Mentre i media di tutto il mondo celebravano il 25° anniversario della caduta del Muro, pochi si sono soffermati su un altro e ben più attuale anniversario di questo autunno, quello del 6° anno della crisi economica mondiale. Per un sistema capitalistico globale che ormai da anni annaspa in un vicolo cieco economico è evidentemente più conveniente celebrare i “bei vecchi tempi” in cui molti andavano ripetendo con baldanza che la storia era ormai finita, piuttosto che soffermarsi sullo spettacolo dei propri odierni fallimenti.
Giusto un anno fa su Crisi Globale abbiamo pubblicato uno speciale sullo stato dell’economia mondiale intitolato “Danzando sull’orlo dell’abisso” e diviso in tre puntate (che potete leggere qui: uno, due, tre – per un’analisi delle radici della crisi si veda anche “A che punto è la crisi economica?” di Ilario Salucci). Allora il ritornello imperante nei grandi media era quello, già sentito a più riprese nel corso di questa crisi, della “luce in fondo al tunnel” e di una crisi che stava ormai finendo. La nostra analisi dell’anno scorso sosteneva invece che “l’economia mondiale continua a muoversi sull’orlo dell’abisso e per il momento l’unica alternativa al disastro, sempre incombente, sembra essere quella di una stagnazione a lungo termine che scarichi per intero i suoi costi sui lavoratori”. I fatti degli ultimi dodici mesi ci hanno dato ragione: la stagnazione è ancora il leitmotiv dell’economia globale, che continua a danzare sull’orlo dell’abisso scaricando sempre più i suoi costi sui lavoratori. Qui di seguito facciamo a un anno di distanza un punto della situazione, partendo dall’Unione Europea e dagli Usa, fino a toccare il tema dello spettro della deflazione a livello mondiale. Nella seconda parte ci occuperemo di quantitative easing, di shadow banking, della bolla cinese e del fallimento dell’Abenomics in Giappone.
La Germania in difficoltà
Il segno più preoccupante per l’economia europea è arrivato quest’estate dalla Germania, il cui modello in questi ultimi anni ci era stato vantato come prova del fatto che uscire dalla crisi è possibile. L’economia tedesca, nonostante le leggende fatte circolare, ha però sempre avuto numerosi punti fragili, a cominciare dal ruolo preponderante delle esportazioni, conseguito grazie a una stretta sui salari e che ora, in condizioni di rallentamento dell’economia globale, sta mostrando tutti i suoi limiti. La Germania è il nucleo portante dell’economia europea, visto che il suo Pil da solo è responsabile del 30% di quello totale dell’Eurozona, come spiega il “Financial Times”. Le dimensioni globali dell’economia tedesca sono dimostrate dal fatto che le sue esportazioni annue, pari a 1,1 trilioni di euro, pongono il paese al terzo posto a livello globale dopo Cina e Usa. Lo sbilanciamento del paese verso le esportazioni è molto forte, visto che queste ultime sono responsabili del 50% del Pil, rispetto a circa il 30% in paesi come la Francia, il Regno Unito e l’Italia. L’economia tedesca aveva già registrato un inaspettato calo dello 0,2% del Pil nel secondo trimestre di quest’anno e il paese è sfuggito per un pelo all’entrata ufficiale in recessione nel terzo trimestre, durante il quale l’economia è cresciuta di un misero 0,1%. Dopo sei anni di crisi mondiale, alla fine di quest’anno il Pil della Germania dovrebbe essere superiore di solo il 10% a quello precedente alla crisi: l’economia tedesca è cioè cresciuta più di quella di altri paesi europei, ancora sotto i livelli del 2008, ma in modo anemico e inferiore a un’altra economia che ha registrato una crescita stentata, quella degli Usa (+13% in sei anni). La sua crescita media annua negli ultimi sei anni è stata di solo l’1,1%, cifra che la pone al tredicesimo posto tra i 18 paesi dell’Eurozona. Questa lenta crescita rende difficile a Berlino mettere in atto programmi sia sul fronte della crescita dei consumi, sia degli investimenti nelle infrastrutture. Gli investimenti lordi in capitale fisso, che nel 2008 superavano il 22% del Pil, oggi sono scesi al 17%, molto meno della media mondiale del 21%. Per porre rimedio a questo gap Berlino dovrebbe spendere circa 80 miliardi di euro all’anno, ma il governo fino a oggi ha varato solo un piano di 10 miliardi per il triennio 2014-2017. Anche il settore privato investe poco in patria (il 6,2% del Pil) e preferisce concentrarsi sugli investimenti esteri, un problema che affligge un altro paese, il Giappone. I risultati di questa situazione generale si sono fatti sentire questa estate, quando tre dati uno di fila all’altro hanno tracciato un quadro estremamente preoccupante per l’economia tedesca: ad agosto la produzione industriale è arretrata del 4,0 rispetto al mese precedente, gli ordinativi sono calati del 5,7% (il calo più forte dal picco della crisi a inizio 2009) e le esportazioni addirittura del 5,8%. Particolarmente preoccupante il calo dell’8,8% nella produzione dei beni di investimento, come i macchinari, un segno del fatto che gli imprenditori tedeschi vedono nero per il futuro. Le imprese tedesche, ivi impresi colossi come Siemens e Volkswagen, stanno già reagendo a questa situazione tagliando i costi. Il risultato è che si registrano tagli alla forza lavoro o ferie forzate, con la conseguenza che la disoccupazione per ora è solo in lieve crescita ma, come fa notare un esperto, il rallentamento economico di norma ci mette qualche mese per riflettersi in modo chiaro sul livello della disoccupazione. Non meraviglia quindi che in Germania si registri un forte aumento degli scioperi, di cui sono una testimonianza le recenti lunghe azioni sindacali in grandi aziende come Lufthansa, Deutsche Bahn e Amazon, tutte mirate ad aumenti dei salari in una situazione in cui i redditi dei nuclei familiari sono in termini reali fermi dal 2006. Già nel 2013 sono state 1.384 le imprese tedesche in cui si sono svolti scioperi, il numero più alto negli ultimi due decenni. A questa situazione il governo di Berlino sta reagendo con la proposta di limitare il diritto di sciopero, soprattutto per quanto riguarda i piccoli sindacati e i sindacati di categoria.
