro agricolo e lo uccisero vicino al kibbutz Ma’ayan Baruch. Quella notte le Palmah attaccarono Khisas e una grande residenza nei pressi (il “Palazzo”), appartenente all’emiro Fa’ur, principale latifondista della zona. A Khisas i palmahnik fecero saltare in aria una casa, uccidendo tre uomini, una donna e quattro bambini; altri quattro uomini rimasero uccisi al “Palazzo”.[9]

Un esempio da manuale di come si trasforma un episodio attribuibile alla tradizione della vendetta familiare in un pretesto per una strage di innocenti: lo stesso Morris riferisce che “alcuni politici” ed “esperti di cose arabe” criticarono l’incursione, sostenendo che aveva esteso il conflitto a un’area fino a quel momento pacifica”.[10]

Ben più gravi gli episodi del terrorismo sionista nelle zone urbane:

A Tel Aviv, a Giaffa, Haifa e Gerusalemme, in dicembre e all’inizio di gennaio del 1948 centinaia di civili arabi furono uccisi o feriti dall’Irgun. Solo a Gerusalemme tra gli arabi ci furono 37 feriti e 80 morti in due attentati, il 13 e il 29 dicembre. Un’altra operazione del genere innescò una delle più gravi dinamiche aggressione-rappresaglia di quel periodo. Il 30 dicembre una squadra dell’IZL lanciò diverse bombe a mano contro una piccola folla in attesa dell’autobus, all’esterno della raffineria di Haifa, uccidendo sei persone e ferendone dozzine. La reazione degli operai arabi fu tanto violenta quanto non premeditata: si gettarono contro i colleghi di lavoro ebrei con martelli, chiavi inglesi, tubi e armi improprie di ogni sorta massacrandone 39 e ferendone 50, prima che i britannici ristabilissero l’ordine.[11]

Di fronte a questa reazione tremenda e irrazionale, ma appunto “non premeditata”, e che aveva colpito anche molti operai ebrei non sionisti o antisionisti, lo Stato maggiore della Haganah decise che “l’uccisione degli operai ebrei andava punita “indipendentemente dalle circostanze”, cioè a prescindere dal fatto che era stata innescata dal feroce attentato dei terroristi dell’IZL, che avevano colpito alla cieca in mezzo a una folla di lavoratori. E la “punizione” fu rivolta a caso, con la logica appunto delle rappresaglie degli eserciti colonialisti o di quelli fascisti:

la notte del 31 dicembre i villaggi suburbani di Balad al-Shaykh e Hawassa, a sudest di Haifa, dove vivevano molti operai della raffineria, furono attaccati da unità delle Palmah e della Haganah [non quindi dagli “estremisti” fascisteggianti dell’Irgun, ma dai “rispettabili” sionisti laburisti!]. A Balad al-Shaykh l’ordine fu di “uccidere il maggior numero di maschi adulti, distruggere gli arredi delle abitazioni, ecc.” , ma di risparmiare donne e bambini. Le squadre setacciarono una casa dopo l’altra, trascinando fuori gli uomini e passandoli per le armi, ma in qualche caso si limitarono a gettare all’interno una granata o a sparare a raffica nelle stanze. Gli abitanti del villaggio ebbero 60 morti, tra i quali anche donne e bambini. A Hawassa 16 uomini furono uccisi e 10 feriti. Anche l’LHI diede il suo contributo alle stragi. Il 4 gennaio 1948 fece saltare in aria un camion pieno di esplosivo davanti al municipio di Giaffa, che ospitava gli uffici locali del Comitato nazionale arabo; l’edificio fu demolito, 26 persone morirono e molte altre furono ferite. L’attentato colpì profondamente il morale della popolazione araba e dei difensori di Giaffa.[12]

Un po’ ipocritamente Morris, molto legato sentimentalmente al filone sionista laburista, osserva che “neppure la Haganah fu del tutto estranea alla campagna terroristica, anche se almeno nelle intenzioni essa sceglieva obiettivi militari anziché civili”. Ma non erano “terroristiche” le incursioni nei due villaggi, la cui “colpa” era solo che in essi “vivevano molti operai della raffineria”? Eppure, pur cercando di uccidere “solo” il maggior numero di maschi possibili, tra i morti ci furono tante donne e soprattutto bambini, sicuramente innocenti.

Ma ecco un’altra descrizione inequivocabile:

La notte del 5 gennaio un’unità della Haganah distrusse parte dell’Hotel Semiramis a Gerusalemme, ritenendo che ospitasse una base d’irregolari arabi. Le vittime civili furono 26. Il 28 febbraio un’autobomba collocata dalle Palmah nell’autorimessa Abu Sham, nel centro della Haifa araba, uccise una trentina di arabi e ne ferì una settantina. L’autorimessa era sospettata di servire alla preparazione di autobombe da impiegare contro gli ebrei [il fatto che fosse “sospettata” giustificava la condanna e la strage!]. La strategia della rappresaglia adottata dalla Haganah contribuì alla diffusione e intensificazione del conflitto. L’organizzazione era scesa in campo con una mentalità già orientata alla rappresaglia: agli attacchi arabi bisognava rispondere con forza ancora maggiore, se possibile prendendo di mira gli autori, altrimenti colpendo un rilevante bersaglio collettivo, il villaggio degli attaccanti, il traffico di una strada adiacente e così via.[13]

 

Due pesi e due misure per giudicare il terrorismo

Quanto abbiamo scritto finora dovrebbe essere sufficiente a chiarire che i dirigenti israeliani e i loro complici statunitensi non possono dare lezioni a nessuno sul terreno della lotta al terrorismo, dato che lo hanno praticato sistematicamente, e per quanto riguarda gli israeliani si sono serviti prevalentemente di esso per creare il loro Stato e scacciare il maggior numero possibile di palestinesi.

Abbiamo già accennato ad alcuni degli attacchi alle truppe britanniche, che spesso coinvolgevano anche i civili, compresi parecchi ebrei. Va ricordato anche l’attentato organizzato dall’Irgun (ma avallato dalla Haganah) il 22 luglio 1946 all’Hotel King David di Gerusalemme, che ospitava nei piani superiori i servizi principali dell’amministrazione civile britannica della Palestina. L’esplosione, realizzata con bidoni carichi di esplosivo introdotti nei sotterranei, distrusse i sette piani dell’edificio in un’ora di punta, durante un giorno di lavoro, uccidendo 91 persone, in prevelenza inglesi e arabi (ma tra i morti vi furono anche 15 ebrei). Nello stesso periodo (non ho trovato la data esatta, perché di questo episodio non si è scritto quasi mai) venne fatta saltare in aria anche l’ambasciata britannica a Roma.[14]

In precedenza, il 6 novembre 1944, quindi ancora in piena guerra, due membri del gruppo Stern avevano ucciso al Cairo il ministro britannico per il Medio Oriente, lord Moyne, amico personale di Churchill, che commentò sdegnato:

Se il sionismo che sognavamo svanirà insieme al fumo di pistole assassine, e i nostri sforzi per assicurargli un futuro produrranno solo un nuovo assortimento di banditi degni della Germania nazista, molti saranno indotti come me a riesaminare un atteggiamento mantenuto finora con grande coerenza.[15]

Tutta la storia dello Stato di Israele (ma, abbiamo visto, anche quella della sua formazione) ha visto il ricorso sistematico dei sionisti alle più diverse forme di terrorismo. Non è possibile chiamare altrimenti i cosiddetti “attacchi mirati” che uccidono – nei Territori o nel Libano, o a Roma – i palestinesi considerati particolarmente pericolosi (quasi sempre non perché “terroristi”, ma per la loro capacità di tentare un dialogo e quindi di spezzare il cieco allineamento della maggioranza degli israeliani dietro gli assassini e gli spergiuri che la governano, e la porteranno nel baratro).

