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Elezioni-UcrainaNel corso del lavoro che sto facendo sul conflitto in Ucraina per il sito crisiglobale ho sentito la necessità di affrontare nei dettagli quelli che a mia opinione sono alcuni luoghi comuni ampiamente diffusi a sinistra sull’argomento. La prima bozza degli appunti che seguono è servita da punto di partenza per una discussione tra un gruppo di compagni che si occupano da lungo tempo di internazionalismo.

La versione qui sotto è leggermente rivista e integra alcuni brani dei miei successivi interventi nella discussione. Ci tengo a sottolineare che non è un’analisi complessiva del conflitto in Ucraina, bensì un documento che si limita ad affrontare i luoghi comuni che più circolano a sinistra. Per comodità di lettura ho organizzato il testo in forma di “affermazioni-controaffermazioni” 

 

1) Maidan

“Maidan non è stata una mobilitazione di sinistra, era a favore dell’adesione all’Ue e ha avuto come solo effetto quello di sostituire un regime corrotto e autoritario con un altro regime, altrettanto corrotto e autoritario. L’Ue poi voleva incorporare l’Ucraina con l’obiettivo di trovare alle proprie esportazioni un mercato di sbocco di 45 milioni di persone”

Maidan (“piazza”) è il nome dato a una mobilitazione durata tre mesi, da fine novembre 2013 alla fine di febbraio di quest’anno. E’ iniziata come mobilitazione a favore dell’adesione dell’Ue e contro l’improvviso voltafaccia del presidente Viktor Yanukovich, passato nel giro di pochi giorni dall’intenzione di firmare un accordo di associazione con l’Ue all’impegno ad aderire all’Unione doganale con Russia, Bielorussia e Kazakistan, in assenza di ogni dibattito democratico. Le lotte di Maidan hanno subito importanti evoluzioni nel corso del tempo. Il tema dell’accordo di associazione all’Ue è passato progressivamente in secondo piano fino alla sua scomparsa nelle fasi finali. Le manifestazioni hanno assunto un carattere oceanico a partire da metà gennaio, quando la gente è scesa in massa in piazza contro le leggi liberticide varate dal regime di Yanukovich proprio contro Maidan. Oltre a protestare contro le misure liberticide, la gente in piazza protestava più in generale anche contro un sistema oligarchico corrotto e oppressore. I partiti dell’opposizione filoccidentale non sono stati alla guida di Maidan, all’interno della quale sono stati tollerati, ma guardati con sospetto. In generale Maidan, soprattutto da gennaio, ha assunto caratteri che la pongono all’interno della serie di mobilitazioni di massa emerse a livello mondiale dal 2011: composizione di classe disomogenea; forze di sinistra, moderate e reazionarie l’una accanto all’altra, lavoratori e piccolo borghesi nella stessa piazza; rivendicazioni democratiche, ma di carattere “antipolitico” e molto generiche. Nel complesso, Maidan ha ottenuto svariati successi: innanzitutto quello di mobilitare milioni di persone rendendo protagoniste le masse con obiettivi democratici; in secondo luogo quello di arrecare un duro colpo al sistema oligarchico costringendo all’esilio Yanukovich e la sua cricca, nonché scompaginando i piani dei grandi capitalisti ucraini; in terzo luogo ha fatto fallire il progetto di compromesso tra Yanukovich e i partiti di opposizione (privi di un sostegno di massa) voluto dagli imperialisti europei. Ogni processo rivoluzionario è seguito da un processo controrivoluzionario. Nel caso dell’Ucraina, la “controrivoluzione” è arrivata da parte dell’imperialismo russo con tempi incredibilmente rapidi: dopo 4-5 giorni la Russia interveniva militarmente in Crimea e dopo altre tre settimane la annetteva. Passate poco più di due settimane, Mosca lanciava l’operazione nell’Ucraina orientale, con l’appoggio di settori dei partiti che sostenevano Yanukovich e dell’oligarcato locale. Il patrimonio di lotta che Maidan ha lasciato dietro si sé è comunque prezioso per le future lotte degli ucraini. Guardare con sufficienza a mobilitazioni di tale entità che si pongono fini democratici (no alle leggi liberticide, no a un regime corrotto e di rapina, no a una politica fatta interamente sulla testa delle masse senza consultarle) è solo controproducente per la sinistra. Per quanto riguarda l’idea che l’Ue puntasse a conquistare un “mercato di sbocco di 45 milioni di abitanti” è evidente che nella testa dei burocrati di Bruxelles (rivelatisi comunque deboli e inefficienti nelle loro politiche) ci fosse un obiettivo del genere, ma per riportare la nostra valutazione entro termini reali va sottolineato che l’Ucraina ha sì 45 milioni di abitanti, ma se si tiene conto del loro potere di acquisto e del Pil del paese le sue dimensioni come mercato di sbocco sono inferiori a quelle di un piccolo paese come la Repubblica Ceca. Infine, va precisato che gli “accordi di associazione” dell’Ue riguardano gli aspetti commerciali e non comportano un processo di adesione all’Unione.

“La caduta di Yanukovich è stata frutto di un colpo di stato dietro al quale probabilmente ci sono i servizi segreti occidentali/i partiti di opposizione, con l’obiettivo di portare l’Ucraina nell’orbita occidentale”, e anche “L’opposizione e Yanukovich il 20 febbraio avevano firmato un compromesso mediato da paesi Ue, l’accordo è stato fatto saltare dagli Usa per portare avanti la loro politica aggressiva nei confronti della Russia emarginando l’Ue”.

Un’affermazione di questo genere non tiene conto di alcuni fatti fondamentali che la contraddicono in toto. Innanzitutto il progetto di avviare un processo di associazione all’Ue è stato condotto dal suo inizio alla sua fine tra i burocrati di Bruxelles e lo stesso Yanukovich – non è stato certo un’iniziativa per destabilizzare il suo regime, casomai il contrario. Inoltre, di fronte alla mobilitazione di Maidan e al rischio di un conseguente crollo del regime, l’Ue ha proposto e ottenuto un compromesso tra opposizione e Yanukovich che costituiva un salvataggio per quest’ultimo e la sua cerchia. Gli Usa non hanno contrastato, né verbalmente né con i fatti, tale progetto, e le teorie di una cospirazione di Washington non hanno alcun riscontro fattuale. D’altronde, se gli Usa avessero voluto “forzare” la situazione per condurre una politica aggressiva nei confronti della Russia e dei suoi alleati in Ucraina, perché poi successivamente hanno sempre tenuto un profilo basso? [su quest’ultima affermazione, si veda più sotto nei dettagli il punto 4) Imperialismi]

“Il regime di Yanukovich sarà anche stato corrotto, ma almeno aveva un carattere in parte sociale, costituiva un freno alle privatizzazioni – adesso invece si andrà verso un neoliberismo selvaggio”