L’Ue non riesce a uscire dalla crisi
Se questa è la situazione di quella che fino a poco tempo fa era la locomotiva dell’Ue, le cose non vanno certo meglio negli altri paesi europei. La Grecia è tornata recentemente all’onore delle cronache per i rinnovati timori che la sua crisi torni ad avere effetti destabilizzanti su tutto il continente, e lo stesso vale per il Portogallo dopo il crollo del Banco Espirito. Anche la Spagna, della quale fino a poco tempo fa si diceva che stava uscendo con successo dalla crisi, dà preoccupanti nuovi segni di difficoltà. La crescita sta rallentando, mentre ormai è da cinque mesi che i prezzi al consumo stanno calando e il paese sprofonda sempre più nella deflazione, che è al -1%. Ciò rende ancora più pesante l’onere dell’enorme debito totale (pubblico più privato) del paese, che rimane circa tre volte maggiore rispetto al Pil: se ci fosse inflazione almeno il debito si svaluterebbe, mentre nell’attuale contesto deflazionistico accade esattamente il contrario. La disoccupazione rimane altissima, al 23,7%, così come in generale permane una disastrosa situazione sociale. Secondo i dati della Caritas spagnola sono oltre 700.000 i nuclei famigliari che non dispongono di alcun reddito da lavoro e allo stesso tempo non ricevono sussidi statali. Più in particolare, in Spagna ci sono 2,4 milioni di persone disoccupate da più di due anni, termine dopo il quale non vengono più corrisposte le indennità di disoccupazione. La stessa Caritas nel 2007 forniva assistenza a 350.000 persone in difficoltà, numero che oggi è balzato a 1 milione. Gli spagnoli che soffrono di “esclusione sociale”, cioè che non hanno accesso ad almeno alcuni dei diritti e servizi fondamentali dati per scontati per il resto della società, sono quasi 12 milioni. E’ in aumento anche il numero dei cittadini che sono sotto la soglia di povertà pur avendo un’occupazione. L’Italia continua a sprofondare nella crisi, con il suo Pil che rimane inferiore del 10% rispetto a sette anni fa e secondo le stime continuerà a calare sia quest’anno sia nel 2015. Il “Wall Street Journal” del 3 novembre ha dedicato un articolo al nostro paese in cui spiega che perfino un’eventuale politica di “quantitative easing” a tutto campo da parte della Bce (sulla quale torniamo sotto maggiormente nei dettagli) potrà fare poco per l’Italia, che è un paese tra le altre cose “malato di banche”. Nella penisola i prestiti bancari sono infatti pari al 53% del Pil, un livello molto più alto di quello di paesi come la Francia e la Germania. I prestiti delle banche rappresentano poi il 40% delle passività finanziarie nel paese, un dato di gran lunga più alto del 15% negli Usa e del 23% in Francia, per citare solo due esempi. Ma il dato più preoccupante è quello dei 320 miliardi di euro di crediti inesigibili, pari al 16% del totale. Come conclude il WSJ, sull’Italia pesa tra le altre cose un modello economico “dominato da piccole imprese a controllo familiare con una forte leva finanziaria, molte delle quali sono così indebitate che non posso sostenere il costo di nuovi finanziamenti”.
Intanto su tutta l’Ue, più ancora che in altre aree del mondo con un problema analogo, pesa lo spettro della deflazione, sulle cui dimensioni mondiali torniamo più sotto. I prezzi al consumo hanno toccato il loro punto più basso degli ultimi cinque anni e il loro ritmo di crescita è dello 0,3% annuo, molto al di sotto dall’obiettivo del 2% fissato dalla Bce e raccomandato da tutti i testi sacri neoliberali. Sono già cinque su 18 i paesi dell’Eurozona che sono in deflazione, tra questi, oltre alla già menzionata Spagna, ci sono anche anche l’Italia (-1,6%), che entra in deflazione per la prima volta dal 1959, il Belgio (-1,5%) e la Francia (-0,4%). In questo contesto deflattivo le imprese, non potendo mettere in conto futuri aumenti dei prezzi preservano i loro margini di profitto tagliando posti di lavoro e investimenti. Così facendo vanno a ridurre i redditi dei lavoratori e di conseguenza i loro consumi, alimentando così ulteriormente la deflazione in quella che non a caso viene chiamata “spirale deflattiva”. Tutto questo mentre a sei anni dall’inizio della crisi il Pil dell’Eurozona rimane inferiore a quello di prima della crisi. Le cose non vanno meglio al di fuori nelle altre aree d’Europa. L’intera Europa Centro-Orientale, dipendente dalle esportazioni verso l’Ue, è in rallentamento, mentre laRussia è sull’orlo della recessione, con il rischio di precipitare contemporaneamente nel caos finanziario dopo la svalutazione del 30% del rublo, e l’Ucraina è sempre più vicina al default (si veda: http://thenextrecession.wordpress.com/2014/11/10/from-poroshenko-to-putin-its-all-downhill/).