Il martirologio è lunghissimo: dallo scrittore Ghassan Kanafani, ucciso a Beirut nel 1970, a Wail Zwaiter (anch’esso poeta e scrittore, e amico di tantissimi intellettuali ebrei), ucciso a Roma, dove rappresentava l’Olp, nel 1972. Altri tre esponenti palestinesi furono uccisi a Beirut nel 1973 da un commando guidato dal futuro Primo ministro Barak, e poi altri a Tunisi, e ancora a Roma, e poi ancora a Tunisi, a Londra, e in Norvegia… Anche Issam Sartawi, l’uomo che insieme all’ambasciatore dell’Olp a Londra, Hammami (ugualmente assassinato), aveva aperto il dialogo con le tendenze sioniste più ragionevoli (dialogare con i militanti antisionisti israeliani del Matzpen, come faceva il Fdplp, non era difficile), viene ucciso nel 1983.[16] L’assassinio sarebbe stato eseguito da un membro del gruppo di Abu Nidal (gruppo che tutti i dirigenti palestinesi e lo stesso Sartawi, avevano bollato da anni come manipolato o direttamente finanziato dal Mossad); sicché, anche ammesso che la mano fosse davvero palestinese, non c’erano dubbi sul mandante. Un po’ come accadde per Sabra e Chatila: i boia erano libanesi, ma stipendiati, armati, e perfino rifocillati durante la strage dall’esercito israeliano, sotto gli occhi benevoli di Sharon, che seguiva la scena dal suo comando, al quarto piano di un edificio sovrastante il campo.

 

Ma c’è un terrorismo che sfugge al controllo dell’Olp…

I difensori acritici dello Stato di Israele, a partire da Bush e via discendendo fino all’ultimo pennivendolo nostrano, obiettano che tuttavia, nonostante le condanne dell’Olp, periodicamente ci sono nuovi episodi di terrorismo.

Che cosa intendono? Prima di tutto, ribadiamo ancora una volta che è inaccettabile considerare “terrorismo” ogni azione armata contro un occupante privo di legittimità. L’elenco stilato dalla Casa Bianca e avallato (tranne qualche ritocco) dall’Unione europea, definisce “terroriste” perfino le organizzazioni dei kurdi che si oppongono alla ferocia dei militari turchi con lo sciopero della fame! Praticamente ogni atto di resistenza, perfino non violenta, viene condannato e represso. Comunque va affrontata anche, in chiave storica e senza tabù, una discussione su determinate forme di terrorismo che si sono presentate nel corso delle lotte di classe e di liberazione nazionale, non solo in Palestina, che non possono essere amalgamate con azioni come l’attacco alle due torri (non legate a un qualsiasi movimento, e di segno più che dubbio), ma di cui sarebbe sciocco negare la natura e i fini (seminare appunto il terrore tra le file del nemico).[17].

Esistono effettivamente alcune azioni condotte da palestinesi che possono essere definite senza forzature “terroriste”. Ma va detto prima di tutto che c’è un nesso preciso tra la ricomparsa del terrorismo e le frustrazioni dovute alla mancanza di soluzioni almeno parziali. È stato osservato giustamente che, nelle prime fasi della prima e seconda Intifada, non c’erano stati attentati, e le organizzazioni che li teorizzano e li praticano erano sostanzialmente emarginate.

Il terrorismo è tornato quando è apparso che le lotte di massa si protraevano senza uno sbocco, e il bilancio delle vittime palestinesi era spaventosamente più alto rispetto a quello delle vittime israeliane. Il ricorso alla cintura esplosiva è nato dalla sensazione dell’inutilità della resistenza con altri mezzi. Anche durante la prima Intifada, d’altra parte, la prima fase entusiasmante di lotte di massa e di autorganizzazione aveva lasciato poi il posto alla cosiddetta “Intifada dei coltelli”: un coltellaccio strappato da un ragazzo su un banco di macellaio e usato per colpire alla cieca qualunque israeliano si trovasse a portata.

In questi casi Arafat non c’entra molto, se non per il fatto che, con la sua eccessiva accondiscendenza alle pretese israeliane, ha generato sfiducia o addirittura disperazione tra i palestinesi più poveri e diseredati. E Arafat non può fare nulla per fermare le azioni di lotta armata (comprese quelle effettivamente di tipo “terrorista”), non solo quando è rinchiuso in un bunker assediato e bombardato, quando ha visto distruggere gran parte delle strutture dell’Anp, quando è stato umiliato deliberatamente, ma anche e soprattutto quando – per le ignobili pressioni dei “mediatori” statunitensi ed europei – ha fatto ai suoi nemici concessioni che il suo popolo non può condividere.

 

Il caso dell’uccisione del ministro Ze’evi

Un esempio di questo è la questione dei presunti responsabili dell’uccisione del ministro Ze’evi, avvenuta nell’ottobre 2001 al quarto piano di un albergo di Gerusalemme. Gli uccisori, mascherati, erano riusciti a fuggire, e questo aveva suscitato qualche interrogativo sull’efficienza dei servizi di sicurezza israeliani, dato che l’hotel era blindatissimo e controllatissimo in entrata e in uscita. Ze’evi era in rottura totale con il governo Sharon, considerato troppo “morbido” con i palestinesi, e aveva preannunciato le dimissioni per organizzare una nuova formazione di estrema destra. Tuttavia l’attentato (naturalmente festeggiato da tutti i palestinesi, dato che Ze’evi era odiatissimo per le sue posizioni e per suoi atti) era stato rivendicato dal Fdplp, motivandolo come risposta all’assassinio “mirato” del segretario generale di quella organizzazione, effettuato dagli israeliani pochi giorni prima. Non tutti avevano creduto alla rivendicazione dato che, quando un’organizzazione si trova in difficoltà, può essere tentata dal rivendicare un’azione spettacolare che ne fa aumentare il prestigio, anche se non si sa bene chi l’ha compiuta.

Anche Arafat aveva espresso qualche dubbio e alle prime richieste israeliane di “catturare i responsabili” aveva risposto che gli risultava che stessero in zone sotto pieno controllo dell’esercito. Se non era un’insinuazione sul fatto che il mandante poteva essere Sharon, che odiava e temeva Ze’evi, era comunque un rinviare la palla, dicendo agli israeliani che, se non sapevano prendere loro gli attentatori, non si vedeva come potesse fare lui, nelle condizioni in cui si trovava.