Yanukovich è in carica come presidente dal 2010, ma è stato precedentemente premier ed è espressione di un sistema politico ed economico che è alla guida del paese fin dagli anni novanta, con il solo breve e incerto intervallo della “rivoluzione arancione” del 2004. Insieme ad altri, Yanukovich è stato l’artefice di un regime di accumulazione basato sulla rapina sistematica delle risorse del paese a vantaggio del grande capitale e degli oligarchi (fino a diventare egli stesso un oligarca). Questo regime si fondava su un’economia basata essenzialmente sulle esportazioni a svantaggio della domanda interna. E’ stato questo regime a varare le prime privatizzazioni di beni pubblici, praticamente regalati ai capitalisti che negli anni precedenti avevano accumulato ricchezze in modo illegale. Sotto il suo regime, e quello del suo “padre protettore” Leonid Kuchma, i capitalisti non hanno praticamente mai pagato tasse e hanno tranquillamente esportato in massa i loro capitali in paradisi “offshore”. L’intero peso fiscale ricadeva sui lavoratori e la piccola borghesia. Le industrie rimaste nelle mani dello stato sono state gestite in modo privatistico e senza alcun controllo pubblico. Le presunte “politiche sociali” del regime erano rappresentate essenzialmente da sussidi di entità infima rispetto alla rapina di dimensioni enormi effettuata ai danni della popolazione, sussidi che non garantivano ai lavoratori alcuna sicurezza sociale bensì solo un misero e incerto sopravvivere: il loro fine era solo quello di dare il minimo possibile per evitare una rivolta, obiettivo tra l’altro non conseguito. Inoltre, il sistema economico orientato alle esportazioni di materie prime proprio per questa sua natura era strettamente connesso al sistema capitalista mondiale, della cui crisi è stato una delle principali vittime a livello mondiale (tracollo del 15% del Pil nel 2009). Yanukovich poi non era certo un nemico del capitale internazionale: ha firmato accordi con il Fmi, che ha messo parzialmente in atto (come d’altronde i suoi predecessori e come stanno facendo ora i suoi successori). Si può dire con certezza che le sue politiche economiche, oltre ad avere lasciato agli ucraini un paese sprofondato in una crisi di dimensioni spaventose, hanno creato il terreno ideale per un ulteriore rafforzamento delle politiche neoliberali. Da questo punto di vista la caduta di Yanukovich e l’ascesa di un nuovo governo non comportano una svolta neoliberale, bensì nell’essenza un proseguimento sotto nuova gestione delle precedenti politiche neoliberali.

“Maidan è stata egemonizzata dall’estrema destra che dopo la caduta di Yanukovich ha conquistato leve di potere fondamentali, instaurando nel paese un clima di terrore fascista”

L’estrema destra è stata un fattore importante all’interno di Maidan, senza tuttavia mai raggiungere un ruolo egemone. I due soggetti che vi hanno operato sono Svoboda e Pravy Sektor. Svoboda (Libertà) è un partito nazionalista di estrema destra che è riuscito ad ampliare la propria base sotto il regime di Yanukovich fino a ottenere oltre il 10% alle elezioni del 2012. Sostenitore in origine di posizioni assimilabili a quelle del neofascismo, si è trasformato negli anni in un partito più generalmente di estrema destra paragonabile (fatte ovviamente le debite differenze di contesto) all’Alleanza Nazionale del “primo Fini”, ma conserva un’organizzazione giovanile di chiaro carattere neofascista. Pravy Sektor (Settore di Destra) non esisteva prima di Maidan, dove è nato come alleanza sciolta tra alcuni piccoli gruppi neofascisti, neonazisti e della destra nazionalista. All’interno di Maidan sono stati largamente in minoranza in termini numerici. Vi hanno però assunto un ruolo rilevante in particolare a partire da gennaio, quando grazie alla loro capacità organizzativa in mezzo a una massa enorme di persone scese in piazza spontaneamente sono riusciti a costruire squadre di difesa (e in qualche occasione anche di attacco) contro le repressioni violente del regime. E’ questo, e non il loro progetto politico, che ha garantito loro un ruolo nelle mobilitazioni (non a caso, al primo appuntamento elettorale, le presidenziali di maggio, hanno ottenuto risultati compresi rispettivamente tra meno dell’1% e meno del 2% ed entrambi i partiti non sono riusciti a superare la barriera elettorale alle ultime elezioni parlamentari del 26 ottobre). A proposito va ricordato che molti attivisti della sinistra ucraina recentemente sono giunti a un’autocritica rispetto alle modalità della loro partecipazione a Maidan: nella prima fase, a differenza dell’estrema destra, non vi hanno preso parte perché era “solo una mobilitazione a favore dell’Ue”, mancando di cogliervi il potenziale progressista. Un’ampia fetta della sinistra radicale ha preso parte a Maidan solo a partire da metà gennaio, quando l’estrema destra aveva già avuto tempo di organizzarsi e trovandosi quindi impreparata a fronteggiarla, subendone in alcuni casi la violenza. Questo è sicuramente uno dei motivi per cui la sinistra non è riuscita ad avere un ruolo rilevante in Maidan.

Dopo Maidan Svoboda è entrato a fare parte del governo con alcuni ministri e si è vista assegnare il posto di procuratore generale. Pravy Sektor non ha mai fatto parte di strutture del governo o dello stato: le notizie fatte circolare a sinistra secondo cui il suo leader Dmitro Yarosh era diventato membro del Consiglio sicurezza nazionale sono assolutamente false, né un tale posto gli è mai stato ufficialmente offerto, come hanno asserito invece alcuni. Il ruolo di Svoboda all’interno del governo è stato di fatto irrilevante, ha perso pressoché subito il suo ministro più importante, quello della difesa, e il governo nei primi mesi è stato gestito in toto, sia davanti che dietro le quinte, da Batkivshtina (Patria), il partito di Timoshenko e Yatsenyuk. La procura generale non ha avuto alcun ruolo reale, l’idea di procedere a una “lustrazione” (epurazione degli uomini del vecchio regime) è stata subito accantonata. Quest’estate i ministri di Svoboda sono usciti dal governo e, come abbiamo ricordato, i due partiti alle elezioni del 26 ottobre non sono riusciti a entrare in parlamento.

La parabola dell’estrema destra dopo Maidan può essere divisa grosso modo in tre fasi. La prima è quella della situazione caotica a marzo, nelle cui prime settimane membri di Svoboda e del Pravy Sektor hanno organizzato alcune azioni squadriste eclatanti cercando di mettersi in vista per conquistarsi un sostegno popolare. Questa linea si è rivelata completamente fallimentare, il movimento neofascista non ha riscosso alcuna popolarità, e nemmeno conquistato nuovi spazi all’interno delle istituzioni, con le quali invece è entrato in forte conflitto: l’ultimo episodio di questa fase è stato il tentativo di occupare Maidan a fine aprile, quando il Pravy Sektor è stato scacciato a bastonate dall’ex servizio d’ordine di Maidan. Visto questo fallimento e il loro isolamento nella società, i neofascisti hanno deciso, questa volta con successo, di sfruttare l’occasione della formazione di battaglioni di volontari nell’ambito della “operazione antiterroristica” (in realtà, operazione militare) nell’Ucraina orientale, formando un loro battaglione, l’Azov, comandato da due esponenti del piccolo gruppo neonazista SNA-PU (formalmente parte del Pravy Sektor), Bileckiy e Mozeichuk. L’ultima fase è quella ancora in corso, cioè l’integrazione dei due leader neonazisti all’interno di forze politiche più grandi: Mozeichuk è stato eletto nel consiglio comunale di Kiev all’interno delle liste del Partito Radicale, una formazione populista di destra in forte ascesa, Bileckiy è appena entrato negli organi dirigenti del “Fronte Popolare”, il nuovo partito guidato dall’ex premier Yatsenyuk che molti definiscono “il partito della guerra”.

Per riassumere: dopo Maidan in Ucraina l’estrema destra, e i neofascisti in particolare, hanno avuto un ruolo di scarsa rilevanza a livello politico e sono privi di un sostegno popolare. In Ucraina esiste comunque un pericolo neofascista, perché nelle condizioni successive alla sconfitta militare di Kiev i piccoli gruppi neofascisti stanno trovando un terreno fertile per un salto di qualità e, soprattutto, perché c’è l’evidente disponibilità di settori della politica a utilizzarli come “manodopera”. Tutto questo però non ha nulla a che fare con l’immagine data a sinistra di un paese in preda al terrore seminato da bande neofasciste, immagine che è menzognera così come è menzognera l’idea che in Ucraina orientale i separatisti si battano contro un pericolo fascista – chi a sinistra diffonde queste bugie diffonde in realtà la propaganda messa sistematicamente in atto dal Cremlino, e dai leader delle “repubbliche popolari”, mirata solo a spaventare la popolazione, a diffondere l’odio (secondo questa rozza propaganda gli ucraini “non russofoni” sono tutti neofascisti) e a creare così un terreno fertile per la guerra.

