Quali fattori, secondo lei, hanno dato luogo alla recente aggressione contro Gaza, e come mai in questo momento? Perché è stata eccezionalmente brutale?
Non è rara l’escalation nella brutalità: essa va di pari passo con la lunga deriva della società israeliana e del suo regime politico verso l’estrema destra. Il Likud, la forza principale nell’estrema destra politica sionista, è arrivato al potere nel 1977.
Qualche anno dopo, nel 1982, ha guidato la criminale invasione del Libano culminata nel massacro di Sabra e Chatila. È stata la più micidiale delle guerre israeliane fino ad allora. In quell’occasione si è superato il limite delle atrocità e della brutalità esercitate contro le popolazioni civili. Quel limite, tuttavia è stato superato in termini di intensità di distruzioni e di violenza al momento dell’aggressione israeliana al Libano nel 2006. C’è stata poi l’aggressione a Gaza nel dicembre 2008-gennaio 2009, che è stata altrettanto brutale e ancor più micidiale rispetto ai civili, data l’intensità di popolazione a Gaza e l’impossibilità di fuggire dalla cosiddetta Striscia di Gaza.
L’aggressione recente contro Gaza rientra perfettamente in questa configurazione contrassegnata da una brutalità e una violenza crescenti e dall’accentuato disprezzo di Israele nei confronti dell’opinione pubblica mondiale. I precedenti tentatici di conservare l’immagine di uno Stato “alla ricerca della pace” sono ormai storia passata. Attualmente, nel momento della presunta “guerra al terrorismo”, i governanti israeliani si sentono autorizzati a impiegare il linguaggio della forza bruta. Tale approccio post-11 settembre 2001 – patrocinato dagli Stati Uniti – ha dato via libera al ricorso esplicito al terrorismo e della brutalità statuale da parte di Israele, in nome della lotta contro il terrorismo.
Il motivo di quest’ultima aggressione contro Gaza, rinvia, per un verso, all’esasperazione di Netanyahu in seguito alla riconciliazione tra Hamas e al-Fatah[2]e, per altro verso, al fatto che questa sia stata favorevolmente accolta, ancorché non troppo esplicitamente, dai governi occidentali, Washington inclusa. L’irritazione del governo israeliano non è dovuta a una qualche “radicalizzazione” di Hamas, bensì, al contrario, al fatto che – in seguito alla svolta avvenuta in Egitto nel 2013 – quest’organizzazione ha dovuto moderare il proprio orientamento politico generale e fare parecchie concessioni per riconciliarsi con l’Autorità palestinese (AP) insediata in Cisgiordania. La verità è che il governo israeliano è più a suo agio in un contesto in cui la Palestina è divisa e in cui è facile demonizzare Hamas che non di fronte a un panorama palestinese unitario e a un Hamas più moderato. Dopo gli accordi di Oslo del 1993, l’obiettivo dell’estrema destra israeliana è sempre stato quello di indebolire i palestinesi “moderati” da Arafat a Mahmud Abbas – e spingere verso una radicalizzazione di cui beneficia Hamas. Infatti, finché è facile demonizzarlo, Hamas è il loro “nemico privilegiato”, perché questo rende molto più consensuali i rapporti di Israele con gli Stati Uniti e l’Europa e riduce la pressione dei paesi occidentali sul governo israeliano. Ricordiamo che l’aggressione più brutale contro Hamas-Gaza è sopraggiunta dopo che questo movimento islamista ha preso le distanze dagli attentati suicidi e ha privilegiato l’intervento politico, incluso con la partecipazione elettorale alle elezioni del 2006. Per anni, Hamas aveva respinto elezioni del genere come illegittime e in contrasto con una linea di lotta armata.
Sedare lo slancio dei palestinesi verso iniziative di pace
Quali erano gli obiettivi di Israele, tenuto conto del fatto che la brutalità dell’aggressione ha sicuramente incoraggiato il riavvicinamento di tutti i palestinesi?
