Lo scorso 23 agosto si è tenuta a Berna una manifestazione di solidarietà con Gaza ed il popolo palestinese. Pubblichiamo qui di seguito la versione italiana del volantino distribuito dall’MPS in questa occasione. Pur essendo passati alcuni giorni e malgrado le “novità diplomatiche” sul conflitto, ci pare di poter affermare che l’analisi qui contenuta mantenga tutta la sua attualità (Red)
1. Gaza: la crudele realtà delle cifre rilevate il 18 agosto – 2016 persone uccise, di cui 541 bambini, 250 donne e 95 anziani; 100’410 persone senza più una casa – suscita una grande impressione in particolare tenendo conto di un elemento: l’esercito dello Stato israeliano, disponendo di una tecnologia militare quasi senza paragone, attacca una popolazione soffocata in una sorta di ghetto-prigione. La precisione dei tiri – di cui l’esercito israeliano si vanta – equivale a quella di una polizia militare professionale che semina il terrore e la morte in una prigione sovraffollata.
Si tratta di vera e propria barbarie high-tech. E il complesso militare-industriale israeliano si affretta a esportare queste armi di guerra in tutto il mondo; armi, sembrerebbe, dotate di un vantaggio concorrenziale. In effetti, le armi sono state testate durante “operazioni militari delicate”, formula questa menzionata da un alto graduato dell’esercito israeliano. Uccisioni e business si sposano in questo sistema capitalista mondializzato.
A partire dal 19 agosto 2014, i bombardamenti sono ripresi e una nuova fase politica-militare si è aperta. Dopo i razzi e l’obiettivo dei tunnel, i bersagli legittimi – secondo Netanyahu – sono d’ora in avanti i dirigenti dell’ala militare di Hamas: le Brigate Ezzedine al-Qassam. In questo modo, Mohammed Abou Shamala, Raed al-Attar e Mohammed Barhoum sono stati assassinati il 20 agosto, come pure dei bambini, delle donne e dei civili.
2. L’operazione denominata “Margine di protezione” – che dura da più di 46 giorni – deve innanzitutto essere intesa come un episodio di una lunga occupazione militare che ha preso inizio nel 1967. Da settembre 2005, data del “ritiro unilaterale” d’Israele da Gaza, diverse migliaia di Palestinesi sono stati assassinati. La presentazione di uno Stato d’Israele continuamente minacciato da terroristi palestinesi permette di giustificare tutte le forme di aggressione, di controllo, d’imprigionamento, d’esclusione contro il popolo palestinese.
Queste guerre ricorrenti favoriscono un’unità nazionale che può degradarsi sotto l’effetto di diversi fattori: una popolazione dove l’eterogeneità delle traiettorie storiche s’accentua (immigrati vecchi e nuovi, laici e religiosi, sionisti di diverse sfumature…); una crisi sociale estesa che si è manifestata nelle strade, nell’agosto 2011; i Palestinesi d’Israele (chiamati Arabi israeliani) che rifiutano l’apartheid, etc. Queste tensioni hanno potuto essere osservate tra il 1993 (“Accordi d’Oslo”) e il 2000 (accordi di Camp David), periodo in cui regnava una certa illusione su una “soluzione del conflitto”. Nel 2000, Ehoud Barak ne ha fatta la constatazione davanti alla Commissione Or.
Bisogna aggiungere un elemento socio-militare di peso: le colonie, dal 1967, continuano ad estendersi. All’interno dei commando e delle unità le più agguerrite, i militari provenienti dalle colonie dei territori occupati sono i più numerosi. Il loro peso nei ranghi degli ufficiali è molto importante. La dimensione religiosa è pure sostenuta. Sono stati formati alla repressione colonialista contro le Intifada e le spedizioni punitive contro Gaza. Per loro, il nemico è “il palestinese”. L’apartheid, come pure il trasferimento della popolazione, è una prospettiva che alimenta la loro visione “etnico-politico-religiosa. Per questo lo Stato d’Israele diventa sempre più uno Stato di guerra. Ma vediamo ora di reinserire la questione della “striscia di Gaza” in questo contesto di Stato di guerra colonialista.
3. La striscia di Gaza considerata non occupata di fatto lo è sempre rimasta: il blocco si applica infatti agli scambi commerciali e finanziari come pure alla libera circolazione delle persone. La porta di Rafah, la sola che sfugge al controllo diretto dello Stato israeliano, si apre e si chiude a seconda della volontà del potere egiziano. L’elettricità e la distribuzione d’acqua sono largamente dipendenti delle decisioni dello Stato israeliano. Le distruzioni d’infrastrutture e di immobili illustrano bene questa opzione di un controllo sistematico: centrale elettrica distrutta, rete d’acqua danneggiata e riduzione drammatica di fonti d’acqua potabile a causa dell’inquinamento; zone agricole bombardate pur essendo, nei 500 metri adiacenti la frontiera, già neutralizzate precedentemente; distruzione di moschee per rimettere in discussione un’identità culturale, evidentemente in nome della “lotta contro il terrorismo”. Le infrastrutture della sanità sono state danneggiate e paralizzate, qualche volte bombardate, come pure le scuole. La “striscia di Gaza” non è semplicemente “una piccola enclave”. La sua situazione e quella della sua popolazione suscitano un serie di rivendicazioni immediate avanzate da tutta la popolazione palestinese. Per questa ragione circa un milione di abitanti di Gaza gode dello statuto di rifugiato. Dunque la questione del “ritorno dei rifugiati” e del loro indennizzo – secondo i termini della risoluzione 194 del 1948 dell’ONU – è direttamente invocata dalla popolazione di Gaza, indipendentemente che siano rifugiati in Cisgiordania, in Libano, in Siria o in Giordania. La libera circolazione è loro vietata e gli scambi commerciali e finanziari sono strettamente controllati o bloccati. Eppure, disporre d’un porto et di un aeroporto fa parte delle rivendicazioni riconosciute dall’ONU. Tuttavia tali rivendicazioni vengono presentate come “massimaliste” da parte dello Stato d’Israele, sempre in nome della “lotta contro il terrorismo”. Di fatto le esigenze degli abitanti di Gaza valgono anche per i palestinesi della Cisgiordania che sono confrontati con il muro, simbolo in cemento di una occupazione dai molteplici aspetti. Il governo d’Israele lo sa perfettamente.