L’anemica ripresa Usa
Su questo sfondo l’economia degli Usa sembra essere in decisa ripresa, soprattutto dopo gli ultimi dati che vedono nel terzo trimestre una crescita anno su anno del 3,5% (comunque in calo rispetto al 4,6% del trimestre precedente).Secondo il “Financial Times”, tuttavia, se si analizzano i dettagli il quadro è quello di una crescita che riesce solo a trascinarsi a un livello immutato, oberata dalla zavorra del clima recessivo nell’Eurozona e dal rallentamento dei mercati emergenti, senza riuscire ad accelerare. Insomma, la crescita dell’economia Usa non è sufficiente per fare del paese il motore dell’economia mondiale. Gli ultimi dati infatti dipingono il quadro di un progresso trainato essenzialmente dalle esportazioni e dalla spesa militare, mentre i fattori che dovrebbero essere alla base di una crescita “reale”, come i consumi e gli investimenti, incidono di meno, in particolare i secondi che sono in forte frenata. La fiacca crescita dei consumi è un segno del fatto che per la grande maggioranza degli americani la ripresa economica non si è tradotta in aumenti salariali. Non a caso anche l’inflazione, all’1,5%, rimane al di sotto degli obiettivi della Fed. Come osserva l’economista Michael Roberts, “le imprese Usa hanno sfruttato la netta ripresa dei profitti rispetto alla fine del 2008 per accumulare liquidità all’estero, oppure per pagare maggiori dividendi agli azionisti o per acquistare proprie azioni al fine di gonfiare il valore che hanno sul mercato. Gli investimenti in nuove tecnologie o nuovi impianti che generano posti di lavoro sono venuti per ultimi”.
Gli esorcismi di Draghi
A essere in forte difficoltà è anche la politica monetaria della Bce. Mario Draghi ha promesso di aumentare il bilancio della Banca Centrale portandolo dall’attuale livello di 2 trilioni di euro a 3 trilioni, con l’obiettivo di fare salire l’inflazione e di indebolire l’euro al fine di favorire un incremento delle esportazioni. Questo aumento del 50% rimane comunque di gran lunga inferiore a quelli applicati dalle banche centrali di altre grandi economie: la Banca d’Inghilterra ha aumentato il proprio bilancio del 70%, la Federal Reserve del 100% e la Banca del Giappone ancora di più. L’annuncio di Draghi è venuto dopo che nel corso dell’estate erano stati effettuati due ulteriori tagli dei tassi d’interesse, che in termini reali sono scesi a zero come in molte delle altre grandi economie mondiali, ed era stato varato un nuovo piano, denominato TLTRO, per immettere altri 400 miliardi di euro nell’economia. In particolare, il secondo inatteso taglio dei tassi a settembre è stato un segno di come il primo, effettuato solo tre mesi prima, si sia rivelato del tutto inefficiente. Draghi si sta avvicinando sempre di più a una politica di “quantitative easing classico” analoga a quella messa in atto dagli Usa e appena portata a termine, ma senza fare il passo decisivo dell’acquisto di titoli di stato dei paesi Ue, al quale è contraria la Germania. Per ora il piano della Bce prevede l’acquisto di titoli derivati come gli ABS (asset backed securities) e di covered bonds (obbligazioni bancarie garantite da mutui), immettendo così un’ulteriore massa di liquidità nell’Eurozona. Tuttavia la prima asta a settembre ha dato risultati di gran lunga inferiori a quanto preventivato e la maggior parte degli osservatori ritiene che questa strategia della Banca Centrale sia troppo debole per conseguire gli obiettivi fissati. Secondo indiscrezioni riprese dalla Reuters, Draghi si preparerebbe a passare quindi tra breve all’acquisto di corporate bonds, cioè obbligazioni emesse da grandi aziende private. Si tratterebbe di un importante salto di qualità, vista l’ampiezza del loro mercato, ma anche in questo caso c’è chi dubita degli effetti, visto che le grandi aziende non hanno finora incontrato problemi ad aumentare il loro livello di debito. Secondo quanto ha scritto Satyajit Das su “Economonitor”, il sito di Nouriel Roubini, “la realtà è che le mosse della Bce difficilmente avranno effetti consistenti sull’economia reale. Le misure adottate daranno sostegno ai prezzi degli attivi finanziari, ma sono troppo limitate e vengono troppo tardi per dare un solido impulso alla domanda”. Secondo l’esperto, poi, la politica dell’Euro debole probabilmente non darà i frutti sperati, visto che la maggior parte degli scambi in euro avvengono all’interno della stessa eurozona, mentre la crescita debole nei principali mercati delle esportazioni europee, come gli Usa, lasciano poco spazio ai potenziali benefici. Data la riduzione dei livelli di indebitamento delle aziende, dei nuclei familiari, delle banche e dei governi, la politica monetaria difficilmente riuscirà a dare un impulso significativo all’inflazione. Certo, in teoria un euro debole, rendendo più alti i prezzi delle merci importate, dovrebbe fare salire l’inflazione, ma in presenza dell’attuale forte erosione dei redditi dei nuclei familiari il risultato sarà piuttosto quello di portare a una limitazione dei consumi, e non all’inflazione. Secondo Das poi le iniziative della Bce non affrontano il problema essenziale dell’eccessivo indebitamento, e “mantenere o addirittura aumentare i livelli di debito è una soluzione stravagante al problema di un debito eccessivo, non troppo scarso”, che è uno degli elementi alla base della crisi europea. Altre probabili mosse, vendute da alcuni ideologi del sistema capitalista come una “uscita dall’austerità” – stiamo parlando della dilazione dei termini per il conseguimento dell’obiettivo di un deficit sotto il 3% o l’esclusione dai calcoli del deficit degli investimenti mirati alla crescita – sono solo puri artifici contabili, come altri che in passato non hanno fatto che aggravare la crisi spingendo a chiudere gli occhi