Lo scopo di Israele è provocare una nuova radicalizzazione di Hamas e tornare ad approfondire lo scarto tra il movimento islamista (Hamas) e l’AP. Di fatto, la breccia tra le due formazioni si è dapprima approfondita per effetto dell’aggressione. Per questo aspetto, per una certa fase lo scopo sembrava raggiunto. Ma la collera suscitata dall’aggressione tra tutti i palestinesi è stata tale che l’AP è stata costretta a esprimere la propria solidarietà nei confronti di Gaza, diretta da Hamas. Il governo israeliano non sa che farsene dei sentimenti del popolo palestinese. Ciò che soprattutto voleva è placare lo slancio verso iniziative di pace da parte dei palestinesi. Calcolava che, di fronte a una simile brutalità dello Stato di Israele, Hamas avrebbe pensato di non poter più scegliere la moderazione e il compromesso, come aveva fatto prima del recente attacco. Paradossalmente, il governo israeliano ha molto più paura delle iniziative di pace dei palestinesi che non dei missili lanciati da Gaza. Quel che teme di più è ogni iniziativa palestinese che potrebbe essere bene accolta dai governi occidentali e sostenuta da Washington, sia pure in modo tiepido.
Pur di raggiungere il proprio obiettivo, il governo israeliano è capace di cogliere ogni pretesto, come ha fatto in questo caso con i tre ragazzi israeliani sequestrati e assassinati in Cisgiordania. Ha subito accusato Hamas senza alcuna prova, come l’amministrazione Bush aveva a suo tempo accusato l’Iraq di stare dietro gli attentati dell’11 settembre nel 2001: un pretesto per raggiungere l’obiettivo fissato in partenza. Gli israeliani hanno colto il triplice assassinio come occasione per riarrestare numerosi prigionieri politici palestinesi che erano stati rilasciati in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit (liberato il 18 ottobre 2011), che era stato detenuto (nel giugno 2006) a Gaza come prigioniero. Era evidentemente una campagna di arresti premeditata: il governo israeliano aveva rilasciato quei detenuti con parecchia reticenza, aspettando il primo pretesto per riportarli dentro, avvertendo così i palestinesi che tutto quel che riuscissero a fare su questo terreno non servirebbe a niente, perché alla fine Israele ritirerebbe ogni concessione che fosse costretta a fare sotto pressione.
Ecco com’è cominciata la faccenda. Successivamente il governo di Nethanyahu ha invocato la scusa del lancio di missili, dopo aver volutamente esacerbato le tensioni con il comportamento particolarmente brutale assunto dall’esercito israeliano in Cisgiordania, con la scusa di ricercare i tre sequestrati. Una brutalità che ha ovviamente suscitato reazioni indignate da parte dei palestinesi. Israele ne ha approfittato per lanciare il suo attacco brutale, totalmente “sproporzionato”, senza alcune ritegno morale – a parte gli avvisi, del tutto ipocriti, che lasciavano agli abitanti sei minuti per scappare prima che gli edifici gli crollassero in testa, in piena notte!
Ristabilire la “credibilità” di Israele come potenza militare.
Con questo attacco Israele ha raggiunto uno dei suoi obiettivi? Esce rafforzato o indebolito a questo scontro? Che ne è delle perdite militati israeliane?
Gli israeliani hanno subito alcune perdite fra i soldati perché dovevano dimostrare di essere decisi nell’entrare a Gaza, per ristabilire la loro “credibilità” come potenza militare. Se si fossero limitati a sparare a distanza la cosa sarebbe stata interpretata come un segnale di debolezza: sanno tutti che non vi è alcun comune confronto tra i missili artigianali lanciati da Gaza e la temibile potenza di fuoco israeliana. Il governo israeliano doveva dunque ristabilire la “credibilità” persa impegnando truppe di terra. Ciò ha però comportato un elevato costo, perché non è possibile impiegare truppe in una struttura urbana ostile senza che vi siano perdite.
In effetti, la cosa peggiore per lo Stato di Israele, ben più che conoscere perdite (morti e feriti) è che i suoi soldati vengano catturati e fatti prigionieri di guerra (“ostaggi”, per Israele). La strategia elaborata dai responsabili militari per ridurre al minimo questo rischio è la seguente: ogni qualvolta un soldato israeliano è sotto la minaccia di cadere prigioniero, ecco l’ordine di intensificare l’offensiva, il che implica un elevato rischio di uccidere il soldato in questione. Essi infatti preferiscono assumersi il rischio di uccidere i propri soldati piuttosto che questi vengano fatti prigionieri e possano, quindi, servire per un ulteriore scambio con prigionieri politici palestinesi. La politica di Israele è quella della forza bruta. Il governo israeliano non vuole assolutamente la pace. Vuole solo schiacciare i palestinesi, terrorizzarli. Si comporta come uno Stato terrorista, nell’accezione piena del termine. I suoi dirigenti credono solo nel dominio militare, nell’assoluta supremazia militare.