 

2) Crimea

“La Crimea è terra russa che Chruscev nel 1954 ha regalato all’Ucraina. Il suo ritorno alla Russia non può essere definito un’annessione perché a marzo c’è stato un referendum che costituisce un atto di autodeterminazione. Non a caso oggi in Crimea nessuno protesta per il fatto che la penisola fa parte della Russia”

E’ vero che la Crimea è diventata parte dell’Ucraina nel 1954, nell’ambito di scambi e manovre politiche ai vertici sovietici, anche se all’epoca il fatto non appariva molto rilevante visto che l’Unione Sovietica era uno stato centralizzato in cui le singole repubbliche avevano una ruolo essenzialmente formale. Che la Crimea sia “terra russa” è invece un mito. La penisola, abitata in larga maggioranza da tatari e facente parte dell’Impero Ottomano, è stata conquistata nel 1783 dall’impero russo, che ne ha fatto una propria colonia (prima non aveva alcuna popolazione russa). Questa colonizzazione è stata incentrata, dai tempi degli zar fino alla fine dell’Unione Sovietica, sulla base militare di Sebastopoli. Nel 1921 la Crimea è diventata repubblica autonoma nell’ambito della Federazione Socialista Russa e, dopo l’occupazione nazista nel 1942-44, è stata declassata al rango di regione, fino a passare all’allora Repubblica Socialista Ucraina nel 1954. Dal 1991, in seguito a un referendum con il quale la scelta dell’indipendenza dell’Ucraina ha ottenuto la maggioranza anche in Crimea, quest’ultima ha fatto parte dell’Ucraina come repubblica autonoma (con uno statuto speciale per Sebastopoli) fino alla recente annessione da parte della Russia. I russi sono oggi in maggioranza assoluta, anche se non di molto (58%), gli ucraini sono il 24% e i tatari il 12%. La distribuzione delle varie popolazioni non è omogenea: i russi sono in stragrande maggioranza nella città-fortezza Sebastopoli, e in larga maggioranza nei centri turistici più ricchi sulla costa, mentre nell’interno agricolo vi sono ampie zone a maggioranza tatara e con una forte presenza ucraina in cui i russi sono minoranza. Va subito detto che i russi non sarebbero popolazione maggioritaria in Crimea se non fosse per due fattori: le politiche colonizzatrici messe in atto sia nel periodo zarista sia in quello sovietico e, soprattutto, la deportazione totale della popolazione tatara autoctona, insieme ad altre minoranze, nel 1945. La deportazione è avvenuta con l’accusa della colpa collettiva di collaborazionismo con i nazisti. Oltre a essere odiosa in sé, questa accusa è infondata, visto che con i nazisti hanno collaborato anche molti russi e visto che molti tatari hanno partecipato alla resistenza: il vero motivo era il perseguimento da parte di Stalin di una politica di nazionalismo sciovinista panrusso mirata a una pulizia etnica. La deportazione degli oltre 200.000 tatari (e delle altre minoranze) è stata effettuata nel giro di pochi giorni, i deportati sono stati dispersi in varie aree dell’Urss con l’intenzione di impedirne una futura ricompattazione e, inoltre, si calcola che almeno la metà dei deportati siano morti durante il viaggio in condizioni disumane. Se è vero che da allora sono passati quasi settant’anni, è anche vero che i tatari non appena ne hanno avuto una minima possibilità (dopo la denuncia dei crimini di Stalin nel 1956) hanno dato vita a un coraggioso movimento per il ritorno alla loro patria, pagandone il prezzo di altre pesanti repressioni. Un ritorno è stato possibile solo a partire dal 1991 e tra mille difficoltà poste sia dalle autorità locali russe sia da larghi settori della stessa popolazione russa. Il processo fino a oggi è compiuto solo in misura di circa la metà di coloro che volevano tornare, senza contare la metà della popolazione tatara morta durante la deportazione e le altre numerose minoranze “cancellate” da Stalin. Il fatto che i russi siano la maggioranza (non schiacciante e non in tutta la penisola) è quindi dovuto solo a una politica di colonizzazione e di genocidio. Se il processo di ritorno dei tatari potesse completarsi e venisse chiusa la base militare di Sebastopoli insieme a tutto il suo indotto di importazione, gli abitanti di nazionalità russa difficilmente sarebbero ancora in maggioranza. I tatari non hanno partecipato al referendum di marzo e il loro organo di autogoverno, il Medjlis, si è dichiarato contrario all’annessione della Crimea alla Russia, pagandone il prezzo di pesanti repressioni. La politica del potere russo dopo l’annessione è la seguente: repressione degli organi di autogoverno formati spontaneamente dai tatari dopo il loro ritorno in patria, espulsione dei loro leader (sia quelli “radicali” che quelli “moderati) e di parte della popolazione (migliaia di rifugiati tatari in Ucraina), chiusura delle scuole ucraine e repressioni contro gli ucraini che hanno provato a protestare pacificamente ecc. Significativo è anche che i dissidenti arrestati, come il regista ucraino locale Oleg Sentsov o l’attivista di sinistra Alexander Kolchenko, vengano deportati e incarcerati in Russia, e non nella stessa Crimea.

Durante il periodo in cui è stata parte dell’Ucraina la penisola è stata costantemente oggetto di tira e molla tra burocrati locali e burocrati di Kiev. Prima della dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina, vi è stato un movimento per l’indipendenza della Crimea all’interno dell’Urss, tuttavia con il referendum del 1991 gli abitanti della Crimea hanno alla fine scelto di essere parte dell’Ucraina. Nel 1994 un partito sciovinista russo che per un breve periodo aveva raggiunto una certa consistenza ha proposto un referendum (sempre però per l’indipendenza della Crimea), che tuttavia alla fine non si è tenuto – l’idea ha avuto per breve tempo una certa popolarità tra i russi principalmente perché veniva vista come uno strumento per impedire il ritorno dei tatari, che le autorità di Kiev invece volevano consentire. Nessuna repressione è stata mai condotta contro i russi, o l’uso da parte loro della lingua russa. Durante il periodo di Maidan non si è svolta alcuna manifestazione di entità rilevabile a sostegno delle mobilitazioni in Ucraina, ma nemmeno contro di esse. Insomma, nessuna mobilitazione, più o meno grande, si è svolta in Crimea fino al 25 febbraio, e tantomeno è stata registrata una sola iniziativa a favore dell’indipendenza o dell’annessione alla Russia. Il 25 febbraio vi è stata una manifestazione anti-Kiev di solo un paio di migliaia di persone organizzata da un partito sciovinista russo che in parlamento ha il 4% dei voti, alla quale ha fatto subito da contraltare una contromanifestazione di pari entità partecipata principalmente da tatari. Nella notte tra il 26 e il 27 febbraio gli “omini verdi” (militari senza insegne provenienti dalla Russia) hanno invaso il paese occupando punti strategici. Su proposta del partitino di cui sopra, il governo locale, in assenza di quasi la metà dei suoi membri e sotto i kalashnikov degli omini verdi, ha deciso di indire un referendum per l’indipendenza della Crimea a metà maggio. Nel giro di pochi giorni la data è stata anticipata, senza discussioni, al 16 marzo e si è deciso di autorità, senza che la popolazione avesse alcuna voce in capitolo, di modificare il quesito prevedendo l’annessione alla Russia. Le sole due settimane che hanno preceduto il voto sono state contrassegnate dall’occupazione militare e dall’assenza di ogni possibilità di dibattito. Il referendum si è svolto senza alcuna minima forma di controllo. Non è dato sapere quale sia stata la reale partecipazione, né l’effettivo sostegno all’annessione alla Russia. E’ chiaro che il referendum non ha alcuna legittimità, né formale né da un punto di vista politico. Indubbiamente i popoli della Crimea hanno il diritto di scegliere in autonomia e in modo democratico i propri destini, ma i fatti elencati sopra dicono che è avvenuto il contrario. Se successivamente al referendum non ci sono state proteste di grande entità (ma forme di protesta ci sono state) ciò è dovuto a due fattori: il clima di sistematica repressione del dissenso, da una parte, e l’indifferenza della maggior parte della popolazione – un fenomeno, quest’ultimo su cui torno maggiormente nei particolari riguardo all’Ucraina orientale e che è in netta antitesi al protagonismo delle masse esplicitatosi in Maidan.