Distruggendo regolarmente Gaza e adattando il blocco, lo Stato d’Israele rinvia le rivendicazioni della popolazione di Gaza il più lontano possibile, così come quelle di tutti i palestinesi. Infatti, il terribile sforzo di sopravvivenza e di “ricostruzione” continua divengono la priorità vitale per gli abitanti di Gaza. Ciò che fa dimenticare, in parte, le loro esigenze poiché la “comunità internazionale” si propone solamente di “aiutare la ricostruzione “e di sorvegliarla.
Cercando di decapitare la direzione dell’ala militare di Hamas – le Brigate Ezzedine al-Qassam, che lo scorso 21 agosto Netanyajou ha paragonato ai rappresentanti dello Stato Islamico (ISIS) – il governo d’Israele persegue due obiettivi.
1. Suscitare reazioni che lo Stato sionista sa di poter contenere. E utilizzare questa resistenza – la cui eco si è palesata durante i funerali di tre dirigenti militari il 21 agosto – per proclamare al mondo intero che “Hamas non è un interlocutore, non possiamo negoziare, sono dei terroristi”. Negli anni 1970 e 1980, il governo israeliano faceva la stessa cosa con l’OLP.
2. Suscitare difficoltà in seno ad Hamas, poiché esso si propone allo stesso tempo come interlocutore in un processo negoziale di pace e, allo stesso tempo, esercita il suo diritto alla resistenza. Così, con un cinismo consumato, il governo d’Israele dichiara: “il futuro del conflitto riposa solamente nelle mani di Hamas”! Avi Issacharoff riassume con insolenza questa opzione politico-militare: “Alla fine (in seguito alle eliminazioni), l’ala politica d’Hamas dovrà decidere per quanto tempo ancora continuare questo conflitto – un conflitto che porta di
struzione e devastazione a Gaza e che mette in pericolo la sopravvivenza stessa di Hamas. Dovrà pure decidere se e quando verrà l’ora di mettere fine al conflitto, pur sacrificando il prezzo della sua popolarità”. (Times of Israel, 21 agosto 2014)
4. Nel frattempo negoziati indiretti si svolgono, in modo intermittente, al Cairo. Chi fa da sponda a questi negoziati indiretti? I servizi di sicurezza militare del presidente ex-maresciallo Abdel Fattah al-Sissi. A chi il governo israeliano e Al-Sissi vogliono dare la responsabilità della “ricostruzione” di Gaza e di nuovi negoziati “per una pace duratura”? All’autorità palestinese (AP) di Mahmoud Abbas. Proprio quell’AP che in passato, come voleva Tel – Aviv, ha detronizzato l’OLP! Chi controllerà il finanziamento della ricostruzione, una volta il cessate al fuoco duraturo concluso? L’autorità palestinese riceverà i fondi raccolti sotto l’egida dell’Egitto e della Norvegia. “Sorveglianza” internazione e blocco israeliano modulato continueranno.
Di fronte a questo quadro, risulta decisiva la diffusione e la spiegazione del senso delle rivendicazioni portate dalla società civile palestinese. In effetti, quest’ultima afferma un diritto essenziale: in quanto popolo occupato essa ha il diritto di difendersi per delle terre riconosciute come sue. Oltre alle esigenze menzionate a proposito di Gaza, questa resistenza reclama lo smantellamento del muro di separazione e delle colonie, la liberazione di tutti i prigionieri politici, l’applicazione totale di tutti i diritti fondamentali dei cittadini e delle cittadine arabi israeliani e delle risoluzioni dell’ONU, troppo sovente dimenticate…in nome di un malinteso “realismo”.
In Svizzera, l’azione di solidarietà con il popolo palestinese può vertere, tra l’altro, su:
– la fine di qualsiasi collaborazioni militare e cooperazione in materia d’armamenti tra la Svizzera e lo Stato d’Israele che, tra l’altro, dispone dell’arma nucleare. In questa ottica possono essere sviluppati alcuni obiettivi della campagna internazionale BDS;
– il riconoscimento dello statuto di rifugiato politico ai palestinesi colpiti dal potere militare e poliziesco israeliano; statuto da estendere anche a coloro minacciati di morte, di tortura e di imprigionamento da parte dai governi autocratici della regione, primo tra tutti il regime dittatoriale di Bachar el-Assad, recente alleato degli Stati Uniti contro l’ISIS, e dalle forze oscurantiste e criminali dello Stato Islamico.