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Abu-Bakr-al-BaghdadiLo storico Jean-Pierre Filiu, specialista tra l’altro dei movimenti Jihadisti, analizza il successo dello Stato islamico in Irak alla luce del contesto regionale . Secondo Mediapart: «se tutti gli sguardi sono oggi puntati sull’Irak, per lui «la chiave della disfatta jiadista» si trova in realtà in Siria dove una «dinamica rivoluzionaria» continua, malgrado tutto, ad esistere. Le considerazioni di Jean-Pierre Filiu, pubblicate il 21 agosto 2014 su Mediapart, sono stati raccolte da Lucie Delaporte, François Bonnet e Edwy Plenel.

 

Le vittorie folgoranti dello Stato islamico hanno colto di sorpresa il mondo intero. Che cosa sappiamo esattamente di questa organizzazione, dei suoi progetti, del suo funzionamento?

Lo Stato islamico, costituisce la vittoria postuma di Zarkaoui su Bin Laden. Una vittoria nella quale non manca la dimensione di classe. Zarkaoui è stato il capo, fino alla morte avvenuta nel 2006, del ramo iracheno di Al-Qaida, dal quale ha preso avvio lo Stato islamico. Inizialmente era un piccolo malvivente. Questa canaglia pentita e tatuata aveva col potere e con la violenza un rapporto molto meno etereo rispetto a Bin Laden. Bin Laden nutriva una visione della jihad globalizzata e astratta, mentre quella di Zarkaoui è ancorata in un territorio molto preciso: la «Grande Siria», «Bilad el-Cham», e l’Irak.
E d’altronde questo rende questa organizzazione così inquietante per qualcuno che, come me, ha lavorato sui movimenti apocalittici. Infatti questo territorio, nell’escatologia musulmana – le leggende sunnite e sciite si fissano su questo punto – costituisce la terra della «Grande battaglia», quella della fine del mondo. Qualsiasi battaglia che vi si svolge vale mille battaglie combattute altrove. Questo ha un potere terribilmente attrattivo nei confronti degli apprendisti jihadisti.
Per i sunniti, il ritorno del Madhi [«la guida attesa»] si realizzerà in questo territorio. Egli dovrà combattere il Dajjal (il Falso Profeta o l’Anticristo), e tutto si concluderà con la vittoria sui nemici dell’Islam che saranno convertiti o massacrati. Tali superstizioni popolari fanno presa anche sui volontari acculturati che si recano in quelle zone.
Da parte dello Stato islamico si manifesta un opportunismo apocalittico. I capi militari – senza necessariamente crederci loro stessi – sanno che evocare questi miti funziona perfettamente per attirare nuove reclute. Zarkaoui l’aveva capito e Baghdadi s’inserisce in questa continuità.

 

Chi è Baghdadi, questo califfo autoproclamato dello Stato islamico?

Si sa molto poco su Baghdadi. Era un cheikh di un villaggio, senza dubbio un po’ mediocre, ma in possesso comunque di una cultura islamica molto superiore alla media degli jihadisti. Egli ha sopratutto questa capacità di predicare che non avevano nè Bin Laden nè oggi Zawahiri [colui che è succeduto a Osama Bin Laden nel maggio 2011 alla testa di Al-Qaida]. Nel calderone iracheno, Baghdadi è divenuto molto rapidamente un militare agguerrito.
Ha gestito la sua organizzazione con metodi staliniani, con purghe sanguinose e ripetute. Così può contare su una falange totalmente asservita, devota e fanatica formata da circa 20.000 uomini sul terreno.
Alla morte di Bin Laden, nel maggio 2011, rifiuta qualsiasi forma di alleanza col suo successore Zawahiri e manifesta la sua volontà di indipendenza. Vuole radicarsi e creare il suo «Stato islamico» la cui «costituzione» non menziona che doveri e nessun diritto, per dozzine di pagine. Aveva già condannato nel febbraio 2011 i rivoluzionari in Egitto – definendo empie le loro rivendicazioni di pluralismo – proprio nel momento in cui Zawahiri, il nuovo capo di Al-Qaida, tentava, da parte sua, di recuperarli.

 

Come è possibile che 20.000 uomini mettano in scacco le forze curde, un esercito iracheno di un milione di soldati?

La presa di Mossoul nel giugno 2014 costituisce per lo Stato islamico una vera svolta. L’arsenale americano abbandonato dall’esercito iracheno è colossale, così come il controllo delle infrastrutture petrolifere costuisce un vero e proprio bottino di guerra.
E’ stata d’altra parte ripresa la loro terminologia parlando di «Stato islamico» – è una grande vittoria per loro – ma bisogna capire che questo «Stato» non è che una macchina di guerra che si nutre della propria avanzata. Se hanno bisogno che le infrastrutture continuino a funzionare e pagano per questo coloro che se ne occupano (o li costringono col terrore), è unicamente per alimentare la macchina di guerra. Non c’è alcuno spazio per il dissenso. Si vede nel recente massacro di 700 membri di una tribù sunnita a Deir Ezzor. Solo l’ideologia conta per loro. La vita non ha alcun valore. Io credo che questo carattere totalitario, a lungo termine, sia la loro condanna. Ma, nel frattempo, non oso immaginare i danni.