In generale, riguardo al tema del referendum come atto di autodeterminazione, è importante fare alcune precisazioni. La possibilità di chiedere, organizzare e vedere riconosciuto un referendum è un diritto inalienabile. L’esperienza inoltre ci insegna che i referendum sono un’arma potente di emancipazione a coronamento di mobilitazioni/iniziative dal basso brevi o lunghe. Sono uno strumento importante e, nell’ordine mondiale odierno, spesso irrinunciabile delle lotte per la AUTOdeterminazione. I processi referendari però possono anche essere facilmente distorti o diventare strumenti di oppressione, come sappiamo benissimo noi in Italia e come sanno altrove, se si svolgono con modalità non democratiche e in assenza di una mobilitazione attiva di massa. Il referendum non può quindi essere considerato come un valore in sé e per sé, ma solo come un diritto inalienabile con coordinate come quelle citate sopra. Cioè il referendum deve essere richiesto, non deve essere imposto dall’alto, e deve permettere a tutti di esprimersi in modo democratico. Nulla di ciò è mai avvenuto in Crimea (e nel Donbass), dove nessuno ha richiesto i referendum imposti dall’alto e dove non ci sono stati né i tempi né soprattutto le condizioni minime per una libera espressione della volontà di tutti. In entrambi i due casi il referendum è invece stato uno strumento di oppressione contro il libero e autonomo sviluppo dell’espressione della volontà del popolo. Non a caso, dopo il loro svolgimento, nessuno è in grado di dire, nemmeno approssimativamente, quale sia stata la partecipazione e quale il risultato effettivo. Il diritto al referendum di chi lo richiede e intende organizzarlo in modo tale da dare voce a tutti per scegliere i propri destini va sempre difeso. Non è invece da difendersi lo svolgimento di referendum laddove non c’è una richiesta dal basso e quando gli stessi vengono organizzati da parte di forze che, anche con la violenza, vogliono utilizzarlo per mettere a tacere il popolo, indipendentemente dalle supposizioni sugli orientamenti di quest’ultimo.

 

3) Ucraina orientale

“Nell’Ucraina orientale c’è un movimento di massa e di base che conduce una lotta democratica e antifascista contro il governo di Kiev”

Nell’Ucraina orientale non c’è, e non c’è stato in questi mesi, alcun movimento di massa. La mobilitazione più ampia che c’è stata nel Donbass dopo Maidan è stata quella del 1 marzo a Donetsk, che ha raccolto in piazza circa 10.000 persone, in massima parte organizzate dal Partito delle Regioni e dal Partito Comunista contro il cambiamento di governo a Kiev (quindi non per la federalizzazione, l’indipendenza, l’annessione alla Russia, i “diritti linguistici” ecc.). Due giorni dopo una manifestazione convocata dall’autoproclamato “governatore popolare” Gubarev che prometteva di portare in piazza 50.000 persone ne ha raccolte circa 5.000. Successivamente, e fino a oggi, le mobilitazioni nella regione sono state dell’ordine di alcune centinaia di persone, con punte massime di 2.000-3.000 persone in rarissime occasioni. Per esempio, la Repubblica Popolare di Lugansk è stata proclamata da circa 1.000 persone riunite in piazza, senza nemmeno avere tenuto un’assemblea, dopo che un leader separatista ha letto meccanicamente un proclama. Se si tiene conto che il Donbass ha 6,5 milioni di abitanti, che Donetsk ne ha 1,1 e Lugansk 450.000, non si può assolutamente parlare non solo di un movimento di massa, ma nemmeno di una mobilitazione di una parte in qualche modo rappresentativa di settori della popolazione. Le poche manifestazioni che i sostenitori dell’Ucraina unita sono riusciti a organizzare nella regione (nonostante il clima di terrore interno) hanno raggiunto una partecipazione analoga. L’iniziativa di creare le repubbliche è stata presa interamente dall’alto da una serie di piccoli gruppi (sui quali torno sotto) in assenza di qualsiasi sostegno di massa della popolazione.

Per farsi un’idea sulla supposta natura “di massa” delle mobilitazioni nel Donbass e delle repubbliche è d’altronde sufficiente porsi una serie di domande e andare a verificare le risposte sulla base dell’abbondante documentazione disponibile riguardo a quanto accade nella regione. Si tengono assemblee democratiche? No, mai viste; ci sono rappresentanti eletti? No, a nessun livello; esiste qualche forma di partecipazione popolare alle istituzioni? Assolutamente nessuna; c’è qualche forma minima di dibattito politico? No, ogni dissenso viene duramente represso; la gente ha provato in qualche modo a utilizzare le istituzioni delle repubbliche? No, in nessun modo e in nessun caso, l’indifferenza delle masse è completa a riguardo; esistono forze, per quanto minoritarie, che sono espressione di una partecipazione democratica dal basso? No, non ce ne è traccia alcuna; c’è una partecipazione di massa alle forze armate dei separatisti? Assolutamente no, nemmeno come reazione dopo che a partire da luglio il governo ucraino è passato a una guerra aperta; laddove Kiev ha ripreso il controllo di zone prima occupate dai separatisti (Slavyansk, Mariupol) ci sono mobilitazioni, anche solo limitate e/o clandestine, per la resistenza/il dissenso? Assolutamente no, nonostante le repressioni messe in atto da Kiev siano di gran lunga inferiori rispetto a quelle applicate dai separatisti; gli abitanti russi/russofoni del Donbass si sono mobilitati per i propri diritti linguistici? No, mai; per altri specifici diritti nazionali? Nemmeno; i leader delle repubbliche hanno qualche forma di mandato popolare, anche solo informale o minoritario? No, fino al momento in cui hanno preso il potere nessuno li conosceva, molti dei dirigenti più importanti sono addirittura moscoviti piovuti da fuori che nulla hanno mai avuto a che fare con il Donbass; gli abitanti del Donbass si sono mai mobilitati per chiedere un referendum su federalizzazione/indipendenza/annessione alla Russia? No, mai, né prima né dopo il “referendum” farsa di maggio. Va inoltre sottolineato che tutto questo non è dovuto in alcun modo a repressioni messe in atto da Kiev: per quattro mesi, da inizio marzo fino a fine giugno, cioè nel periodo di insediamento e consolidazione dei separatisti, questi ultimi hanno agito non solo pressoché indisturbati nei maggiori centri, ma con il sostegno delle forze di polizia locali, con l’esplicito o tacito consenso dell’oligarcato del Donbass che controllava tali forze di polizia e con il diretto supporto politico, militare e propagandistico di una potenza militare come la Russia. In queste condizioni, e con di fronte un “nemico” estremamente debole a livello politico, dall’esercito disgregato e pesantemente infiltrato dai “filorussi”, le supposte masse oppresse del Donbass (se in realtà fossero esistite) avrebbero potuto “liberarsi”, ottenere l’indipendenza o l’unione con la Russia in pochi giorni. Se ciò non è successo è proprio perché un sostegno di vasti settori della popolazione per tali soluzioni non c’era.