sulla realtà. L’opinione di Das è che quello di Draghi sia un ennesimo bluff, uno scongiuro nell’attesa che la crescita piova in qualche modo dal cielo. Nel 2012 la bufera sui mercati è stata placata dalla sua dichiarazione che la Bce avrebbe “fatto tutto ciò che è necessario” e da allora Draghi ha proseguito la propria politica di scongiuri mirati esclusivamente a fare leva sul “sentiment”, osserva ironicamente Das: “Nell’ottobre 2013 era pronto a prendere in considerazione tutti gli strumenti disponibili. Nel novembre 2013 c’era un’intera gamma di strumenti che avrebbe potuto attivare se necessario. Nel dicembre 2013, per fugare ogni dubbio, ha ripetuto che era pronto a prendere in considerazione tutti gli strumenti disponibili. Nel gennaio 2014 ha detto che, se necessario, avrebbe adottato mosse decisive. Nel febbraio e nel marzo 2014 ha promesso che avrebbe deciso ulteriori mosse decisive se necessario. Nell’aprile 2014 il presidente della Bce si è impegnato ad agire rapidamente se necessario. Nel maggio 2014 ha ripetuto che, se necessario, avrebbe agito con rapidità. Nel giugno 2014 ha detto ai giornalisti: ‘Abbiamo finito? La risposta è no’. Quindi ci si può aspettare che nei prossimi mesi il Presidente della Bce non farà che ripetere queste formulazioni. Così facendo non fa altro che assomigliare sempre di più al Mago di Oz: ‘non ingannatevi, ho grandi poteri, poteri che vanno oltre la vostra immaginazione! Poteri tali da farvi tremare'”. Draghi continua a fare questi esorcismi per prendere tempo prima di giocare l’ultima carta possibile, quella di un “quantitative easing” (QE) su larga scala. Con le sue ultime dichiarazioni di ieri ha infine affermato a chiare lettere che la Bce non esclude l’acquisto di titoli di stato. Tuttavia le stesse simulazioni della Bce, riportate dalla Frankfurter Allgemeine, dicono che l’impatto di una tale operazione sulla crescita e sull’inflazione sarà limitato, tanto che un programma di QE da 1 trilione farebbe aumentare l’inflazione di solo lo 0,2% portandola allo 0,8%.
Lo spettro della deflazione
Uno dei dogmi del neoliberalismo è quello di un’inflazione al 2% come segno di un’economia “sana”. Ma nonostante la massa enorme di soldi stampata negli ultimi sei anni, molti paesi sono in deflazione, in particolare in Europa come abbiamo visto sopra, mentre la terza economia mondiale, il Giappone, sta lottando a fatica e con scarsi successi per non ricadervi di nuovo dopo il “ventennio perduto” iniziato negli anni novanta, e gli Usa, come abbiamo visto, rimangono ad appena l’1,5% nonostante la valanga senza precedenti di denaro immessa dalla Fed nell’economia. Perfino la Cina ha un’inflazione inferiore al 2%. Ma perché la deflazione rappresenta un problema così grande? Come spiega l'”Economist” del 25 ottobre, quando si prevede che i soldi guadagnati domani varranno meno di quelli di oggi logicamente gli investimenti calano, e quando si prevede che le merci acquistate domani saranno meno costose di quelle acquistabili oggi i consumi diminuiscono. La conseguenza di tutto questo è una stagnazione, se non addirittura una diminuzione, di salari, redditi e gettito fiscale che rende più difficile ai nuclei familiari, alle imprese e agli stati il rimborso dei propri debiti. E’ quello che sta avvenendo adesso in molti paesi, tra l’altro in un momento in cui le banche nazionali non possono più utilizzare il tradizionale strumento per regolare l’inflazione: i tassi, che di norma vengono diminuiti quando si vuole stimolare l’inflazione, sono già a zero in termini reali. Il fenomeno viene alimentato tra le altre cose in questo momento anche dal calo dei prezzi del petrolio, che però non è un fattore casuale, bensì un’ulteriore segno di crisi. visto che in larga parte è dovuto a una diminuzione della domanda di materie prime conseguente alla diminuzione dell’attività economica.
La deflazione è un fenomeno che emerge quando la domanda rimane per lungo tempo al di sotto della capacità dell’economia di fornire merci e servizi. Ciò porta la aziende a tagliare prezzi e salari, con il risultato che la domanda si indebolisce ulteriormente. Il debito, attualmente ovunque ad altissimi livelli, aggrava la spirale perché con il cadere dei prezzi e dei redditi, il suo valore reale aumenta costringendo i soggetti indebitati a tagliare la spesa per rimborsare il proprio debito, peggiorando così ulteriormente il problema della deflazione. Nell’ambito dei rapporti economici all’interno dell’Unione Europea la deflazione aggrava i già seri disequilibri interni. I paesi della cosiddetta periferia (come Italia, Spagna e Grecia, per esempio) si sforzano di aumentare la propria competitività rispetto al nucleo dell’Unione e in particolare alla Germania. Poiché non hanno una moneta nazionale che è possibile svalutare, devono comprimere i prezzi e i salari. Quindi se in Germania l’inflazione è allo 0,8%, nei paesi periferici, secondo la logica capitalista, deve essere inferiore a zero. Inoltre, in queste condizioni si verifica immancabilmente un aumento dell’indice del debito statale rispetto al Pil, che molti paesi della periferia stanno disperatamente cercando di tagliare. Il problema del debito tuttavia non riguarda solo i paesi della periferia europea, bensì l’intera economia mondiale, visto che secondo gli ultimi dati dopo la crisi del 2008-2009 il debito totale nel mondo sviluppato (privato più pubblico) ha toccato il 272% del Pil. Per ora il debito pubblico è sostenibile perché gli interessi che i governi devono pagare sono bassi. Ma se la deflazione dovesse perdurare e il Pil stagnare, come appare probabile, gli investitori chiederanno interessi più alti, il debito subirà una spirale al rialzo e automaticamente aumenteranno i rischi di default per i paesi maggiormente esposti.