Come è noto, la cattura dei presunti responsabili è diventata il pretesto per l’assedio di molte settimane ad Arafat e la rioccupazione violenta anche dei pezzi di Territori precedentemente consegnati all’Anp. Ho detto “presunti”, ma naturalmente per la nostra stampa sono “responsabili” e basta. La presunzione di innocenza vale solo per i poliziotti di Napoli e Genova: quando vengono nominati, si parla sempre di “presunte violenze”, anche se esiste una enorme documentazione fotografica su di queste.[18]

Per compiacere gli israeliani la polizia palestinese ha arrestato il 15 gennaio Ahmad Saadat, di 48 anni, il nuovo segretario generale del Fplp, con l’accusa di essere stato il mandante dell¹omicidio del ministro ultra-sionista, che è stato poi consegnato alla fine di aprile (insieme ai quattro membri del Fplp processati e condannati da un tribunale improvvisato e con un processo-farsa nel Quartier generale assediato di Arafat a Ramallah) a un corpo di polizia statunitense e britannico, che ha trasferito i cinque in una prigione di Gerico. Gli agenti inglesi e statunitensi hanno fatto da garanti per l¹accordo sulla libertà di Arafat, che ha perso così una parte notevole del suo prestigio: agli occhi di molti palestinesi la consegna dei cinque è apparsa un prezzo pagato da Arafat per una sua (peraltro ridottissima) libertà.[19] E ci si può anche domandare in base a quale diritto Stati Uniti e Gran Bretagna facciano i “superpoliziotti”, in qualsiasi parte del mondo.

Uno scandalo ancora maggiore è stato provocato dall’atteggiamento di Arafat sul caso della nave intercettata da Israele e accusata di portare armi all’Anp. Dapprima ha negato quello che poteva rivendicare come un atto del tutto legittimo: perché Israele può essere armatissima e i palestinesi, a cui pure si dovrebbe concedere un simulacro di Stato, no? Poi ha accettato di trattare sul processo al responsabile. Intanto, mentre si incrina sempre più il prestigio di Arafat, emerge un gruppo di faccendieri palestinesi, che hanno fatto e fanno affari con gli israeliani e che Arafat ha lasciato fare mentre reprimeva o almeno non sosteneva chi combatteva.

Hafez Barghuti, direttore dell’importante giornale palestinese Hayat Al-Jadida, ha chiesto:

Dov’erano quelle migliaia di uomini [dei servizi di sicurezza] che costano così tanto ai palestinesi [un terzo del bilancio dell’Anp], perché non hanno difeso con tutte le loro forze il presidente Arafat quando gli israeliani attaccavano il suo ufficio?[20]

Si sono dileguati nelle prime ore dell’offensiva israeliana, è la risposta amara. Ecco perché l’Anp non controlla più nulla e possono moltiplicarsi atti di lotta armata caotici e non sempre meditati: tra cui, ovviamente, gli attentati suicidi.

I pennivendoli che immaginano chissà quale indottrinamento islamico per chi è pronto a morire per rendere insicuri gli apparenti vincitori e favoleggiano delle “settanta vergini promesse dal Corano” ai martiri, sorvolano sul fatto che tra coloro che si sono immolati c’erano ragazze, anche giovanissime, e c’erano cristiani. Possibile che non capiscano che anche chi lottava contro l’occupazione nazista aveva la quasi certezza della morte, e ne ha lasciato traccia in bellissime lettere? E Guevara? Ogni combattente di una causa che vede una grande sproporzione tra le forze degli oppressori e quelle dei pochi oppressi che osano lottare, ha la quasi certezza della morte, ma non la teme. E perché i palestinesi che si mettono una cintura di esplosivo intorno alla vita per portare con sé il maggior numero dei loro nemici dovrebbero essere allettati dalle uri che li attenderebbero in paradiso, o peggio ancora invogliati da un premio in denaro, invece di avere preso a modello un celebre abitante di quelle terre, l’ebreo Sansone, che catturato dai Filistei ne portò con sé, secondo la Bibbia, molte migliaia facendo crollare il palazzo in cui era stato incatenato?[21]

 

Una riflessione necessaria sulla legittimità della lotta armata

Una riflessione sulla lotta armata dei palestinesi si rende comunque necessaria e richiede alcune precisazioni. Infatti, negli anni Settanta e Ottanta, la logica astratta e assurda dei terroristi nostrani (senza virgolette…) ha provocato nell’opinione pubblica democratica e nella sinistra una reazione che rende molto più difficile la comprensione delle forme di lotta a cui, in casi estremi, può essere costretto a ricorrere un movimento di liberazione.

Alcune “anime pie” non rinunciano a fare, in ogni occasione, la predica all’Olp, spiegandole che dovrebbe “maturare” e abbandonare la lotta armata come mezzo per ottenere la restituzione di almeno una parte dei Territori occupati. Alla lotta armata viene contrapposta la lotta politica e diplomatica, a cui da oltre due decenni l’Olp ha dedicato la massima e quasi esclusiva attenzione (senza ottenere risultati significativi), ma che sarebbe assurdo concepire come unica soluzione al problema palestinese. Nessuna lotta di liberazione ha potuto rinunciare a una combinazione di proposte politiche e di lotta armata.

La contrapposizione è assurda: nessuna lotta armata ha mai potuto concludersi senza una fase di negoziati e di compromessi politici, ma nessuna proposta di soluzione politica si è mai potuta affermare contro un occupante armatissimo senza avergli prima inflitto colpi che lo convincessero dell’impossibilità di una soluzione basata sulla pura repressione e sulla negazione dei diritti del popolo oppresso. Il caso del Sudafrica è esemplare.

Quanto alle forme di lotta, esse sono solo in parte frutto di libera scelta e sono, in genere, imposte dalle condizioni in cui la lotta comincia. Basti ricordare che la lotta partigiana contro il nazismo, in Europa, ha usato spesso, soprattutto nelle fasi iniziali, attentati individuali (dagli attacchi a esponenti nazisti a quelli contro semplici soldati, come nel caso di via Rasella). La rivoluzione indocinese è passata per una fase iniziale di attentati contro collaborazionisti e membri dell’amministrazione francese prima, contro gli esponenti del regime pro imperialista dopo.

La rivoluzione algerina, sostenendo la quale si è formata un’intera generazione di militanti internazionalisti europei, spesso di origine ebraica, non ha potuto fare a meno di passare per una fase di azioni individuali, che ha preceduto la formazione di un vero e proprio esercito di liberazione con basi nelle zone liberate e soprattutto nei paesi adiacenti.

A chi rimproverava gli algerini perché usavano sporte della spesa piene di esplosivo, depositate da belle ragazze in minigonna nei bar frequentati dai francesi, un dirigente del Fln rispose di essere pronto a uno scambio: dateci autoblindo, carri armati, aerei ed elicotteri, e noi vi daremo le nostre borse esplosive.

 

Scheda
ISRAELE E L’ALGERIA

Parlando di Algeria, può essere utile ricordare che il governo di Israele e i dirigenti sionisti (dimostrando ancora una volta di essere un po’ atipici come esponenti di un “movimento di liberazione nazionale”…) sostennero apertamente il governo francese.