In assenza di un sostegno di massa, la presa di potere da parte delle “repubbliche” è avvenuta forzatamente con metodi militari: il 6-7 aprile con l’occupazione in sincronia delle amministrazioni regionali delle grandi città da parte di piccoli gruppi di alcune decine di persone (al massimo un paio di centinaia a Donetsk) organizzate militarmente – per la maggior parte si tratta di estremisti di destra legati alla Russia; il 12-13 aprile unità militari “senza insegne” hanno occupato con le armi una decina di centri abitati di circa 100.000 abitanti ciascuno, tra i quali Slovyansk, incontrando tra l’altro in alcuni casi la resistenza di cittadini locali (in seguito è stato confermato e documentato dagli stessi protagonisti che si trattava di unità guidate e composte da militari della Federazione Russa provenienti dalla Crimea, con l’appoggio in loco di uomini delle ex forze speciali di Yanukovich). Il nucleo portante del gruppo che ha organizzato le occupazioni delle amministrazioni, e che in seguito e fino a oggi ha guidato le “repubbliche”, è costituito da membri dell’organizzazione neofascista “Repubblica di Donetsk”, fondata nel 2005 e che organizza ogni anno in Ucraina la “Marcia Russa”, un evento dell’estrema destra che si tiene in tutto il “mondo russo” all’insegna di croci celtiche, imitazioni di svastiche e simili. L’alleato in Russia di questi neofascisti del Donbass è il movimento neonazista Russkiy Obraz (oggi si chiama Alleanza Conservatrice di Destra – ACD), che ha nel proprio curriculum svariati omicidi, tra i quali quelli degli antifascisti Stanislav Markelov e Anastasiya Baburova. Russkiy Obraz/ACD ha sempre mantenuto rapporti con i vertici del potere russo e continua a lavorare come sua “manodopera” – alcuni suoi esponenti hanno partecipato alle occupazioni di Donetsk, e alcuni esponenti locali della “repubblica” ne sono membri. La dirigenza delle “repubbliche” è inoltre politicamente schierata con il guru neofascista russo Aleksandr Dugin, che alcuni di loro hanno incontrato in questi mesi ottenendone il sostegno: Dugin non è solo un “guru”, è anche un personaggio con incarichi ufficiali (consulente della presidenza della Duma) e uno degli ideologi delle politiche imperialiste “eurasiatiche” del regime di Putin. Già prima della caduta di Yanukovich i neofascisti di Donetsk si erano riuniti per preparare azioni come quelle che sono state poi realizzate ad aprile. L’ala militare delle “repubbliche (che ha occupato Slovyansk e gli altri centri minori) è guidata da due altri estremisti di destra, in questo caso però moscoviti che non hanno mai avuto a che fare prima con il Donbass: Igor Strelkov e Aleksandr Boroday. Entrambi sono direttamente legati al neofascista Dugin e a un oligarca strettamente legato a Putin, Malofeev. L’attuale coordinatore delle forze militari della “repubblica di Donetsk” è un generale moscovita che ha operato finora nella Transnistria, e di Mosca era anche il premier della “repubblica di Lugansk” dimessosi ad agosto. Un particolare che rende ancora più inquietante il tutto è che quanto sopra descritto sta avvenendo nel momento in cui il regime russo è molto attivo nel coltivare e rendere più strette le alleanze e/o i contatti con l’estrema destra europea, dal Fronte Nazionale francese, a Forza Nuova e ad Alba Dorata. Si può dire che quella in atto a Donetsk e a Lugansk sia una delle più grosse operazioni organizzate da gruppi dell’estrema destra negli ultimi decenni in Europa – nonostante questo, l’intera sinistra tace su questo fatto macroscopico o si limita a vaghi accenni alla “presenza” di non meglio definiti “nazionalisti” nelle “repubbliche”, oppure liquida sbrigativamente il tutto dicendo che ci sono neofascisti da entrambe le parti – il che è vero, ma è allo stesso tempo falso se non si aggiunge che c’è una disproporzione enorme tra il ruolo circoscritto dei neofascisti in Ucraina e quello egemone nelle “repubbliche popolari”. E’ vero che nelle piccole mobilitazioni dei separatisti la parola “antifascismo” ricorre frequentemente, così come è vero che vi sventolano bandiere rosse del Partito Comunista o del piccolo gruppo neostalinista Borotba. Può sembrare una contraddizione, ma nel contesto russo non lo è affatto ed è anzi frequente. Per “antifascismo” in questo caso si intende solo e unicamente la vittoria militare russa di Stalin sui tedeschi, uno dei “momenti sacri” dello sciovinismo moscovita che lo intende esclusivamente come dimostrazione della forza militare dello stato russo. Per quanto riguarda il Partito Comunista ucraino, si tratta di un’organizzazione corresponsabile dei crimini del regime di Yanukovich, profondamente interconnessa al sistema capitalista-oligarchico dell’Ucraina Orientale (i suoi più importanti esponenti sono uomini d’affari milionari), che svariate volte ha assunto posizioni antisemite, che ha fatto dell’omofobia una sua bandiera, e che per questo di comunista ha solo il nome. Bandiere rosse e svastiche nel mondo russo vengono frequentemente sventolate l’una accanto all’altra.

Le “repubbliche popolari” non hanno mai avuto alcuna forma di democrazia interna, non perché non hanno avuto la possibilità o il tempo di svilupparla, ma perché sono convintamente e programmaticamente antidemocratiche. A maggio hanno approvato una costituzione che non ha pari in Europa in quanto a contenuti reazionari: divieto di aborto, divieto di “rapporti innaturali” omosessuali, integralismo religioso ortodosso, proprietà privata come elemento fondativo dell’economia. A ciò va aggiunto che al loro interno le “repubbliche popolari” hanno instaurato fin da subito un regime di repressioni sistematiche contro gli oppositori di ogni tendenza e le persone emarginate (uccisioni, sequestri di persona, torture): non si tratta di “deviazioni di alcuni settori”, ma di una politica adottata dai vertici in tutto il proprio territorio e che serve a compensare la mancanza di un sostegno popolare attivo.

Quindi, per riassumere, nel Donbass: 1) non esiste alcun movimento di massa; 2) è in atto un’azione avviata dalla Russia e gestita da suoi uomini; 3) sono state create istituzioni interamente controllate dall’estrema destra (con l’appoggio di settori dell’ex regime di Yanukovich e dell’oligarcato locale).