 

In che modo lo sviluppo dello Stato islamico in Irak si coniuga con ciò che accade in Siria?

Bisogna capire che nel momento in cui Baghdadi diventa capo del suo «Stato islamico» nel 2010, non controlla praticamente più alcuna base territoriale in Irak. C’è una base clandestina a Mossoul e, grazie ai collegamenti con l’antico partito Baas, può avere accesso ad alcuni depositi di armi del regime di Saddam Hussein. Può così continuare a organizzare attentati a Bagdad. Nella provincia di Anbar, che fu a lungo il feudo di Zarqaoui, deve ritirarsi di fronte alle milizie sunnite anti-jihadiste dette del Risveglio (Sahwa). La Siria si avvia a diventare come una base di retrovia per lo Stato islamico.
Bachar al-Assad, che deve confrontarsi nel marzo 2011 con lo scatenarsi di una contestazione pacifica in Siria, farà di tutto per favorire gli jihadisti che egli considera, a giusto titolo, i peggiori nemici dei rivoluzionari. E’ per questo che i servizi siriani liberano i detenuti jihadisti e lasciano che si allarghi il Fronte Nosra, che non è altro che il prolungamento, in territorio siriano, dello Stato islamico.
La rivoluzione in Siria, di fronte a massacri sempre più pesanti, passa progressivamente alla lotta armata. Ma, senza una visione chiara di questa militarizzazione, cade in un certo senso nella trappola di Assad. Gli jihadisti valorizzano in questo contesto la loro esperienza della guerriglia antiamericana e il loro armamento pesante. I rivoluzionari siriani che si battono contro Bachar al-Assad sottovalutano il machiavellismo di Baghdadi: egli si impadronisce a loro spese della prima capitale provinciale «liberata», Raqqa, e lì proclama nell’aprile 2013 il suo «Stato islamico in Irak e nel Levante».
In Irak, inizia l’intifada sunnita contro il governo di Bagdad. Lo Stato islamico si batte allora sui due fronti siriano e iracheno, e questa dinamica gli è molto favorevole, perchè nessun attore in Siria e in Irak ha la sua visione regionale. Così, quando le truppe di Baghdadi investono la città strategica di Fallouja, nella provincia d’Anbar, i bombardamenti indiscriminati dell’esercito fanno sì che tutte le forze locali si coalizzino con gli jihadisti.

 

Sono stati sottovalutati gli jihadisti dello Stato islamico? Perchè, secondo lei, la chiave del conflitto regionale si trova oggi più in Siria che in Irak?

La cecità di questi ultimi anni avrà chiaramente un costo. Si è guardato altrove nel momento in cui sarebbe stato necessario prendere decisioni dolorose, imperfette, ma che, almeno, sarebbero state corrispondenti all’ampiezza della posta in gioco. Appena un anno fa, l’astensione occidentale di fronte alla carneficina chimica di Damasco ha aperto un varco enorme agli jihadisti.
I rivoluzionari siriani, che non avevano sollecitato l’intervento straniero, si sono sentiti totalmente abbandonati quando gli attacchi aerei annunciati da Washington non sono mai avvenuti. E’ questo sentimento di impotenza e, nello stesso tempo, di tradimento, che ha fatto il gioco degli jihadisti, dato che la propaganda di Baghdadi, quella, non cessava di martellare sul fatto che l’ONU, l’America e l’Europa erano unite contro i musulmani, lasciando che Assad e la Russia li massacrassero.
Gli Occidentali hanno certo fornito qualche arma, ma a livello appena sufficiente per evitare la liquidazione della resistenza, e mai tale da rovesciare il rapporto di forza. Assad e i suoi alleati hanno conservato il controllo assoluto dello spazio aereo. Alla fine non abbiamo voluto scegliere tra i due mostri, pretendendo che aiutare i rivoluzionari avrebbe fatto il gioco degli jihadisti, e oggi abbiamo abbandonato la Siria a questi due mostri, Assad e gli jihadisti.
Non ho mai creduto a una soluzione militare in Siria. Se fossi stato un sostenitore degli attacchi mirati dopo i bombardamenti chimici di Damasco, sarebbe stato per favorire appunto un regolamento politico, portando tutti i patrioti siriani a dissociarsi da un regime criminale. La sfida della dittatura siriana permane tutta intera.
Di fronte alla minaccia jihadista, la dinamica rivoluzionaria attualmente esiste solo in Siria, che aveva all’inizio di quest’anno permesso di respingere lo Stato islamico fuori da Aleppo e della sua regione. In Irak, dopo undici anni di occupazione americana e di guerra civile, temo che le persone non si battano più se non su basi etniche o comunitarie. E’ perciò che la chiave della sconfitta jihadista si trova molto più in Siria che in Irak.