In questo attacco gli israeliani sono riusciti a terrorizzare la gente, ma non a sottometterla. Le loro azioni, tra l’altro, hanno suscitato un’immensa protesta internazionale. Si può dire che l’operazione ha avuto un effetto boomerang?
Comunque non nelle teste del blocco d’estrema destra attualmente al potere in Israele. Per i sionisti della vecchia generazione avrebbe creato un grosso problema. Ma quel che si va sviluppando col pretesto della “guerra al terrorismo” è il concetto che nella lotta contro un nemico mostruoso[3]sia legittimo ricorrere a qualsiasi tipo di metodo terrificante. E il governo israeliano di estrema destra in carica è quello che incarna nella maniera più estrema questa logica.
In linea generale, gli attuali dirigenti israeliani se ne infischiano dell’opinione pubblica mondiale. In compenso, si preoccupano evidentemente di quella statunitense, in quanto questa influisce sul comportamento del governo USA. In questo campo, però, il governo Nethanyau ha dimostrato apertamente di comportarsi da giocatore scaltro in fatto di politica statunitense, cercando di sfruttare direttamente le divisioni politiche interne, seducendo la destra repubblicana, ecc. Ed è stato abbastanza abile in questo gioco, tanto più che Obama è in effetti cauto, specie per quanto riguarda i rapporti con Israele. E Hilary Clinton, che probabilmente sarà la candidata democratica nel 2016 con buone prospettive di diventare il prossimo presidente, ha concesso di recente il proprio sostegno alla politica di Nethanyahu, ed è questo che conta per quest’ultimo. Se ne infischia dell’opinione pubblica, delle petizioni di intellettuali e di iniziative del genere.
Sembra che più il governo si muove in modo brutale e si orienta verso l’estrema destra più gli israeliani lo sostengono. Sembra che praticamente non vi siano voci di opposizione.
Sì, è un altro aspetto desolante di questa storia. Si tratta, ancora una volta, della nevrosi della guerra al terrorismo, nel caso specifico della demonizzazione di Hamas e del ricorso all’argomento insensato dei razzi lanciati da Gaza. Molti israeliani che avrebbero preso parte a manifestazioni contro la guerra nel 1982 (al momento dell’invasione del Libano) oggi sostengono la guerra del governo in nome dell’opposizione al “terrorismo”. Il fattore Hamas è piuttosto importante al riguardo. Sharon ha fatto di tutto pur di indebolire e distruggere Arafat, permettendo così ad Hamas di aumentare il suo sostegno fra i palestinesi. Li ha provocati in modo deliberato, ben conscio che questo avrebbe suscitato reazioni, specie da parte di gruppi come Hamas. Poteva poi prendere ogni volta queste reazioni come pretesto per accrescere l’oppressione dei palestinesi e alimentare ciclicamente la violenza, che favoriva al contempo Hamas, dal lato palestinese, e lui stesso, da quello israeliano. Questa dialettica degli estremi promossa dall’estrema destra israeliana è stata applicata in continuazione. Mahmud Abbas si è spinto molto in là nella capitolazione di fronte alle condizioni israeliane/statunitensi, ma gli israeliani continuano a screditarlo perché, come ho già detto, questo governo non vuole assolutamente “partner di pace”, non vuole la pace e basta.
In generale, che impatto ha avuto il conflitto israelo-palestinese in Medio Oriente?
Si tratta essenzialmente di un fattore di radicalizzazione,tra altri, nel mondo arabo. Il risentimento popolare si va accumulando rapidamente davanti allo svolgersi di tante tragedie, specie quella che sta avvenendo in Siria, di un’ampiezza diversa da tutte le altre. Per la verità, in Siria le persone uccise quotidianamente erano più numerose di quelle stesse di Gaza. E il fatto di aver permesso che questo continuasse ha suscitato un risentimento così profondo fra i siriani che ha enormemente facilitato la resistibile ascesa di Daech,[4]un’organizzazione ultra-fondamentalista fanatica, al cui confronto la locale branca di Al-Qaida sembra ora moderata!