Detto questo, bisogna parlare del vero diretto interessato, cioè la popolazione locale del Donbass (su quella delle altre zone “a maggioranza russofona” torniamo sotto). Non essendosi mai mobilitata in prima persona né nel suo complesso né in settori importanti (per es. la numerosa classe operaia, che in passato ha dimostrato di sapersi organizzare, è rimasta totalmente indifferente), si può cercare solo di formulare delle ipotesi basate sull’osservazione degli eventi. Innanzitutto, è evidente che vi è una “simpatia” di ampi settori della popolazione per i separatisti, o comunque una tolleranza amichevole nei loro confronti. E’ evidente anche la mancanza di un sostegno attivo di massa al nuovo governo di Kiev nonché la presenza in ampi settori della popolazione di un forte risentimento nei confronti dello stesso, probabilmente incrementato dopo la folle e criminale operazione militare di questa estate. Lo svilupparsi degli eventi evidenzia anche che questa “simpatia” o “tolleranza amichevole” per i separatisti è molto volatile ed è più forte quando i separatisti sono militarmente vincenti, più debole quando perdono (vedi i casi di Slovyansk e Mariupol). L’unica occasione in cui c’è stata una certa partecipazione popolare è stata la giornata del referendum dell’11 maggio. Però anche in questo caso è impossibile quantificarla anche solo approssimativamente, viste le modalità assolutamente non democratiche e non controllate con le quali si è svolto. Come in Crimea, è stato organizzato in fretta e furia (circa tre settimane), senza alcuna possibilità di dibattito. Il voto si è svolto in modo ancora meno controllato che in Crimea: un gran numero di persone ha votato più volte allo stesso seggio o in seggi diversi, per es. Le file di fronte ai seggi sono spiegabili sia con questo sia, soprattutto, con lo scarso numero di seggi: a Mariupol, una città di 400.000 abitanti, erano per esempio aperti solo 4 seggi – è chiaro che anche con una partecipazione, per esempio, di solo il 20% era scontato che si formassero enormi code. Inutile quindi dire che non è possibile in alcun modo stimare la partecipazione (circolano ipotesi inevitabilmente aleatorie che vanno dal 10% a quasi il 90%). Anche in questo caso però porsi alcune semplici domande porta a conclusioni logiche che ancora una volta confermano l’assenza di una base di massa attivamente favorevole ai separatisti. Perché infatti questi ultimi hanno organizzato il referendum non solo in tutta fretta, ma soprattutto senza in alcun modo preoccuparsi di garantire che le modalità del suo svolgimento fossero tali da dargli qualche forma di legittimità? La situazione sul terreno, quando il referendum è stato indetto d’autorità a fine aprile, era del tutto pacifica, così come lo era quando si è svolto, quindi non vi è nemmeno la scusa, comunque molto fragile, di uno “stato di necessità”. Se il referendum si fosse svolto con criteri minimi di democrazia e di verificabilità, come era possibile fare, i separatisti avrebbero potuto disporre di un’arma molto più potente per la loro (supposta) lotta per il Donbass, mentre invece il referendum è stato volutamente solo una farsa senza alcuna forma di validità. La risposta a questa domanda è logica: non solo ai separatisti non interessa nulla dei diritti della popolazione, ma, soprattutto, essendo ben consci dell’indifferenza degli abitanti del Donbass nei loro confronti, sapevano che con ogni probabilità non avrebbero ottenuto la maggioranza, nonostante il vantaggio di partenza loro garantito dalla sistematica repressione contro ogni dissidenza.

“Sì, è vero che la dirigenza delle ‘repubbliche popolari’ di Donetsk e Lugansk è egemonizzata dall’estrema destra e che la Russia, appoggiandola, persegue nella regione fini imperialisti. Non dobbiamo però dimenticare che nell’Ucraina orientale è in atto una lotta dei russi/dei russofoni, un popolo oppresso che difende i propri diritti e chiede l’autodeterminazione – questa lotta noi la dobbiamo appoggiare senza riserve”

In realtà il popolo del Donbass non può essere definito oppresso e parlare di “russofoni” come gruppo definito che lotta per l’autodeterminazione o per difendere propri diritti è nel caso in questione errato e fuorviante. Va anche tenuto presente che quando si parla di “russofoni” si deve tenere conto che da un punto di vista statistico si parla non solo del Donbass (Ucraina orientale), ma più in generale dell’area molto più vasta dell’Ucraina sud-orientale, se non addirittura oltre – ma su questo entro nei dettagli più sotto. Cominciamo dal “popolo oppresso”. Sia il Donbass sia in generale l’Ucraina sud-orientale hanno un Pil pro capite molto più alto rispetto alle aree occidentali (l’unica eccezione è, naturalmente, la capitale Kiev), in alcuni casi più che doppio. Non a caso i 7 milioni di ucraini costretti a emigrare (su una popolazione totale di 45 milioni) provengono nella stragrande maggior parte dall’Ovest. Dal punto di vista economico c’è una netta egemonia da parte del sud-est, in particolare nell’industria e nelle esportazioni, conseguita anche grazie allo strapotere degli oligarchi locali a livello nazionale. In queste regioni è diffusa a livello popolare la tesi “à la Lega Nord” secondo cui “noi sgobbiamo e loro se la godono”, alimentata ad arte dai politici locali – in realtà le regioni del sud-est, e in particolare il Donbass, nonostante siano le più ricche sono anche quelle che ricevono di gran lunga più sussidi dallo stato centrale, sempre grazie agli oligarchi locali. Certo, le differenze sociali nel sud-est sono enormi (come d’altronde nel resto del paese) e questi sussidi vanno principalmente nelle mani degli oligarchi, ma non solo nelle loro mani. La forbice degli stipendi a ovest e nel sud-est è andata costantemente ampliandosi dopo l’indipendenza nel 1991 e nelle regioni sud-orientali oggi i salari arrivano fino a quasi il doppio di quelli nelle regioni più povere dell’ovest. C’è stata cioè una minima ridistribuzione di cui hanno goduto anche vasti strati dei ceti popolari. A livello politico, il paese dall’indipendenza è stato governato quasi esclusivamente da esponenti dei clan delle regioni sud-orientali, in particolare quelli di Dnepropetrovsk e di Donetsk. Yanukovich, Timoshenko e la maggioranza degli altri politici che hanno deciso o decidono le sorti dal paese provengono da tali luoghi, oppure hanno fatto carriera politica attraverso i clan locali del sud-est. Questa egemonia politica ed economica del sud-est è stata messa in discussione solo una volta, parzialmente e senza successo, con la “rivoluzione arancione” del 2004. Per riassumere: chiunque segua con attenzione l’Ucraina e la sua storia sa che il sud-est “russofono”, per quanto minoritario, ha esercitato sempre un’egemonia oppressiva sul resto del paese a livello sia economico che politico, risucchiando enormi risorse dal resto del paese in virtù della forza sfruttatrice dei suoi capitalisti (gli “oligarchi”) e dei suoi burocrati, risorse che sono state in parte redistribuite alla popolazione locale del Donbass, ma non altrove. Questo modello ha raggiunto il suo vertice assoluto negli anni in cui il paese è stato governato da Yanukovich con il sostegno degli oligarchi dell’Ucraina sud-orientale (gli unici oligarchi esistenti in Ucraina, fatta eccezione per uno sparuto e del tutto secondario “gruppo di Kiev”). Maidan ha messo radicalmente in questione questo modello e la reazione non a caso non si è fatta attendere nel Donbass. Se quindi si vuole applicare forzatamente lo schema del “popolo oppresso”, la conclusione alla quale bisognerebbe giungere è che sono le regioni sud-orientali (i “russofoni”) il “popolo oppressore”. A tutto questo va aggiunto che nella storia dell’Ucraina indipendente non si sono mai registrate repressioni indirizzate contro gli abitanti delle regioni sud-orientali o contro i “russofoni” in quanto tali, e nemmeno contro loro singoli esponenti o settori. Né viceversa vi sono stati movimenti per l’autodeterminazione o lotte per la “difesa dei propri diritti” – ci sono stati solo piccolissimi gruppi dell’estrema destra o del sottobosco del Partito delle Regioni/del Partito Comunista che hanno rivendicato posizioni “nazionaliste russe”, ma stiamo parlando di gruppi di qualche centinaia di persone al massimo, che non hanno avuto alcuna eco nella società.