Nonostante i gesti di buona volontà del Fln algerino, che si astenne a lungo dal prendere posizione nel conflitto palestinese, temendo di mettersi contro gli ebrei di Algeria, che in parte lo sostenevano e che comunque voleva conquistare alla lotta di liberazione, o almeno avere neutrali, il governo israeliano si schierò apertamente con i colonialisti. I suoi servizi segreti collaborarono strettamente con quelli francesi nella lotta contro la rivoluzione algerina. Ben Gurion suggerì a De Gaulle, nel giugno 1960, una spartizione modellata su quella palestinese.

Secondo una testimonianza di Alain Peyrefitte, Ben Gurion avrebbe allora affermato che “essendo il caso dell’Algeria per molti aspetti simile a quello della Palestina, cioè un conflitto razziale, conviene applicare ad esso metodi similari. La creazione, in Algeria, di uno Stato simile a quello di Israele, sarebbe quindi capace di darle un’unità razziale”.

In pratica, si trattava di concentrare tutti gli europei nella fascia costiera più sviluppata, escludendone i musulmani, che avrebbero avuto a loro disposizione uno “Stato” nei territori desertici o semidesertici dell’interno e del Sud. Successivamente gli israeliani hanno finanziato direttamente una guerriglia Kabyla contro Ben Bella, organizzata da un pubblicista algerino, Razak Abdel Kader, che ha continuato a lungo a pubblicare scritti antiarabi (e filomaoisti!) in varie riviste sioniste reazionarie (cfr. Nathan Weinstock, Storia del sionismo, Samonà e Savelli, Roma, 1970, vol. I, p. 156).

Un altro dato rivelatore dell’atteggiamento israeliano ostile alla rivoluzione algerina (che pure non poteva minacciare direttamente in nessun modo la “sicurezza di Israele”) è fornito dalle ricorrenti campagne della stampa sionista contro il film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri.

I palestinesi dunque, sulla base delle esperienze storiche di tutte le lotte di liberazione, non possono rinunciare al ricorso alla lotta armata anche (e anzi, paradossalmente, soprattutto) mentre concentrano i loro sforzi nella ricerca di una soluzione politica praticabile, che salvaguardi i loro diritti e al tempo stesso quelli (acquisiti con la violenza e l’appoggio dell’imperialismo, ma pur sempre di fatto acquisiti) della nazionalità ebraica che si è venuta forgiando in Israele a partire da nuclei di ebrei provenienti da paesi e civiltà diverse e che in origine era assai discutibile definire una nazione o un popolo[22].

 

La discussione sulle forme di lotta nei classici del marxismo

Altra questione, naturalmente, è quella delle forme che questa lotta armata deve o può assumere. Ma è questione politica, non di principio. Almeno così era per i classici del marxismo (a partire dallo stesso Marx, che non esitava a prendere posizione a favore della causa irlandese, pur non esente dal ricorso a forme di terrorismo, o da Engels che denunciava l’ipocrisia di chi gridava allo scandalo per “la crudeltà dei cinesi” durante la guerra dell’oppio del 1857)[23].

Ancor più chiaramente la questione era stata delineata da Lenin, negli scritti con cui sistematizzava e tentava un primo bilancio dell’esperienza della rivoluzione del 1905 (seguita da una lunga fase di “lotte partigiane”).

 

Scheda

LENIN E LA “GUERRA PARTIGIANA”

Gli scritti di Lenin del 1906 meriterebbero una rilettura nella loro globalità, che rivela una grande evoluzione del suo pensiero di fronte alla ricchezza dell’esperienza della prima Rivoluzione russa. Tuttavia, segnaliamo alcuni passi, di grande valore metodologico, per consentire comunque di avere un’idea di questa specifica riflessione teorica poco conosciuta.

In particolare nello scritto su La guerra partigiana, del settembre 1906, il dirigente bolscevico scriveva:

A quali fondamentali esigenze deve attenersi ogni marxista nell’esaminare il problema delle forme di lotta? Innanzitutto, il marxismo si distingue da tutte le forme primitive di socialismo perché non lega il movimento a una qualsiasi forma di lotta determinata. Esso ne ammette le più diverse forme, e non le ‘inventa’, ma si limita a generalizzarle e a organizzarle, e introduce la consapevolezza in quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie che nascono spontaneamente nel corso del movimento. Irriducibilmente ostile a ogni formula astratta, a ogni ricetta dottrinaria, il marxismo esige un attento esame della lotta di massa in atto, che, con lo sviluppo del movimento, con l’elevarsi della coscienza delle masse, con l’inasprirsi delle crisi economiche e politiche, suscita sempre nuovi e più svariati metodi di difesa e di attacco. Non rinuncia quindi assolutamente a nessuna forma di lotta e non si limita in nessun caso a quelle possibili ed esistenti solo in un determinato momento, riconoscendo che inevitabilmente, in seguito al modificarsi di una determinata congiuntura sociale, ne sorgono delle nuove, ancora ignote agli uomini politici di un dato periodo. Sotto questo aspetto il marxismo impara, per così dire, dall’esperienza pratica delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino. (V .1. Lenin, Opere complete, voI. XI, Editori Riuniti, Roma, 1962, pp. 194-195).

Dopo questa, utile ancor aoggi contro il dogmatismo dei teorizzatori della violenza (o della non violenza) come “principio”, Lenin aggiungeva un’altra considerazione metodologica:

In secondo luogo, il marxismo esige categoricamente un esame storico del problema delle forme di lotta. Porre questo problema al di fuori della situazione storica concreta, significa non capire l’abbiccì del materialismo dialettico. In momenti diversi dell’evoluzione economica, a seconda delle diverse condizioni politiche, culturali-nazionali, sociali, ecc., differenti sono le forme di lotta che si pongono in primo piano divenendo fondamentali, e in relazione a ciò si modificano, a loro volta, anche le forme di i lotta secondarie, marginali. Tentare di dare una risposta affermativa o negativa alla richiesta di indicare l’idoneità di un certo mezzo di lotta senza esaminare nei particolari la situazione concreta di un determinato movimento, in una data fase del suo sviluppo, significa abbandonare completamente il terreno del marxismo (ivi, p. 195).

Naturalmente, Lenin non scriveva solo per definire criteri generali. Così, dopo una serie di esempi tratti dalla pubblicistica socialista russa ed europea, descriveva precisamente le nuove manifestazioni apparse in Russia, nel corso della Rivoluzione e subito dopo, e aggiungeva:

Il fenomeno che ci interessa è la lotta armata. Conducono questa lotta singoli individui e singoli gruppi. Una parte di loro appartiene a organizzazioni rivoluzionarie, un’altra parte (e in alcune località della Russia la maggior parte) non appartiene a nessuna di esse. La lotta armata persegue diversi obiettivi, che è necessario distinguere nettamente l’uno dall’altro: innanzitutto, essa mira a uccidere singole persone, ufficiali e subalterni dell’esercito e della polizia; in secondo luogo, si propone di confiscare somme di denaro appartenenti sia al governo sia ai privati. (ivi, p. 197).