Questo risentimento e questa radicalizzazione sfoceranno regolarmente nell’ascesa del fondamentalismo religioso anziché incoraggiare il progresso di forze più democratiche e laiche?
La radicalizzazione e la collera non portano, di per sé, allo sviluppo di questa o quella forza. Tutto dipende dai fattori soggettivi presenti e dalla loro interazione con i fattori oggettivi di radicalizzazione. Nel 2011 la regione si è imbarcata in quello che io chiamo un processo rivoluzionario a lungo termine, destinato a durare decenni. Un processo rivoluzionario non è mai lineare: non è un susseguirsi di vittorie finché non si vede la bandiera rossa sventolare su un palazzo. Un tale processo può passare per fasi spaventose, attraversare tremendi momenti controrivoluzionari. La tendenza dominante nelle regioni arabe è attualmente quella alla controrivoluzione, soprattutto con gli sviluppi siriani (la tenacia del regime Assad), egiziani (Sissi) e con la diffusione di Daech. Ma si tratta solo di una fase in un processo a lungo termine.
Il fallimento delle forze potenzialmente di sinistra dell’area nel muoversi in modo autonomo al fine di costruire un’alternativa, sia ai vecchi regimi sia alle forze islamiste, ha permesso lo sviluppo di questa fase. I vecchi regimi e l’opposizione fondamentalista islamica sono entrambe forze profondamente contro-rivoluzionarie. Se non si verifica l’emergere di un terzo polo, di una forza popolare progressista in grado di costruire un’alternativa, resteremo costretti all’angolo in questa situazione binaria, con dai due lati una dialettica che spinge verso gli estremi. I vecchi regimi vanno di peggio in peggio (infatti Sissi è peggio di Mubarak), e anche l’opposizione fondamentalista islamica (Daech è sicuramente ben peggiore di tutto quel che ha rappresentato il movimento dei Fratelli musulmani). Quindi, in mancanza di un’alternativa popolare progressista, quel che domina è fondamentalmente questo processo binario controrivoluzionario, con una radicalizzazione che si alimenta dialetticamente agli estremi.
Le potenzialità di uno sbocco progressista del processo rivoluzionario
Non esisteva un’alternativa quando le masse popolari in Tunisia e in Egitto sono scese in piazza con un movimento democratico, laico? Da qualche parte per caso è rimasto uno sbocco progressista?
Il potenziale c’è ancora – non si tratta soltanto di un potenziale teorico ma di un potenziale effettivo. Naturalmente, è diverso da un paese all’altro. In Tunisia, si incarna nella centrale sindacale, l’UGTT (Union Générale Tunisienne du Travail – Unione generale tunisina del lavoro), che è di gran lunga la principale forza politica e sociale organizzata nel paese. In questo caso, si tratta di una questione di strategia.
Lo stesso vale per l’Egitto: esiste in quel paese un importante potenziale, di cui abbiamo avuto un primo saggio nel 2012, quando il candidato nasseriano di sinistra nazionalista, Hamdine Sabahi, è arrivato terzo all’elezione presidenziale, con quasi 5 milioni di voti. Questo indica un’immensa potenzialità, abbastanza paragonabile per dimensioni ai due campi della contro-rivoluzione rappresentati, da un lato, dal vecchio regime e, dall’altro, dai Fratelli musulmani. Eppure questa potenzialità è stata sprecata dagli egiziani nasseriani di sinistra quando sono passati dalla loro alleanza del 2011 con i Fratelli musulmani a quella con Sissi nel 2013. Ma il potenziale c’è ancora, e i giovani sono ancora radicalizzati, non hanno votato per Sissi, e questo è un punto cruciale. Il saggio di partecipazione alle ultime elezioni presidenziali era talmente basso che hanno dovuto protrarre di un giorno le votazioni per mobilitare potenziali elettrici ed elettori. Uno sforzo che aveva la funzione di dare un po’ di credibilità alla proclamazione grottesca di un voto a favore di Sissi del 95%.