C’è ovviamente l’aspetto della lingua, che però è stato affrontato in modo disinformato e applicando schemi preconfezionati a una realtà estremamente complessa. In particolare, l’idea che ci sia un popolo “russofono” che sta lottando per i propri diritti è del tutto irreale. Nell’ultimo censimento del 2001 (i cui dati sono confermati nella loro essenza da indagini sociologiche recenti) le persone che si autodefiniscono “di lingua nativa russa” sono la stragrande maggioranza (percentuali intorno all’80%) nelle regioni di Donetsk e Lugansk, e più o meno la metà nelle regioni di Kharkov, Dnepropetrovsk, Odessa (tra il 40% e il 50% secondo le statistiche). Al di là delle statistiche del censimento, la realtà linguistica nel paese è molto più complessa. Innanzitutto, studi linguistici e sociologici hanno dimostrato che il russo è la lingua prevalente di comunicazione quotidiana non solo nel sud-est, ma in quasi tutto il paese, fatta eccezione per le regioni agrarie più occidentali. In generale, il russo è prevalente nelle aree urbane (anche in molte città dell’ovest) mentre l’ucraino prevale nelle aree rurali, spesso anche a est. Inoltre, è ovunque ampiamente diffuso passare dal russo all’ucraino mentre si parla, oppure usare un lingua in un ambito (per es. l’ucraino in ambito accademico) e un’altra in un altro ambito (per es. il russo in ambito aziendale) ed è altrettanto diffuso l’uso del “surzhik”, una lingua non codificata che mischia ucraino e russo. Il russo è la lingua largamente dominante nei media stampati, nell’economia e nell’industria culturale. Le TV nazionali sono in ucraino, ma ci sono edizioni dei telegiornali in solo russo e nei talk-show, per esempio, si passa tranquillamente da una lingua all’altra. Nella politica a livello nazionale e in parlamento è invece ritenuto d’obbligo parlare ucraino. Come tutti sappiamo, però non c’è una equivalenza tra lingua nativa/lingua parlata, da una parte, e identità nazionale dall’altra. Gli “italofoni” del Canton Ticino non si identificano come di nazionalità italiana, bensì come svizzeri, per citare solo un esempio a noi vicino. Torniamo allora ai dati del censimento, dando nuovamente la voce ai diretti interessati per riscontrare come si autodefiniscono in termini di identificazione nazionale. Se nelle regioni sud-orientali vi è una netta maggioranza di persone che si definiscono “di lingua nativa russa”, quelle che si definiscono “di nazionalità russa” sono ovunque in minoranza: nel “russo” Donbass si aggirano sul 40%, mentre nelle altre regioni si aggirano sul 20-25%. Inoltre, tutte le indagini più recenti indicano che la percentuale di coloro che si definiscono “di nazionalità ucraina” è aumentata negli ultimi anni. Insomma i russi dell’Ucraina sono in minoranza anche là dove la loro presenza è più consistente (per es. nel Donbass). Riassumendo, e basandoci su ciò che affermano non ricercatori chiusi nei loro studi, bensì gli stessi abitanti delle regioni del sud-est e del Donbass in particolare: oltre la metà dei russofoni si autodefinisce in modo chiaro come di nazionalità ucraina, pertanto non esiste un gruppo omogeneo, a livello di identità, catalogabile come “russofoni”. Il termine indica esclusivamente il fatto che tali persone affermano di essere nate da genitori che parlano prevalentemente russo. Riguardo a chi invece si definisce di nazionalità russa le cose sono semplicissime: sono chiaramente una minoranza, sia nel Donbass che in tutto il sud-est.

Ciò si riflette indirettamente, tra l’altro, in alcune indagini sociologiche condotte da agenzie indipendenti a maggio, che indicano come in nessuna delle regioni del sud-est l’opzione della separazione, dell’annessione alla Russia o della federalizzazione fosse maggioritaria, a differenza di quella di un’Ucraina unita, pur con una maggiore autonomia locale. Quindi, riassumendo quello che abbiamo visto fin qui, non esiste una “oppressione economico-politica” e non esiste una “oppressione nazionale” del centro/dell’ovest sul sud-est. Esiste allora una “oppressione linguistica”? Per rispondere dobbiamo andare a vedere nei dettagli la situazione.

In Ucraina esiste una legge sulle lingue che prevede per le regioni in cui vi è una quota della popolazione superiore al 10% che parla una lingua diversa dall’ucraino (quindi una legge fatta apposta per i “russofoni”, l’unico gruppo linguistico ucraino a superare tale soglia) la possibilità di introdurre questa lingua come seconda lingua ufficiale. Tradotto in pratica nel sud-est: scuole in lingua russa (che comunque esistevano già prima), uso del russo nei tribunali, modulistica in lingua russa ecc. Tutte le regioni del sud-est in cui vi sono “russofoni” applicano questa legge, solo che quest’ultima non prevede lo stanziamento di fondi per queste misure e il risultato è che la loro applicazione è carente, per esempio negli uffici spesso non sono disponibili moduli in lingua russa (ma li si può tranquillamente compilare in russo) e altri problemi di entità simile. Mai però, né in passato né ora, queste disfunzioni sono state ritenute dalla popolazione locale tali da spingerla a organizzarsi e mobilitarsi in qualche modo. Come abbiamo già visto, nessun’altra repressione linguistica è mai stata messa in atto e il russo è la lingua dominante in molti settori, anche istituzionali. A fine febbraio c’è stato il voto del parlamento ucraino, con una maggioranza risicata, per cancellare questa legge, una mossa da condannare senza mezzi termini come liberticida e sciovinista nei suoi intenti, che per fortuna sono rimasti solo intenti grazie al veto posto immediatamente dal presidente della repubblica ad interim. Si è trattato di un evidente tentativo dei politici che avevano appena conquistato il potere, tentativo rimasto per fortuna senza eco, di sfruttare a proprio vantaggio il desiderio popolare di vendetta contro i massacri perpetrati a Maidan dall’oligarcato dell’Ucraina Orientale al cui vertice c’era Yanukovich, contro le violenze degli squadristi “titushki” inviati dal Donbass a picchiare i manifestanti a Maidan e contro quelle dei Berkut provenienti dall’Est. La legge è esistita formalmente solo per poche ore, per essere poi subito annullata senza essere mai entrata in vigore. Non a caso, i diritti linguistici, al di là di dibattiti nei media o tra le élite politiche, non sono mai stati oggetto di mobilitazioni dal basso nel Donbass, né allora né nei mesi successivi. Durante le sparute mobilitazioni degli ultimi mesi nel Donbass l’aspetto dei “diritti linguistici” è praticamente assente (al massimo qualche slogan distratto qua e là nell’ambito di una coreografia preorganizzata). Se nella regione fosse in atto una lotta dei “russofoni” per difendere i propri diritti linguistici dovrebbe essere l’esatto contrario.

Rimane comunque il fatto, a prima vista assurdo, che in un paese in cui il russo è di fatto alla pari con l’ucraino e addirittura dominante in alcuni campi fondamentali, tale situazione non venga formalizzata con la dichiarazione del russo come seconda lingua nazionale. Uno dei motivi è sicuramente che mai si è avuta una mobilitazione di massa in tale senso, cosa abbastanza scontata in considerazione dell’assenza di una repressione della lingua russa: l’aspetto di una formalizzazione del ruolo del russo non è mai stato ritenuto sufficientemente rilevante né dalla popolazione russofona, né dai suoi esponenti politici. Su un altro lato, se si guarda bene al contesto generale e alla storia recente o meno, i motivi dei timori della parte ucraina riguardo a un’eventuale formalizzazione del ruolo del russo come lingua nazionale risultano chiari. L’Ucraina è vittima di un’oppressione imperialista russa ormai secolare, che risale ai tempi dell’Impero zarista ed è proseguita sotto l’Unione Sovietica, con soli brevi ed effimeri intervalli. Un’oppressione che è giunta vicino al genocidio, alla negazione della stessa esistenza di una lingua ucraina o alla sistematica repressione del suo uso (anche in epoche recenti), alla colonizzazione demografica o culturale, al tentativo di soffocare l’intellighenzia ucraina, anche con metodi omicidi. Le politiche del regime di Putin per un “mondo russo” o dei separatisti per la repubblica della “Novorossiya” (cioè “Nuova Russia”, termine utilizzato storicamente dagli sciovinisti zaristi che volevano eliminare la nazione ucraina) sono un proseguimento diretto, e rivendicato, di questa politica. E’ l’Ucraina che è stata costantemente, ed è ancora, sotto la minaccia dell’imperialismo russo, non il contrario e, se proprio vogliamo utilizzare queste categorie, è la nazione ucraina quella “oppressa” e quella russa nel suo complesso “l’oppressore”. Alla luce di tutto questo risulta chiaro che sì, una posizione di sinistra non può che essere a favore di una legge sulla lingua pienamente efficace e del russo come lingua nazionale in Ucraina accanto all’ucraino, e tutto ciò fin da subito, ma il vero ostacolo a un pacifico conseguimento di tale obiettivo è rappresentato, ieri come oggi, dallo sciovinismo imperialista russo.