Più in là, in una nota, Lenin precisava i criteri adottati per distinguere e valutare le varie azioni spontanee:

Le ‘espropriazioni’ di beni privati sono assolutamente escluse; le ‘espropriazioni’ di beni pubblici non vengono consigliate, ma solo ammesse, a condizione che il partito le controlli e i fondi vengano destinati ai bisogni dell’insurrezione. Le azioni partigiane di tipo terroristico sono state consigliate se condotte contro gli sgherri del governo e i Centoneri attivi [i Centoneri erano un’organizzazione estremista di destra, che si potrebbe definire oggi ‘fascista’ – n.d.a.], purché si osservino le seguenti condizioni: 1) tenere conto dello stato d’animo delle larghe masse; 2) tenere presente la situazione del movimento operaio in quella determinata località; 3) preoccuparsi di evitare un inutile spreco di forze del proletariato. (ivi, p. 202).

Come si vede, il modo di affrontare le forme di lotta armata – compresa quella individuale o di piccoli gruppi, condotta attraverso agguati e tradizionalmente chiamata “terrorismo” – era estremamente pragmatico e concreto. A chi obiettava, poi, che tali azioni disorganizzavano il lavoro dei rivoluzionari, Lenin rispondeva nettamente:

Chi disorganizza di più il movimento in questo periodo: la non resistenza o la lotta partigiana organizzata? Non le azioni partigiane disorganizzano il movimento, ma la debolezza del partito, che non sa prendere nelle sue mani la direzione di queste azioni. Ecco perché agli anatemi che noi russi siamo soliti lanciare contro le azioni partigiane si uniscono azioni partigiane segrete, occasionali, non organizzate, che effettivamente disorganizzano il partito. Non potendo capire le condizioni storiche che suscitano questa lotta, non possiamo neppure neutralizzarne i lati negativi. Nondimeno questa lotta continua. La suscitano potenti cause economiche e politiche. E noi non siamo in grado di eliminarle e quindi di eliminare questa lotta. Le nostre recriminazioni contro la lotta partigiana non sono altro che recriminazioni contro la debolezza del nostro partito. (ivi, pp. 199-200). .

Lenin partiva, dunque, da un’analisi concreta di un movimento spontaneo, che rivelava una spinta reale alla lotta in un momento di temporanea debolezza dopo una parziale sconfitta. Non a caso, nel 1920, ritornerà sull’argomento in positivo, spiegando che la debolezza dell’estremismo in Russia in quella fase era legata alla maturità e alla capacità del partito di raccogliere e indirizzare la volontà di lotta di settori importanti delle masse, mentre al contrario esso era molto forte nei paesi europei, in cui nel movimento operaio prevalevano direzioni opportuniste.

È sintomatico che tali scritti non abbiano potuto essere stati utilizzati dai terroristi nostrani, mossi da una visione astrattamente ideologica e del tutto incapaci di concepire quell’analisi concreta delle condizioni oggettive da cui partiva Lenin per determinare la liceità o meno di una determinata forma di lotta in una data fase.

 

Ricordiamo queste posizioni, oggi praticamente ignorate o volutamente dimenticate, non certo per fare una predica o una lezione dogmatica ai dirigenti palestinesi, ma per ricondurre a una valutazione storica equilibrata le tante “anime pie” che ritengono di potere giustificare ogni sopruso dello Stato di Israele con il pretesto del “terrorismo” palestinese.

Oltre a tutto, c’è bisogno di una buona dose di ipocrisia per dimenticare quello che abbiamo già altrove ricordato: i dirigenti dell’Olp hanno proceduto per conto loro, sulla base della loro diretta esperienza politica, alla condanna severa (e operativa) del terrorismo indiscriminato, anche quando partiva da una reazione emotiva disperata di fronte al consolidarsi dell’occupazione israeliana e alle complicità dei regimi arabi moderati ( o sedicenti progressisti), impegnati a colpire i militanti palestinesi con zelo ed efficacia non minori di quelli dello Tsahal (l’ esercito israeliano).

A volte l’Olp ha condannato fin troppo duramente chi lottava, come abbiamo visto nel caso dell’attentato al ministro Ze’evi, che appariva alla maggior parte dei palestinesi una risposta proporzionata all’uccisione del leader del Fplp, e che comunque corrispondeva a quanto praticato largamente dai sionisti contro esponenti britannici o mediatori dell’Onu.

Invece, i dirigenti dell’Olp hanno giustamente condannato senza mezzi termini tutte le azioni rivolte contro europei o americani di ascendenza ebraica, non per ragioni “tattiche” od “opportunistiche”, ma per la comprensione che tali attentati, oltre a essere ignobili, rappresentano un contributo prezioso per la propaganda sionista, che tenta con tutti i mezzi di aumentare l’insicurezza degli “ebrei della Diaspora” (per convincerli a recarsi in Israele o, comunque, a identificarsi con esso fino a giustificarne la politica). Non a caso, gli autori dei vergognosi attacchi alle sinagoghe o ai ristoranti ebraici che sono stati scoperti sono risultati essere gli stessi che hanno dichiarato guerra ai dirigenti dell’Olp e che sono riusciti a colpirne alcuni (tra i quali, in primo luogo, quelli che, come Issam Sartawi, si erano battuti con maggiore impegno e lucidità per gettare le basi del futuro Stato democratico e laico), oppure direttamente esponenti di squallidi gruppi neonazisti europei o statunitensi.

Da questo punto di vista, dunque, l’Olp ha le carte in regola da tempo. Le sue responsabilità sono ben altre (lo vedremo) e di segno opposto a quelle che gli vengono rimproverate.

In primo luogo, quando è stata riconosciuta “unica rappresentante del popolo palestinese”, al momento del “processo di Oslo”, l’Olp di fatto non lo era più. Erano aumentate sempre più le forze fuori controllo, a partire da quell’integralismo islamico di cui gli israeliani (apprendisti stregoni!) avevano favorito per anni il radicamento a Gaza proprio per contrastare un Olp, troppo laica e unitaria. Ma sono stati in tanti a continuare la lotta, anche quando la direzione dell’Olp – sotto pressione internazionale – proclamava tregue senza contropartita. Un dato sintomatico è che con le organizzazioni “integraliste” hanno stabilito accordi di collaborazione proprio le due organizzazioni di tendenza marxista, Fplp e Fdplp, entrambe fondate e dirette, tra l’altro, da palestinesi di religione cristiana come Habbah e Hawatmeh: evidentemente, la base dell’intesa non era la religione, ma la volontà di lottare senza farsi paralizzare dall’immobilismo dell’Olp.