 

Che ne è stato esattamente della rivolta siriana? Aleppo è oggi sotto la minaccia dell’accerchiamento da parte dei jihadisti.

Aleppo ha molto sofferto della campagna governativa di bombardamento di «barili» (containers di TNT imbottiti) che ha fatto almeno duemila vittime dall’inizio dell’anno. Mi preme sottolineare il fatto che Bachar al-Assad ha così bombardato a tappeto una città che si era sbarazzata delle milizie jihadiste, dimostrando così che il suo bersaglio restano i rivoluzionari piuttosto che i partigiani di Baghdadi.
Durante l’estate 2013 ho soggiornato nella parte «liberata» (rivoluzionaria) di Aleppo, che contava allora più d’un milione di abitanti. Ora ne accoglie più o meno 300.000 dopo la devastazione dei «barili », perpetrata nell’indifferenza generale . Attualmente, sono gli jihadisti che vogliono prendersi la rivincita su Aleppo e minacciano di tagliarne gli approvigionamenti attraverso la Turchia.
I rivoluzionari siriani si battono su due fronti, contro la dittatura e contro gli jihadisti, in condizioni allucinanti. E non godessero di un autentico sostegno popolare, sarebbero stati spazzati via da tempo. A reggere lo scontro sono fondamentalmente le resistenze di quartiere o di villaggio, sono i ragazzi dell’angolo che si battono. Sono quelli che non sopportavano più gli jihadisti, questi stranieri che loro avevano accolto come fratelli, e che hanno voluto insegnargli cos’era l’Islam.
E’ su questa resistenza popolare che occorre appoggiarsi piuttosto che discutere nelle conferenze internazionali, a Ginevra o altrove. Barack Obama, per giustificare la sua passività in Siria, ha affermato che non si può costruire un esercito di anziani dottori e di contadini. Il suo controsenso è totale, dato che sono appunto questi civili in armi che tengono testa a Bachar al-Assad da tre anni a questa parte. Questa incomprensione rientra anche nella più ampia incapacità di vedere il mondo arabo in divenire, e a fare affidamento sulle popolazioni locali.
L’intervento militare non sarà in questo caso una soluzione in sè. Bisogna raccogliere la sfida nella sua globalità, come ha proposto con lucidità François Hollande. Nello stesso spirito, occorre a ogni costo una cooperazione russo-americana di fronte alla sfida jihadista. La minaccia dello Stato islamico è divenuta talmente mostruosa che vale la pena di mettere da parte i contenziosi del momento per considerarla una priorità collettiva.

 

Con il regresso provocato da ciò che è accaduto in Irak e in Libia, non pensa che sia proprio la modalità di intervento occidentale a aggiungere disordine al disordine e a risvegliare i mostri?

Oggi non esistono più soluzioni buone in assoluto. Ma se si giudica un eventuale intervento in Siria in relazione a ciò che è accaduto in Libia, la Libia in relazione all’Irak e l’Irak in relazione all’Afghanistan… non ne caviamo le gambe. I jihadisti sono sempre in vantaggio di una guerra e noi in ritardo di una. Attualmente, siamo sul punto di riflettere sul modo di intervenire in Irak mentre la posta in gioco è in Siria, il solo teatro dove si può sperare di sconfiggere in modo durevole gli jihadisti.
Non scegliendo, abbiamo avuto i dittatori e Al-Qaida: le due facce dello stesso mostro. Ci sono oggi due poli alternativi di resistenza che bisogna sostenere: in Irak è il Kurdistan di Barzani, anche se si deve sperare che sia possibile un giorno una struttura meno basata sui clan, e in Siria, i rivoluzionari di Aleppo, che lottano, lo ricordo, su due fronti.
Bisogna aggiungere che se oggi ci fosse un intervento – e ribadisco che non credo a un regolamento di conti esclusivamente militare- , questo non dovrà essere realizzato in nome della «protezione» di un gruppo o di un altro.

 

Come giudica l’azione della diplomazia francese?