In Siria, i Comitati di coordinamento locali che hanno diretto la sollevazione nella prima fase rappresentavano un potenziale progressista molto importante. Si è disperso quando questi comitati hanno riconosciuto il cosiddetto Consiglio nazionale, insediato a Istanbul e dominato dai Fratelli musulmani siriani dall’interno e dal Qatar e dalla Turchia dall’esterno. Dopo di allora, la situazione siriana è stata stretta tra un’opposizione ufficiale inefficace e corrotta e un regime molto brutale. È ciò che ha portato all’emergere di un’opposizione islamista più radicale, rappresentata da una miriade di gruppi, il più importante dei quali è attualmente Daech.
Così, le aspirazioni della rivoluzione siriana sono state schiacciate tra questi due poli contro-rivoluzionari – da un lato, il regime e, dall’altro, fondamentalisti islamici fanatici. Anche là, però, il potenziale continua a esistere, con decine di migliaia di persone, soprattutto giovani, che si oppongono al regime in una prospettiva progressista. Il regime ha arrestato migliaia di questi giovani progressisti che organizzavano la sollevazione nella sua prima fase, mentre rilasciavano in contemporanea jihadisti messi in prigione. Lo stesso regime siriano ha incoraggiato in tutti i modi il sorgere e il radicarsi della tendenza fondamentalista islamica dura in seno all’opposizione. Questo fa il gioco del regime, come la radicalizzazione islamista fra i palestinesi fa il gioco dell’estrema destra israeliana. Entrambi fanno il proprio gioco incoraggiando i loro “nemici preferiti”.
Quale parte sta avendo la meglio attualmente in questo conflitto?
Due anni fa, Assad era sull’orlo della sconfitta, ed è stato allora che l’Iran ha deciso di andare oltre il sostegno logistico per intervenire massicciamente sul terreno, inviando truppe per rimettere in sella il regime. Per ragioni di lingua, sono state inviate truppe arabe provenienti da satelliti confessionali dell’Iran: Hezbollah libanese e Asaib Ahl al-Haq (Lega dei giusti, o dei virtuosi) dell’Iraq. Queste forze hanno aiutato il regime a lanciare una controffensiva riuscita e a riguadagnare gran parte del terreno perso in precedenza. Il fenomeno Daech impone però condizionamenti all’Iran e ai suoi alleati, che devono ora battersi su due fronti, sia in Siria sia in Iraq. Oltre a combattere l’opposizione maggioritaria siriana, devono ora contenere l’espansione di Daech in Iraq, il principale bastione dell’influenza iraniana nell’area. Lo sparpagliamento delle forze sostenute dall’Iran è sfociato nella comparsa di sintomi di stanchezza in seno al regime siriano, la cui base militare confessionale è relativamente limitata.
Così, malgrado ogni apparenza, il regime siriano incontra di nuovo difficoltà, ma evoca più che mai l’argomento della lotta al terrorismo per allontanare l’eventualità di un accresciuto appoggio occidentale all’opposizione maggioritaria. Il regime siriano, infatti, è in competizione con quest’opposizione maggioritaria, per cercare di convincere le potenze occidentali che esso è il migliore alleato nella guerra contro il terrorismo! È qui che si possono cogliere le similitudini tra il regime siriano, quello egiziano e il governo israeliano. Parlano tutti lo stesso linguaggio: quello della guerra contro il terrorismo, ed è in nome di questa guerra che pretendono carta bianca per ogni sorta di violenze. Stanno dicendo tutti a Washington: “Siamo i vostri migliori amici, è nel vostro interesse appoggiarci!”.
L’atteggiamento degli Stati Uniti verso Daechnon è piuttosto quello di incanalare che non sradicare questa corrente?