Diciotto anni fa, in un libro oggi esaurito (e da cui sono tratti alcuni dei documenti qui riprodotti)[24] potevo avanzare questa previsione:

Oggi tuttavia, non è escluso che ci si trovi di fronte a una recrudescenza di azioni armate, nello Stato di Israele e nei Territori occupati, che possano anche colpire nuovamente civili innocenti. Ma si tratta di un fenomeno che è ben difficile addebitare ai dirigenti dell’Olp, Al contrario, è proprio l’indebolimento militare e politico dell’Olp dopo la sua uscita dal Libano che può dare spazio ad azioni disperate, non meditate, le quali possono nascere dalla volontà di “far qualcosa”, a qualunque costo, da parte di giovani palestinesi spesso non organizzati e non inseriti in un preciso progetto politico. L’età dei protagonisti degli ultimi episodi (che hanno pagato con la vita in base alla logica spietata delle “rappresaglie” israeliane, anche quando avevano dimostrato di tenere conto dei civili, com’è accaduto ai diciottenni che avevano dirottato un autobus per ottenere la liberazione dei prigionieri politici),[25] rivela che di fronte al momentaneo indebolimento organizzativo della resistenza palestinese emerge una nuova leva di combattenti, con tutto il coraggio e la dedizione, ma anche l’inesperienza delle nuove leve[… ].

Era una previsione formulata nel periodo più difficile e duro per la causa palestinese. E si è avverata. Poi l’Intifada aveva fatto sorgere una speranza, e fatto capire a Itzhak Rabin, lo stesso uomo che aveva creduto inizialmente di potere fermare i ragazzi che lanciavano pietre spezzando loro le dita delle mani, che la repressione indiscriminata portava in un vicolo cieco e che, quindi, bisognava rassegnarsi a “trattare con il nemico”. In quella prima fase dell’Intifada, la grande capacità di autorganizzazione democratica e la speranza di una svolta avevano ridotto gli spazi per le azioni individuali di lotta armata e, a maggior ragione, per il terrorismo vero e proprio. Dopo l’assassinio di Rabin, con il protrarsi truffaldino delle trattative senza che si affrontassero le questioni decisive di Gerusalemme e del ritorno dei profughi, mentre si delineava una svolta a destra ancora più netta della politica israeliana e l’Olp era alle corde, paralizzata dalle sue contraddizioni e screditata dalla corruzione di molti dei suoi esponenti, la situazione è di nuovo mutata: il ricorso alla lotta armata si è fatto più frequente, anche con modalità tremende, che colpivano deliberatamente civili.

E allora ? Dobbiamo dimenticare il rapporto di causa ed effetto tra l’oppressione sempre più ingiusta e feroce e una risposta che ricalca i gesti degli occupanti assumendone l’inumanità? Dobbiamo smettere di sostenere la causa palestinese, solo perché è scomodo farlo quando le azioni sono dettate dalla disperazione? Per scongiurare le spietate ritorsioni israeliane (e il rischio che esse inneschino un nuovo conflitto di più ampie proporzioni), dovremmo forse condannare quei giovani votati al sacrificio, o almeno raccomandare a quelli come loro la prudenza, la moderazione, o magari la rinuncia alla lotta? Non è questo il nostro compito (anche se, come sostenitori convinti della causa palestinese, non rinunceremo a discutere, senza paternalismi “eurocentrici”, quali siano le forme di lotta più efficaci per raggiungere lo scopo).

E lo stanno facendo non pochi palestinesi, che ci danno una straordinaria lezione morale, interrogandosi su come la lotta stia stravolgendo le stesse coscienze degli oppressi. Riportiamo per questo, come testimonianza, un angosciato articolo di Ali Rashid apparso su “il manifesto”.

 

PALESTINA: IL BUIO INFINITO

di Ali Rashid (Primo segretario della Delegazione generale palestinese in Italia)

In un’intervista alla madre di un giovanissimo kamikaze palestinese trasmessa dal programma “Sciuscià”, al quale ho partecipato come invitato, ho rivisto un concentrato del dramma del mio popolo. La donna che abita in un campo di rifugiati nel Nord della Cisgiordania dal 1948, anno in cui fu espulsa dalla propria casa e dalla propria terra, ci raccontava della sua speranza di vivere una vita normale, una speranza continuamente rinviata fino alla firma dell’Accordo di Oslo e dell’inizio del processo di pace, da lei visto come l’occasione perché la sua speranza diventi realtà e perché finalmente il suo figlio più piccolo che allora aveva dieci anni possa fare una vita normale e sperare in un futuro migliore; ma gli accordi non vengono rispettati da Israele, la repressione aumenta e le condizioni di vita peggiorano.

Sono stati derisi tutti i simboli che dovevano rassicurare i più giovani per un’esistenza normale vista attraverso la Tv o appena varcate le linee invisibili che separano tra l’occupato e l’occupante, tra l’opulenza e la miseria dovuta alla durezza e alla sistematicità implacabile dell’occupante spietato ed avido. L’Autorità nazionale palestinese é colpita mortalmente nella sua autorevolezza, perché non è stata in grado di difendere i suoi cittadini dalle angherie quotidiane e da alcuni episodi inammissibili di corruzione.

La scuola non è in grado di svolgere il suo ruolo per mancanza di fondi, gli insegnanti sono costretti a svolgere i lavori più umili per arrotondare lo stipendio; fino ad arrivare alla caduta della barriera più intima, dove il padre picchiato e umiliato, respinto quotidianamente ai posti di blocco israeliani, perde la naturale autorevolezza non essendo in grado di sfamare la propria famiglia.

Suo figlio, insieme ad altri ragazzi della sua generazione, scende nelle strade tirando pietre contro i carri armati non per uccidere ma per poter vivere normalmente, per restituire al padre debole ed umiliato l’onore perduto, per ridare all’autorità nazionale la sua autorevolezza, per far parlare di una ferita aperta da troppo tempo che tutti fanno finta di non vedere.

Tutto il quadro ormai è rovesciato, il piccolo difende e nello stesso tempo disprezza e si ribella al più grande, il bambino perde la sua infanzia per diventare eroe, l’autorità si nasconde dietro la disperazione di un ragazzino, i mezzi d’informazione nel mondo dei grandi capi, piccoli e impotenti, inneggiano alle imprese mitiche dei più piccoli.

In questo infinito buio l’innocenza viene violata e violentata in nome di Dio da cialtroni senza scrupoli, che non mandano al paradiso promesso i propri figli, ma i figli dei più poveri, ragazzi generosi ed indifesi che insensibilità, indifferenza e sordità hanno trasformato in assassini .

La madre del ragazzo kamikaze ha chiesto sincere scuse a tutte le madri israeliane per il dolore causato dal corpo del suo figlio dilaniato dall’esplosivo e ha promesso di dedicare il resto della sua vita per smascherare e punire il mandante.

Nei giorni scorsi è arrivato un angosciante messaggio, trasmesso via etere, che prometteva libertà a chi vede calpestati tutti i propri diritti e vendetta per tutti coloro a cui furono rapiti oltre ai sacrosanti diritti anche l’infanzia, il presente e il futuro da un altro cialtrone o psicopatico, ex mercenario deciso di lavorare in proprio. Bin Laden parla a nome di un Dio cattivo, di parte, somigliante a quello che si incrocia spesso nell’Antico testamento e fu non poche volte esaltato quando le religioni smarrirono il senso e vennero piegate alla ragione del potere e della conquista. Si è autoproclamato nuovo califfo dell’Islam e dei musulmani, usando lo stesso linguaggio e gli stessi simboli, usati spesso contro i palestinesi dal rabbino Yusef, “capo del partito Shas”, terzo partito in Israele ed alleato di governo del criminale Primo ministro Sharon.