Non posso che salutare la coerenza della posizione francese sulla Siria, che è stata sabotata l’anno scorso da Obama con i freni posti rispetto agli attacchi. Questa coerenza si riscontra oggi rispetto all’Irak con il ruolo di pioniere giocato da Laurent Fabius all’interno dell’Unione europea, la cui impotenza collettiva sarebbe stata, in mancanza di ciò, desolante. Se esiste oggi una risoluzione sotto il capitolo VII all’ONU, è proprio grazie all’azione della Francia. Su questo, chapeau. Sulla sequenza curda, ritengo che Fabius non abbia praticamente commesso errori.
Per quanto riguarda Gaza, sono molto più preoccupato. La solidarietà con Israele troppo a lungo rivendicata dai vertici dello Stato produce per l’appunto questa «importazione» del conflitto israelo-palestinese che si pretenderebbe di evitare. La peggiore delle «importazioni», una importazione del rancore, un rifiuto profondo del «due pesi due misure» tale che non l’avevo mai percepito a questi livelli. L’evoluzione recente del linguaggio ufficiale deve imperativamente tradursi nei fatti, con un’iniziativa francese in favore della rimozione del blocco della striscia di Gaza, poichè questo blocco imposto a 1,8 milioni di donne e uomini è in sè stesso un atto di guerra.
Il conflitto a Gaza è tanto più grave per il fatto che, per la primaa volta, un’offensiva israeliana in territorio palestinese è nei fatti sostenuta da una parte essenziale dei regimi arabi, con l’eccezione importante del Qatar. Una formidabile fortuna inaspettata per Baghdadi che può reclutare nel mondo arabo e anche oltre, capitalizzando l’indignazione suscitata dai massacri di Gaza.
Infine, sarei interessato a comprendere meglio la nostra politica nei confronti della Turchia. Non vedo come si possa lottare contro le reti jihadiste senza avere una forte cooperazione con i servizi turchi, poichè tutti gli jihadisti passano dalla Turchia per andare e venire. Le disposizioni giuridiche e poliziesche adottate in Francia contro la minaccia jihadista sono efficaci nel quadro francese, ma non si è capaci nè di un’anticipazione dei tempi nè di una proiezione al di fuori delle nostre frontiere.

 

Di fatto lei è molto allarmista riguardo alla dinamica jihadista e al rischio di terrorismo. Perchè?

Sono molto preoccupato perchè, dopo un quarto di secolo di lavoro su questo fenomeno, non ho mai visto una situazione simile. L’intensità della mobilitazione jihadista, il suo inserimento nello spazio e nella durata è senza precedenti. Baghdadi, grazie al suo tesoro di guerra di più di un miliardo di dollari, ha di che organizzare l’equivalente di mille attentati dell’ «11 settembre». I jihadisti sono capaci, come organizzazione totalitaria, di dedicare una parte delle loro risorse a un progetto a lungo termine, e dunque al reclutamento, alla pianificazione, soprattutto al radicamento di cellule dormienti.
Sicuramente la propaganda su Internet è stata largamente amplificata dai media occidentali. A questo proposito, il martirio di James Foley [il giornalista americano decapitato dagli assassini dello Stato islamico] era assolutamente prevedibile. Era stato rapito in Siria esattamente per essere sacrificato in circostanze come quelle attuali, con un impatto mediatico aggravato dalla barbarie di questo assassinio. Bisogna anche rendere omaggio alle autorità francesi che hanno operato instancabilmente per non lasciare alcun compatriota nelle mani dello Stato islamico.
La recluta straniera di Baghdadi deve, sotto minaccia di sanzioni, reclutare a sua volta da tre a cinque persone. Quindi questa persona invia dei messaggi sulle reti sociali per vantare la sua esperienza e invitare a raggiungerla. E’ per questo che la progressione del reclutamento jihadista è esponenziale. D’altra parte si assite ora ad una emigrazione familiare con donne che fanno una sorta di «guida del viaggiatore», imbottite di indicazioni pratiche, per famiglie jihadiste.
L’altra forza di questa propaganda è la sua insistenza sulla nozione di bottino, ghanima. E’ qualcosa che si rivolge in modo particolare alla delinquenza qui e altrove. Se è per la jihad tu puoi aggredire, puoi fare una truffa sulla carta di credito, sui prezzi delle consumazioni, etc. Sul posto, si propone loro di «rifarsi sulla bestia», ad esempio nel corso delle espulsioni di cristiani, degli yasidi o nel corso delle esecuzioni esemplari.
L’attrattiva del bottino è un potente incentivo per l’arruolamento nella jihad. Il mio peggior timore è che questi «volontari» occidentali, mal formati militarmente, non servano gran che sul posto ai comandi jihadisti. Dunque ne rimanderanno un certo numero in Europa per perpetrare atti terroristici, sul modello di Mehdi Nemmouche e dell’uccisione di Musée juif di Bruxelles. Sanno bene che in Europa il clima è degradato e la xenofobia aumentata, con un rischio reale di escalation razzista in caso di attentato comunitario. Il progetto di Baghdadi è di prendere in ostaggio i musulmani in Europa come ha fatto in Irak e in Siria.