L’inefficacia del QE
Il “Quantitave Easing” (QE) è il programma varato nel 2010 dalla Fed in seguito alla crisi con il quale la banca centrale degli Stati Uniti effettua massicci acquisti di titoli a lungo termine, immettendo così un’enorme massa di liquidità sul mercato mirata ad aumentare la base monetaria. Il nome del programma non è casuale: l’idea è quella che dopo un protratto periodo di tassi a zero che non è riuscito a riportare l’economia a una crescita sostenuta, gli ulteriori stimoli all’economia devono forzatamente essere di natura “quantitativa”, cioè consistenti nell’iniezione di grandi masse di liquidità nel settore finanziario. Secondo il dogma neoliberale, infatti, è sempre possibile tenere in equilibrio l’economia e ottenere una crescita sostenuta tramite l’effettuazione di interventi sulla massa monetaria da parte delle banche centrali. E questo è stato fatto abbondantemente: gli Usa hanno portato la base monetaria dal 3% al 15% del loro Pil, quella del Giappone addirittura a oltre il 30%.
Il terzo round di QE ha avuto inizio nel settembre del 2012 e prevedeva l’acquisto ogni mese di 85 miliardi di dollari di attivi fino a quando non ci fosse stato un consistente miglioramento del mercato del lavoro. Nel dicembre del 2013 la Fed ha deciso di procedere a un “tapering”, cioè a una progressiva diminuzione degli acquisti di titoli nell’ambito del QE, cessati poi completamente il mese scorso. Ma la Fed non è stata l’unica grande banca centrale a mettere in atto un programma di QE nel corso della presente crisi. Lo hanno fatto anche la Banca d’Inghilterra, lo sta facendo da un anno in modo ancora più massiccio il Giappone, mentre l’Ue, come abbiamo visto, adotta politiche di natura assimilabile e si trova ad affrontare il dilemma sull’opportunità o meno di procedere a un programma di QE di “tipo classico”. Anche la Cina ha immesso enormi quantità di liquidità sul proprio mercato, ma ha scelto di farlo principalmente attraverso investimenti in infrastrutture e iniezioni alle banche. Si tratta nel complesso di interventi che per i loro volumi non hanno precedenti nella storia finanziaria mondiale, così come non ha precedenti storici un periodo così prolungato di tassi a zero nelle principali economie. Nonostante questo però gli effetti sono stati a dire poco scarsi, se si eccettua quello non indifferente di avere fermato (ma non escluso) il pericolo di uno scivolamento del sistema capitalista globale in un caos dagli effetti catastrofici. La crescita economica è stata limitata o nulla in quasi tutti i paesi che hanno adottato una politica di QE, la crescita dell’occupazione o molto bassa oppure dovuta a un incremento dei posti di lavoro precari e sottoretribuiti, mentre gli investimenti sono rimasti sostanzialmente piatti e, invece di una crescita dell’inflazione che sarebbe logicamente dovuta essere la conseguenza dell’enorme aumento della liquidità in circolazione, è emerso il grande problema della deflazione. Anche là dove c’è stata una ripresa, vale a dire negli Stati Uniti, i risultati sono blandi, visto che i ritmi di crescita sono oggi pari a solo la metà dei già non entusiasmanti ritmi di prima della crisi. E come osserva l’economista marxista Michael Roberts, il gap tra il livello del Pil pro capite che si sarebbe conseguito se la crescita fosse proseguita agli stessi ritmi di prima della crisi e quello che ha oggi si sta ampliando, e non restringendo.
Ma allora dove è andato a finire tutto il denaro del QE? La risposta di Roberts è che “è finito nel sistema bancario, per puntellare i bilanci delle banche e riportarle al profitto. E ha generato una enorme bolla negli attivi finanziari – infatti i prezzi delle obbligazioni statali e dei corporate bonds nonché, soprattutto, quelli delle azioni, hanno registrato un rally di oltre 73 mesi fino a livelli record”. Una tendenza che non sembra destinata a cessare visto che alla fuoriuscita dal QE da parte degli Usa fanno da contrappeso, sui mercati mondiali, l’avvio e l’intensificazione del QE in Giappone e il probabile salto di qualità della Ue nelle proprie politiche monetarie. Come rileva Bloomberg, infatti, il Giappone nel 2014 aggiungerà al proprio bilancio, aumentando il programma di QE già in corso, altri 730 miliardi di dollari, e pertanto già l’anno prossimo la liquidità aggregata fornita ogni mese dalle tre principali banche centrali del mondo (Fed, Bce e BoJ) tornerà al picco di quest’anno, di poco superiore a 150 miliardi di dollari al mese. Nel complesso il volume degli attivi delle banche centrali è più che raddoppiato dal 2007 fino a raggiungere nel 2013 l’importo senza precedenti di 20 trilioni di dollari (oltre il 30% del Pil mondiale). Nonostante questi interventi di dimensioni gigantesche, la maggior parte delle economie rimane in stagnazione o in crescita anemica, oltre tutto con un peggioramento rispetto a inizio 2014. La prospettiva di un’uscita della crisi appare quindi irreale, e la conseguenza è, come scrive sempre Roberts, “la disoccupazione per milioni di persone, unitamente a una stagnazione dei redditi reali in molte delle principali economie. In più vi è il rischio, adesso che la Fed ha posto fine al proprio programma di QE ed è orientata a un aumento dei tassi d’interesse nel corso del 2015, che anche il boom finanziario subisca un crollo, causando un calo degli utili e incrementando così il rischio di un’ulteriore crisi”. Di parere analogo è anche il “Financial Times”, secondo cui il QE ha solo mascherato in qualche modo le gravi debolezze dell’economia mondiale, rendendo i mercati eccessivamente dipendenti dal sostegno delle banche centrali e “creando così le condizioni per la prossima crisi”. Secondo il quotidiano finanziario, dato che i tassi d’interesse sono stati per così tempo a livelli reali pari a zero, anche solo un loro lieve aumento, come quello messo in conto dalla Fed, potrebbe avere impatti di gran lunga più problematici che in passato. Inoltre il QE ha alterato alcune coordinate del sistema finanziario, facendo sì per esempio che ora siano le stesse banche centrali a costituire il mercato, essendo diventate i principali prestatori e i principali acquirenti di attivi.