Tale messaggio arriva contemporaneamente ai bombardamenti e missili americani che cadono sull’Afghanistan.

Squarciando il silenzio, il buio della notte e la paura di morire, il messaggio si compie ricordando i missili che continuano ancora a cadere sulla popolazione civile in Iraq ed in Palestina in nome di rappresaglie o vendette o per mostrare un superiorità militare come alternativa al diritto e alla legalità.

E di nuovo è l’infinito buio.

Vedendo l’immagine dei ragazzi palestinesi che portavano il ritratto di Bin Laden ho visto l’immensa trasfigurazione che ha subito la nostra società negli ultimi anni, insieme ai nostri limiti e ritardi come Autorità nazionale palestinese, e mi sono chiesto se noi avessimo veramente svolto al meglio il nostro ruolo.

Ho visto il torto fatto a quella che fu la Palestina delle decine di etnie, religioni e chiese per l’effetto dell’integralismo ebraico e di uno Stato per una sola religione; oggi dalla sua contaminazione non è risparmiata nessuna comunità.

Ma vedendo i nostri ragazzi cadere morti e feriti sotto il fuoco delle forze dell’ordine palestinesi ho provato un’infinita tristezza e ho potuto vedere la profondità della sconfitta della mia generazione e l’inadeguatezza delle strutture rappresentative e di governo che ci siamo dati.

La situazione d’emergenza non può rassicurarci come se fosse l’unica causa dei nostri limiti, perché nell’emergenza abbiamo trascorso tutta la nostra storia recente, ma l’integralismo e la repressione sanguinaria fino ai tempi recentissimi non ci appartenevano, e forse dobbiamo interrogarci profondamente se questi non fossero il sintomo anche di mancanza di democrazia e di vera partecipazione.

 

[1] Molti giornalisti e uomini politici si sono prestati, anche nel nostro paese, ad avallare questa tesi, insinuando perfino che le Brigate Rosse nostrane sarebbero state armate e finanziate dall’Olp (mentre l’unico dato certo emerso dai brigatisti pentiti è stato che avevano ricevuto un’offerta di collaborazione da parte del Mossad).

[2] Mentre concludevamo questo scritto, è esplosa negli Stati Uniti una violenta polemica sulle reticenze di Bush sulle informazioni ricevute da mesi e anche pochi giorni prima dell’attacco alle Due Torri. È emerso in particolare che i piani per l’invasione dell’Afghanistan erano già stati approntati prima dell’attentato, e questo ha fatto riaffiorare il sospetto, già avanzato subito dopo l’11 settembre, che l’azione terroristica non sia stata prevenuta per poterla utilizzare come pretesto per l’inizio della guerra infinita. Molti commentatori avevano fatto inizialmente riferimento a Pearl Harbour, ma ogni riferimento a quell’episodio è sparito quando qualcuno ha ricordato che gli Stati Uniti non potevano ignorare l’attacco in preparazione, dato che erano in grado di decifrare i messaggi in codice dell’aviazione giapponese. La mancata messa in allarme della base statunitense sarebbe servita al presidente Roosevelt a vincere le forti resistenze dell’opinione pubblica ostile all’entrata in guerra scatenando un’ondata di indignazione e di desiderio di vendetta.

[3] Sui progetti di conquista del sud del Libano rinviamo, già ventilata in scritti riservati di esponenti sionisti negli anni Venti, si veda Antonio Moscato, Libano e dintorni, integralismo islamico ed altri integralismi, Sapere 2000, Roma, 1993.

[4] Tra i dirigenti palestinesi uccisi a Roma, ricordiamo il responsabile dell’informazione dell’Olp, Abu Sharar (9 ottobre 1981) e, soprattutto, Wael Zwaiter (17 ottobre 1972), un intellettuale e militante che ha lasciato una traccia profonda in tutti coloro che l’hanno conosciuto e che è stato ricordato in un bel libro: AA. VV. Per un palestinese. Dedica a più voci a Wael Zuaiter, a cura di Janet Venn-Brown, Mazzotta, Milano, 1979, ora fuori catalogo, ma reperibile presso la Fondazione Internazionale Lelio Basso, via Dogana Vecchia 5, Roma. Un altro tipo di imprese terroristiche sioniste nello stesso Stato di Israele è venuto alla ribalta nel 1977, con l’arresto di un gruppo di estremisti che avevano già messo a segno vari attentati contro palestinesi e contro il movimento della pace israeliano e che stavano preparando un salto qualitativo, con attentati simultanei a molti autobus di linea palestinesi nei territori occupati (e, probabilmente, anche attentati contro personalità governative israeliane ritenute troppo “morbide”, determinando così l’intervento delle autorità nei loro confronti). Dell’episodio ha parlato largamente la grande stampa, anche italiana, mettendo però in sordina il dato, rivelatore di vecchie complicità, che sono stati tenuti nascosti i nomi di molti terroristi arrestati, tra i quali ci sarebbero ufficiali in servizio ed “eroi nazionali”, secondo indiscrezioni di giornalisti democratici israeliani. Sull’atteggiamento fazioso di gran parte della stampa italiana, si veda il libro-inchiesta sugli articoli sul terrorismo dei dieci maggiori quotidiani italiani curato da Laura Guazzone per la Fondazione Internazionale Lelio Basso, Fabbricanti di terrore, Sapere 2000, Roma, 1986. Il libro esaminava quanto scritto nel mese di ottobre 1985, e scopriva su giornali ben diversi (la Repubblica, Avanti!” e il popolo) articoli praticamente identici e basati su “veline” depistanti.

[5] Vittime, cit., pp. 232.

[6] Ivi, pp. 232-233.

[7] Ivi, p. 233.

[8] Ivi, p. 253.

[9] Ivi, p. 254.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 253.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, pp. 253-254.

[14] Ne ho un ricordo personale, anche se ero appena un ragazzo, perché fui svegliato nella notte da un boato tremendo; nei giorni successivi fui portato da mio padre in via XX Settembre (a poco più di un chilometro da casa mia) a vedere l’immenso cratere che aveva preso il posto dell’edificio (l’ambasciata è stata ricostruita molto più tardi sullo stesso luogo).

[15] Vittime, cit., p. 219.