La scelta dei termini da lei usati è esatta. Finora è prevalso l’incanalamento: gli Stati Uniti sono intervenuti per frenare il progredire di Daech, ma non vogliono andare oltre l’incanalamento prima di aver raggiunto un obiettivo politico. Washington considera la comparsa di Daech una leva per sbarazzarsi di Maliki e ridimensionare l’influenza iraniana in Iraq. In effetti, Maliki era diventato sempre più dipendente dall’Iran, e le tensioni tra lui e Washington erano ininterrottamente aumentate dopo la fine della presenza militare diretta degli Stati Uniti in Iraq, nel 2011. I rapporti di Maliki con Washington si erano talmente logorati che si è recato a Mosca per trattare forniture di armi. Come per caso, Sissi sta per fare la stessa cosa, in gesto di protesta contro la reticenza statunitense a sostenerlo appieno. È visibile, dunque, l’ampiezza del terreno che Washington sta perdendo nell’area. Nonostante questo, con Daech in Iraq, lo Stato iracheno ha bisogno degli Stati Uniti: Dipende dal sostegno militare statunitense poiché i suo esercito era stato ricostruito con armamento statunitense dopo l’invasione del 2003, e buona parte di questi armamenti è finita nelle mani di Daech. Gli Stati Uniti hanno dettato condizioni per un appoggio accresciuto allo Stato irakeno, a partire dall’allontanamento di Maliki. Hanno ottenuto quel che volevano: Maliki si è ritirato ed è stato sostituito da Haider al-Abadi.
Ora Washington sta cercando di ripetere quel che ha fatto nel 2006 dopo aver perso terreno di fronte ad Al-Qaida. All’epoca, gli Stati Uniti hanno assoldato le stesse tribù sunnite fra le quali Al-Qaida si stava sviluppando. Washington è anche riuscito a trasformare le tribù sunnite in alleate degli Stati Uniti, arrivando così a sradicare praticamente Al-Qaida in Irak. Ora assistiamo al ripetersi della stessa strategia: le tribù sunnite sono state completamente emarginate dal settarismo confessionale di Maliki, sorretto dall’Iran. La rabbia che si è sviluppata al loro interno è tale che si sono allineate con Daech quando questo movimento è comparso. In realtà, Daech non è stato il solo a impossessarsi di ampie parti dell’Iraq. Si trattava piuttosto dell’alleanza tra Daech e forze arabe sunnite: alcune tribù, residui del Baas di Saddam Hussein ed altri. È quanto era già accaduto in Iraq dopo il massacro a Falluja nel 2004, quando i sunniti sono stati talmente messi ai margini che hanno lasciato entrare Al-Qaida, appoggiato finché Washington non cambiasse strategia. Ora siamo in presenza del ripetersi dello stesso scenario: questa volta le tribù sunnite hanno fatto un’apertura a Daech e Washington tenta di rinnovellare la strategia di alleanza con loro. Per questo gli Stati Uniti avevano bisogno di sbarazzarsi di Maliki. Ora che questo è fatto, vedremo come si svilupperà la prossima tappa.
[1] Intervista a cura di Brian Ashley. Gilbert Achcar, di origine libanese, attualmente è docente presso la Scuola di studi orientali e africani (School of Oriental and African Studies, SOAS) dell’Università di Londra. Fra i suoi scritti: Scontro tra barbarie, tradotto in 13 lingue [ed. italiana Alegre, Roma, 2006]; La guerra dei 33 giorni, in collaborazione con Michel Warschawski, ed. Alegre, 2007; Potere pericoloso. Il Medio Oriente e la politica estera statunitense, in collaborazione con Noam Chomsky, ed. Palomar di Alternative,2007; Gli Arabi e la Shoah…; più di recente: Le peuple veut. Une exploration radicale du soulevement arabe (Sindbad, Actes sud, Arles, 2013. Questa intervista è stata fatta a fine agosto 2014 per la pubblicazione sudafricana Amandla! (reperibile in: http://alencontre.org/moyenorient/). La riprendo dal numero 607/608 di “Inprecor”, agosto settembre 2014, che comprende anche altri due articoli su Gaza di Michel Warschawski e Julien Salingue, che speriamo di poter tradurre presto e pubblicare sul sito.
[2] Cioè l’annuncio ufficiale della composizione del governo d’unità,agli inizi di giugno 2014.
[3] Ricordiamo che Nethanyahu ha pubblicamente e ripetutamente assimilato Hamas e “Stato islamico” (Daech).
[4 ]È il nome arabo della banda armata dei fondamentalisti islamici fanatici nota con il nome di “Stato islamico in Iraq e in Oriente”, che da quando controlla una parte del territorio iracheno si fa chiamare “Stato islamico”.