Lo shadow-banking in crescita esponenziale
Non è un caso che in questo contesto stia proseguendo anche nel 2014 la crescita esponenziale di una bolla alla quale avevamo già dedicato alcune analisi in “Crisi Globale”, quella dello “shadow banking”http://crisiglobale.wordpress.com/tag/shadow-banking/, cioè il settore della finanza-ombra costituito da soggetti (spesso le stesse banche per interposta persona) che sfuggono alle regolamentazioni a cui è sottoposto il sistema bancario. Come tale, il settore è fortemente esposto a improvvisi terremoti finanziari e privo di strumenti adeguati per arginarne gli effetti di contagio. Come scrive “Business Week”, il settore quest’anno è cresciuto nel 2013 di 5 trilioni di dollari fino a raggiungere il volume astronomico di 75 trilioni, spinto da una parte da prestatori che cercano di sfuggire alla regolamentazione e dall’altra da investitori che hanno fame di rendimenti più alti in un momento in cui i tassi d’interesse sono estremamente bassi. Ormai le dimensioni del settore dello shadow-banking sono pari al 120% del Pil globale (lo stesso picco che aveva toccato all’apice della bolla finanziaria mondiale nel 2007) e a un quarto del totale degli attivi finanziari, mentre la quota delle banche è in discesa, rileva un rapporto del Financial Stability Board (FSB). Gli Usa rimangono il principale centro delle attività dello shadow-banking, ma si sta assistendo a una diminuzione della loro quota e a un aumento di quella di altri paesi, in particolare della Cina, diventata ormai il terzo centro mondiale del settore dopo Usa e Regno Unito. Il FSB individua poi all’interno del settore dello shadow-banking un nucleo di operatori “a rischio maggiorato” il cui volume ammonta in totale a 35 trilioni di dollari, dei quali 14 attribuibili agli Usa, 4,7 al Regno Unito e 2,7 alla Cina. In Cina dal 2012 al 2013 il settore ha registrato un balzo di addirittura il 38%, mentre in altri sette paesi emergenti ha avuto una crescita di oltre il 10%. Quella dello shadow banking è solo uno dei tanti segni che la bolla finanziaria mondiale esiste e si trova a livelli analoghi a quelli degli anni che hanno preceduto immediatamente la crisi del 2008.
La bolla cinese sempre più gonfia
Fino a un paio di anni fa uno dei leitmotiv della propaganda capitalista, di fronte agli effetti disastrosi della crisi globale, era che l’economia mondiale sarebbe stata salvata dai Bric (Brasile, Russia, India, Cina) in forte crescita. Oggi nessuno più osa ripetere questo ritornello perché rischierebbe solo di farci una magra figura. Abbiamo già accennato più sopra la disastrosa situazione della Russia, ma il Brasile non naviga certo in acque migliori e si trova anch’esso sull’orlo della recessione. L’India da parte sua nel giro di pochi anni ha quasi dimezzato i suoi ritmi di crescita e rimane un paese sottoindustrializzato, incapace di risolvere il problema della povertà. Rimane la Cina, di gran lunga più importante come economia rispetto agli altri paesi del Bric. Il paese è però da tempo in frenata, dopo il lungo periodo dal 1993 al 2011 quando la crescita media del suo Pil è stata di circa il 10%, mentre ora si è ridotta al 7,3% e tende ulteriormente a diminuire, con tutte le grandi conseguenze che ciò ha per le esportazioni sia delle economie sviluppate (in particolare Germania e Australia) sia dei cosiddetti paesi emergenti (in particolare l’America Latina e i paesi dell’area Asia-Pacifico). La crescita registrata dalla Cina nel terzo trimestre del 2014 è la peggiore, in termini anno su anno, dal 1990, l’anno in cui il paese è stato colpito dalle sanzioni internazionali varate dopo Tienanmen. I problemi che affliggono l’economia cinese sono l’eccesso di capacità produttive, un livello dei debiti in continua e forte crescita e i rischi di un improvviso sgonfiamento della bolla immobiliare, che è stata uno dei più importanti fattori di crescita negli ultimi dieci anni. Riguardo a quest’ultima, è un indice del fatto che il governo di Pechino non riesca a controllare il fenomeno il dato secondo cui nei primi nove mesi di quest’anno le vendite di alloggi siano scese di oltre il 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, ma nonostante questo gli investimenti immobiliari abbiano continuato ad aumentare nello stesso periodo del 12,5%, aggravando ulteriormente il già preoccupante eccesso di offerta. Secondo dati di Goldman Sachs, infatti, circa un quinto degli alloggi urbani della Cina rimane vuoto e inutilizzato. Al settore immobiliare è legata una fetta importante dell’industria cinese, per esempio quella dell’acciaio e del cemento. Qui il problema dell’eccesso di capacità produttive si fa sentire ancora più che in altri settori: i prezzi sono in calo per il 32° mese consecutivo e sul mercato il prezzo dell’acciaio è sceso addirittura sotto quello dei cavoli, ma nonostante questo nei primi mesi di quest’anno la produzione di acciaio è aumentata del 5,4% rispetto allo stesso periodo del 2013. Come osserva lo studioso Michael Pettis, i costruttori e i produttori di acciaio continuano a sopravvivere grazie ai crediti e ad accumulare scorte invendute perché lo stato non può permettersi di effettuare licenziamenti in massa e di comprimere eccessivamente i consumi. Secondo i dati della Banca Mondiale, poi, l’accumulazione di credito in Cina tra il 2008 e il 2013, che è servita a porre frettolosamente rimedio in qualche modo agli effetti della crisi mondiale, trova pari solo in quella dell’Irlanda negli anni che hanno preceduto il crollo della sua economia. Il rapporto tra il debito totale (pubblico più privato) è passato in Cina dal 147% del Pil alla fine del 2008 al 251% a fine giugno di quest’anno e i crediti stanno ancora crescendo a un ritmo quasi doppio rispetto a quello del Pil, ma ogni renminbi preso in prestito genera una quantità di crescita sempre minore.