[16] Issam Sartawi era nato ad Acco, in Palestina, nel 1934. Esiliato dal 1948, si laureò in medicina negli Usa, divenendo un noto cardiochirurgo. Già legato al Movimento nazionalista arabo (all’interno del quale militavano Habbash, Hawatmeh, Mohsen Ibrahim, Basil al-Kubeissi e altri futuri dirigenti palestinesi e libanesi), nel 1967 abbandona una carriera sicura per divenire l’animatore di un piccolo gruppo combattente, che si fonderà successivamente con al-Fatah. Convinto fra i primi della necessità di costruire uno Stato democratico e laico in cui anche gli ebrei abbiano il loro posto, comincia a occuparsi delle cause dell’emigrazione degli ebrei orientali in Israele, scoprendo presto che essi sono stati spesso sospinti da azioni congiunte del terrorismo israeliano e dei regimi arabi reazionari ad abbandonare le loro case. Tenterà, con modesti successi, di organizzare una controemigrazione ebraica verso il Marocco. A partire dal 1974. comincia una serie di incontri con alcuni israeliani come Maxime Ghilan o Uri Avneri, che rifiutano di definirsi antisionisti, ma riconoscono la necessità di uno Stato palestinese e accettano di discutere con l’Olp. Anche grazie a questi contatti, diventa uno dei principali esperti di relazioni israeliano-palestinesi dell’Olp . Minacciato più volte dal gruppo di Abu Nidal, (e denunciato anche come “terrorista” pericoloso dai dirigenti israeliani), verrà ucciso durante il Congresso dell’Internazionale Socialista ad Albufeira, in Portogallo (il 10 aprile ), dove si era recato come osservatore dell’Olp, ma non aveva potuto prendere la parola, per l’ostinata opposizione del Partito laburista israeliano, in particolare del suo leader, Shimon Peres. Al suo posto, Arafat nomina immediatamente Ilan Halevy, di ascendenza ebraica e in passato cittadino israeliano, per sottolineare la volontà di proseguire il dialogo con tutte le componenti democratiche di Israele.

[17] Non è questa la sede per discuterne, ma comunque va fatto. Bisogna impedire l’amalgama, impedire che questi misteriosi “Rambo clonati”, guidati da un miliardario che è stato a lungo al soldo degli Stati Uniti, possano assumersi la rappresentanza delle lotte di liberazione dei popoli.

[18] Naturalmente è legittima la presunzione di innocenza per i singoli accusati, fino a quando non venga provata la loro partecipazione diretta alle violenze, ma è scandaloso il tono da “velina” del Minculpop con cui tutte le teevisioni e tutti i giornali (di governo o del centrosinistra) parlano delle “presunte violenze”, come se fosse in dubbio la loro esistenza.

[19] Agli occhi del Fplp, questo scambio “getta le basi per portare in tribunale l’intera Intifada”, dato che secondo i criteri del regime di Tel Aviv l’Intifada sarebbe una “sollevazione terrorista”. E l’organizzazione palestinese prosegue: “Questa nuova concessione da parte dell’Anp stimolerà gli appetiti dei nemici del nostro popolo, i quali si sentiranno ora autorizzati a esigere nuove concessioni da parte dei palestinesi […]. Questo Accordo sottoscritto dall’Autorità nazionale palestinese sembra essere stato concluso per porre fine all’assedio del Presidente palestinese, ma l’assedio a cui è sottoposto il nostro popolo continua e si intensifica. È un Accordo che va quindi respinto da tutti i punti di vista”. Il testo, firmato dall’Ufficio politico del Fplp, fa presagire una nuova crisi interna all’Olp.

[20] Barghuti ha fatto queste dichiarazioni in un’intervista al corrispondente de il manifesto Michele Giorgio, pubblicata su quel giornale il 5 maggio 2002.

[21] L’episodio è nel libro dei Giudici, 16, 22-30. La notizia del “premio in denaro” per i “martiri” è stata diffusa dall’ufficio stampa dell’esercito israeliano e riferita sul “Corriere della sera” del 4 maggio 2002 da Lorenzo Cremonesi che, pur essendo sionista, metteva in dubbio la fondatezza dell’informazione, basata sull’intercettazione di lettere con cui i dirigenti dei Tanzim chiedevano ad Arafat uno stanziamento di mille euro per le famiglie dei “martiri” caduti sotto i colpi degli israeliani, ottenendone solo poche centinaia. Insomma, una panzana costruita sull’equivoco di presentare i “martiri” come “kamikaze”, insinuando quindi che questi sacrificherebbero la propria vita per qualche soldo. È proprio vero che invenzioni come questa la dicono lunga sulla morale di chi le mette in circolazione ed, evidentemente, considera il denaro molla essenziale di ogni azione.

[22] Il concetto di “popolo ebraico” viene dato per scontato da tutte le componenti del sionismo e viene comunemente accettato in articoli o libri di divulgazione, ma è in realtà contestato da molti studiosi, anche di ascendenza ebraica, che hanno sottolineato le grandi differenze esistenti tra le diverse comunità presenti nel mondo, con diversi livelli di assimilazione, con lingue diversissime (l’yiddish nell’Europa orientale, l’arabo dal Maghreb al Medio Oriente, le lingue dei paesi ospitanti in gran parte dell’Europa occidentale, il ladino, cioè un dialetto ispanico del XV secolo., nel caso di una parte delle comunità sefardite). Si veda, ad esempio, la bella introduzione di Maxime Rodinson ad Abraham Lèon, La conception materialiste de la question juive, Edi; Parigi, 1968, ora anche in Maxime Rodinson, Peuple juif ou problème juif? , Maspero, Parigi, 1981, che contiene numerosi altri saggi sull’argomento. Rodinson, tra l’altro, risponde a un critico filosionista di avere avuto notevoli difficoltà a trovare una definizione adeguata a “definire una unità che riunirebbe il re David, Einstein, Gesù di Nazaret, Maimonide, Moses Mendelssohn, Karl Marx, Menahem Begin, Jacques Offenbach, Benjiamin Disraeli, Michel Debré, Tristan Bemard, ecc., senza dirnenticare me stesso e il mio critico” (ivi, p. 10). Anche un autore di diverso orientamento politico, ma serio e documentato, Georges Friedmann, mette in dubbio l’esistenza di un “popolo ebraico”, di una “nazione ebraica”, prima dello Stato di Israele, che ha invece dato origine a una nuova nazionalità, sia pur artificialmente creata (Georges Friedmann, Fine del popolo ebraico, Comunità, Milano, 1968, pp. 235-242 e passim; l’autore, tra l’altro, nel testo usa in genere tra virgolette il termine “popolo ebraico”, che compare invece nel titolo).

[23] Karl Marx, Opere, vol. XLII, Editori Riuniti, Roma, 1975, pp. 691-692 (Lettera a Kugelman del 29 novembre 1869). Friederich Engels, “Persia-Cina”, in K. Marx-F. Engels, India, Cina, Russia, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 155.

[24] Israele senza confini. Politica estera e territori occupati, a cura di Antonio Moscato, prefazione di Sergio Giulianati, Sapere 2000, Roma, 1984.

[25] Alludevo a un drammatico episodio accaduto nella notte tra il 12 e il 13 aprile 1984. Quattro palestinesi, tutti diciottenni, avevano tentato di dirottare un autobus di linea per raggiungere il confine egiziano. Erano armati solo di coltelli e avevano una valigetta in cui dicevano di avere esplosivo. Accortisi che tra i passeggeri c’era una donna incinta, l’hanno fatta scendere, e questa ha avvisato la polizia. Il veicolo è stato bloccato dalle forze di sicurezza israeliane prima del confine, i quattro giovani e una soldatessa israeliana sono stati uccisi. Vari testimoni e una fotografia hanno rivelato che almeno due dei ragazzi sono stati uccisi dopo che si erano arresi. Dopo quel che è accaduto loro, mi domandavo, ci si può aspettare che chi tenterà di vendicarli si preoccupi come loro della gravidanza di un’israeliana?