Pechino riesce solo ad arginare in qualche modo questa situazione, ma non a trovarvi una soluzione. Nonostante il divieto imposto alle amministrazioni locali di prendere in prestito denaro attraverso veicoli di finanziamento non trasparenti (a tutto titolo parte del settore dello shadow-banking citato sopra), queste ultime nei primi nove mesi di quest’anno hanno emesso debito per circa 280 miliardi di dollari, cioè quasi il 50% in più che in tutto il 2013. Queste condizioni di bolla del debito e di quantitative easing di fatto fanno sì che la Cina non possa fare affidamento, in caso di necessità, su politiche monetarie di allentamento, che non avrebbero altro effetto se non quello di aggravare ulteriormente la situazione. La situazione di oggi è una conseguenza della spirale perversa della bolla che ha fatto seguito all’iniezione di 570 miliardi di dollari nel 2009, mirata a salvare il paese dai rischi di recessione e dalle loro conseguenze sociali. Nonostante tutto questo debito e questi eccessi di finanziamento, la domanda continua a languire e il problema delle sovraccapacità produttive ad aumentare. E non è solo la domanda dei settori industriali a calare, ma, come rileva ancora una volta il “Financial Times”, è anche quella dei consumatori, al di là dei dati ufficiali volutamente distorti pubblicati da Pechino. Il governo cinese afferma di avere come obiettivo quello di un ribilanciamento dell’economia mediante un aumento dei consumi a scapito degli investimenti: in realtà i consumi stanno calando, e se si vuole evitare uno scoppio devastante della bolla dovranno diminuire anche gli investimenti. Un altro problema è quello del calo degli investimenti esteri diretti, che quest’anno sta subendo una brusca frenata pari a circa il 15% rispetto al 2013. Si tratta del primo calo di questa entità dal picco della crisi nel 2009. Pechino sta ricorrendo all’ultima arma di cui dispone, quella della costruzione di infrastrutture, che però non farà altro che attutire in qualche modo i colpi negativi che i ritmi di crescita subiranno inevitabilmente. Così riassume la situazione dell’economia cinese Jamil Anderlini sul “Financial Times”: “L’attuale decelerazione dell’economia sta avvenendo nonostante il credito stia crescendo a ritmi più rapidi del Pil, i governi locali continuino a prendere denaro in prestito in misura molto più alta di quanto possano permettersi e gli investimenti in ogni settore, dall’acciaio agli immobili, siano in rapida ascesa. Dato il calo della domanda, la crescita di tutti questi indicatori è insostenibile e a un certo punto dovranno calare, causando inevitabilmente un rallentamento ancora più drastico della crescita cinese”. Secondo il già citato Pettis, “più a lungo la crescita rimarrà al di sopra del 5% o 6% e più peggiorerà il problema del debito, aumentando i rischi che si renda necessario un aggiustamento molto spiacevole”. A tutto questo va aggiunto che la Cina, nonostante la forte crescita economica degli ultimi due decenni, non è un paese ricco: “secondo i dati della Banca Mondiale nel 2013 il suo Pil pro capite era di 6.807 dollari, un livello che la pone circa allo stesso livello dell’Iraq e del Sudafrica. Per un raffronto, il Pil pro capite degli Usa era di 53.143 dollari, quello della Corea del Sud di 25.977 dollari”, scrive il “New Yorker”. Tutto questo sta avvenendo in una situazione in cui si assiste a un aumento dell’attivismo sociale, dal “movimento degli ombrelli” a Hong Kong, fino al crescere delle mobilitazioni di una classe operaia sempre più matura e attiva che chiede, e spesso ottiene, aumenti salariali.
I fallimenti dell’Abenomics
A più di un anno e mezzo dal suo avvio, la cosiddetta “Abenomics”, cioè il massiccio programma di quantitative easing (in origine circa 600 miliardi all’anno, poi aumentato di recente di circa un terzo) messo in atto dal premier Shinzo Abe per rilanciare l’economia giapponese in stagnazione da due decenni, si sta dimostrando un fallimento. L’Abenomics era piaciuta molto, al suo lancio nella primavera del 2013, a quei settori della borghesia italiana contrari alle politiche di austerity fiscale (ma non certo a quelle di austerity che colpiscono direttamente i lavoratori) e che vogliono politiche di allentamento monetario in Europa accompagnate da regalie miliardarie a banche e aziende in Italia. Una linea che all’interno della burocrazia Ue gode di molti favori, in particolare tra chi accusa la Germania di impedire l’adozione di politiche per il rilancio della crescita. L’Abenomics costituisce la messa in atto proprio di questo tipo di politiche “keynesiane”, visto che punta a ottenere una crescita economica con stimoli monetari e fiscali, accompagnati da una netta svalutazione della propria valuta rispetto a quelle dei paesi concorrenti. L’insuccesso di cui sta dando prova il piano di Abe è un’ulteriore prova del fatto che il problema è quello di un sistema capitalista mondiale sempre meno in grado di funzionare e che affonda nelle proprie contraddizioni, non quello dell’assenza di politiche che “stimolano la crescita”. D’altronde, nota l’economista Michael Roberts, “i dati Ocse dicono che i consumi pro capite non sono affatto calati dal 2005. La Grande Recessione quindi non è dovuta a un crollo dei consumi, ma a un crollo degli investimenti, un argomento che va contro l’interpretazione keynesiana”.
La crescita reale ottenuta dall’Abenomics in questo anno e mezzo è stata pari praticamente a zero e in questi giorni il Giappone è addirittura tornato in recessione. L’inflazione, che il premier mirava ad aumentare dopo che il paese ha languito per due decenni in una spirale deflazionistica, è aumentata sì, ma meno degli obiettivi previsti (rischia di non conseguire il livello minimo prefissato del 2% a fine anno) e si tratta comunque di una crescita contraddistinta da molti “ma”. L’inflazione infatti è dovuta non a un aumento dei consumi, bensì al quasi raddoppio dell’imposta sulle vendite (un analogo della nostra IVA) in primavera. Senza questo fattore l’inflazione sarebbe appena all’1,3%, percentuale che però anch’essa è dovuta in larga parte a un altro fattore estraneo a un aumento dei consumi, cioè l’aumento dei costi energetici in seguito alla chiusura degli impianti nucleari dopo il disastro di Fukushima. Gli unici successi ottenuti dall’Abenomics sono stati la crescita dei mercati azionari (assimilabile a una bolla) e un aumento dei profitti delle imprese (comunque inferiori al picco del 2007) che però non si traduce in investimenti o aumenti salariali. Infatti i redditi reali dei nuclei familiari sono diminuiti del 3,2% dall’inizio dell’Abenomics: i giapponesi cioè sono più poveri, quindi non si potrà contare su un aumento dei loro consumi e di conseguenza della domanda, tanto che gli ultimi dati parlano di un forte calo, pari al 5,6%, della spesa dei nuclei familiari. Ciò è dovuto tra le altre cose al fatto che nel paese stanno andando in pensione in misura sempre maggiore i baby-boomers che godevano di posti di lavoro fissi e ben retribuiti, e vengono sostituiti sempre più da persone che lavorano part-time, in modo precario o con stipendi più bassi. La svalutazione dello yen, un altro degli obiettivi del quantitative easing di Abe, non è riuscita a causare un aumento delle esportazioni, che rimangono del 16% inferiori rispetto al picco del 2008. Ciò è dovuto sia al fatto che le aziende giapponesi hanno massicciamente delocalizzato la produzione all’estero, sia al fatto che l’economia europea sta andando male, quella cinese è in netto rallentamento e la bassa crescita Usa non compensa il calo delle esportazioni giapponesi verso Ue e Cina. Inoltre, nonostante gli stimoli, la produzione industriale giapponese registra un trend calante. Il governo di Tokyo alla fine ha dovuto diminuire le previsioni di crescita per l’anno fiscale che terminerà nel 2015 ad appena lo 0,5%, stima che alla luce della recente entrata in recessione appare molto ottimista. A tutto questo Abe ha risposto a fine ottobre con un forte aumento del quantitative easing (oltre 200 miliardi di dollari in più all’anno), che ci sembra solo un disperato tentativo di porre rimedio al fatto che la bolla del quantitative easing non funziona gonfiandola ulteriormente, con il rischio che alla fine scoppi.
Conclusioni
A sei anni dal fatidico 2008 il sistema capitalista mondiale continua a trovarsi in una situazione di profonda crisi, per la quale non si intravede una via di uscita. Pressoché ovunque vi è un problema di debito in eccesso pari ai picchi storici raggiunti nel 2007 all’apice della bolla globale, poi scoppiata con esiti disastrosi. Quasi tutti i paesi, da quelli in recessione fino a quelli in crescita come la Cina, sono afflitti dal problema di un forte eccesso di capacità produttive. Gli investimenti languono nella maggior parte delle economie sviluppate visto che le condizioni dell’economia non offrono la possibilità di ottenere profitti consistenti. I capitali vanno allora alla ricerca di speculazioni, aiutati dalla massa stratosferica di liquidità a costo zero immessa in tutto il mondo dalle banche centrali. Queste ultime hanno ormai di fatto esaurito ogni possibilità di ulteriore intervento, avendo spinto a limiti mai visti prima nella storia i loro strumenti di politica monetaria. Ogni tentativo di tappare le falle dell’economia mondiale genera nuovi problemi, come abbiamo visto negli anni scorsi con la crisi del debito sovrano e vediamo oggi con la deflazione. Le politiche di stampo keynesiano non rappresentano un’alternativa e il fallimento dell’Abenomics in Giappone ne è una dimostrazione. Perfino il modello cinese è in frenata e si trova di fronte a dilemmi che allo stato attuale sembrano irrisolvibili. La situazione geopolitica instabile, dall’Ucraina, al Medio Oriente, all’Asia Pacifico, non fa che aumentare le incognite e il rischio che qualche grande stato cerchi una soluzione ai propri problemi economici nel conflitto militare. Sono tutti segni di un sistema che sta attraversando una crisi epocale, dalla quale dovrà necessariamente uscire con nuovi modelli, il cui profilo però attualmente non è possibile intravvedere, se non là dove i capitalisti cercano di salvare i loro margini di profitto comprimendo i redditi dei lavoratori, inventando nuove forme di precarietà, cancellando i diritti sindacali, aumentando le repressioni politiche o, come in molti paesi in via di sviluppo, ricorrendo a forme di lavoro di fatto schiaviste. Dal 2011 però si assiste a un’ondata globale di lotte per la democrazia come non si vedeva da qualche decennio, dalle primavere arabe fino al movimento degli ombrelli a Hong Kong. Si tratta di mobilitazioni ancora dal profilo confuso, che assumono forme molto diverse tra di loro e nella maggior parte dei casi vengono messe a tacere da regimi capitalisti sempre più incattiviti. Ma trovano sicuramente origine in una giusta indignazione popolare per i fallimenti e i disastri causati dal capitalismo mondiale: sono l’unica base su cui è possibile costruire una vera alternativa alla crisi mondiale.