Sulla base dei fatti riportati qui sopra e nel precedente capitolo, la tesi che io sostengo è che nell’Ucraina orientale sia in atto una lotta di natura essenzialmente politica, “antimaidan”, nella quale si incrociano principalmente: 1) la fretta di tutti gli oligarchi di mettere fine a ogni sviluppo di Maidan; 2) le successive lotte tra gli stessi per raggiungere nuovi equilibri (dopo che i precedenti erano stati mandati all’aria dall’uscita di scena dell'”oligarca degli oligarchi”, Yanukovich); 3) vari obiettivi imperialisti del Cremlino: mettere fine a Maidan e ai suoi possibili effetti contagiosi, mantenere l’Ucraina nella propria “sfera di influenza” ponendola sotto ricatto o rendendola inefficace la statualità (al limite, invadendola apertamente), dare ulteriore impulso internamente al proprio modello di stato rentier-militaristico, acquistare un maggiore peso internazionale per proiettarsi oltre il “proprio” spazio post-sovietico verso la Cina e, soprattutto, il Medio Oriente; 4) una “simpatia” per i separatisti ampiamente diffusa tra la popolazione che non ha nulla a che fare con l’autodeterminazione o la difesa dei diritti, bensì con l’opposizione al rischio di perdere con Maidan lo status di regione egemone e privilegiata, e con esso la sicurezza che in un modo o nell’altro è stata garantita dagli “oligarchi porci, ma oligarchi nostri”. Insomma, quello che non a caso in loco tutti hanno chiamato fino a poco tempo fa “Antimaidan” è nella sua essenza una controrivoluzione. Naturalmente ci sono altri fattori molto rilevanti, ma in ultimo non decisivi: dal tentativo delle varie divisissime e fragili fazioni politiche di Kiev di affermarsi tramite la guerra e il patriottismo, fino al tentativo degli altrimenti sgangherati leader dei separatisti di dare vita a una “internazionale nera” con il sostegno del Cremlino. La tesi della lotta dei “russofoni” per i propri diritti e dell’autodeterminazione è completamente contraddetta dai fatti.

 

4) Imperialismi

“L’Occidente in Ucraina sta conducendo una politica aggressiva, mirata soprattutto a fare entrare il paese nella Nato e ad accerchiare la Russia. Non si può certo sostenere il regime di Putin, ma la Russia è costretta a difendersi da questo accerchiamento. Inoltre, se c’è un imperialismo russo è comunque secondario – la nostra lotta deve concentrarsi su quello degli Usa (dell’Ue/della Nato)”

La sinistra sta registrando una pesante involuzione nelle analisi dell’imperialismo contemporaneo, e questo è pericoloso perché rende il suo antimperialismo inefficace e distaccato dalla realtà. La tendenza è quella ad applicare schemi passati a una realtà che si sta fortemente evolvendo, e il caso dell’Ucraina è eloquente a tale proposito. La politica di un allargamento aggressivo della Nato a Est è stata tipica dell’epoca Eltsin. Con la salita al potere di Putin e la stabilizzazione interna della Russia le cose sono progressivamente cambiate. E’ da una decina di anni che la Nato non persegue più attivamente una tale politica e ha optato piuttosto per un atteggiamento collaborativo con Mosca, con alterne fortune. Si tratta di un processo culminato nel 2008 nella rinuncia a prendere in considerazione un’entrata dell’Ucraina e della Georgia nella Nato, riconoscendo così di fatto una sfera di influenza di Mosca sullo spazio ex sovietico (paesi baltici esclusi, perché già inglobati nella Nato nella prima fase). Le forme di collaborazione tra Nato e Russia sono molte, e sono culminate nel 2012 con la concessione da parte di Mosca dell’uso di un base sul proprio territorio per il transito delle truppe Nato in Afghanistan. Allo stesso tempo l’era Putin ha comportato anche un’intensificazione dei rapporti tra Ue e Mosca, e vi è un forte livello di integrazione tra il capitale russo e quello dell’Europa Occidentale, che vede in prima fila l’Italia insieme alla Germania. Oggi la Russia è un paese altamente integrato nel sistema capitalistico internazionale, il fatto che una larga quota delle sue aziende sia a proprietà statale non ne altera il carattere puramente capitalista. Nonostante la sua debolezza economica (ma non bisogna dimenticare la sua assoluta rilevanza in campo energetico) la Russia rimane uno dei principali paesi imperialisti del mondo, grazie soprattutto al fatto di essere la seconda potenza militare e nucleare a livello globale. La Russia ha una propria “sfera di influenza” imperialista, cioè il cosiddetto spazio ex sovietico, e dispone di importanti leve soprattutto in Medio Oriente, ma anche in Asia. Negli ultimi anni, infine, la Russia è diventata il paese di riferimento per l’intera estrema destra europea, ruolo che il Cremlino coltiva attivamente come strumento delle proprie politiche imperialiste. Tutto questo ovviamente non toglie che la maggior parte dei paesi europei siano anch’essi imperialisti, che puntino a conquistare e difendere mercati e zone di influenza, anche se cercano di evitare un conflitto diretto con la Russia, indebolita ma pur sempre dotata di una imponente forza militare, e proiettata a recuperare gradualmente i territori perduti nel primo decennio dopo il crollo dell’URSS.

Se ci si attiene agli sviluppi concreti, e non agli schemi precostituiti, il ruolo di Ue, Nato e Usa nel conflitto ucraino è stato in realtà molto limitato, sicuramente di natura reattiva piuttosto che attiva, soprattutto per quanto riguarda gli Usa e la Nato. L’Ue è andata a interferire nelle politiche imperialiste regionali della Russia incentrate sull’Unione doganale/Unione eurasiatica trattando con Yanukovich un accordo di associazione dell’Ucraina all’Ue. Questo accordo avrebbe comportato una formalizzazione dei già intensi rapporti commerciali tra Ue e Ucraina e un loro incremento (l’export e l’import dell’Ucraina sono già più o meno divisi a metà tra Ue e Russia). La mossa di Bruxelles si è rivelata alla fine molto maldestra, perché a Putin è bastato un solo incontro con Yanukovich per fargli cambiare idea seduta stante. Successivamente, nel momento culminante di Maidan, la scelta dell’Ue, dopo consultazioni con gli Usa, è stata quella di spingere per un accordo tra opposizione e Yanukovich che salvasse quest’ultimo. Nel giugno di quest’anno l’accordo di associazione tra Ue e Ucraina è stato infine firmato in grande pompa, ma solo a livello formale. Putin ha immediatamente richiesto a Merkel di sospenderne la applicazione e Bruxelles ha accontentato a settembre la sua richiesta, rimandando l’eventuale avvio del processo di applicazione al 2016 e accettando che Mosca nel frattempo possa avere voce in capitolo riguardo a modifiche, anche radicali, dei suoi contenuti. L’Ue poi ha applicato sanzioni di una qualche portata solo ad agosto, quando il conflitto era ormai degenerato, non prima, o all’inizio, dell’intervento russo. La parte delle sanzioni che riguarda gli aspetti finanziari (divieto alle banche europee di prestare finanziamenti alla Russia con scadenze da tre mesi in su) è facilmente aggirabile ed è infatti stata subito aggirata con schemi facili da realizzare (grazie al fatto che le filiali delle banche occidentali in Russia sono soggetti giuridici russi, non Ue). Quella che riguarda il divieto di fornire tecnologia per progetti energetici o tecnologia passibile di essere utilizzata per scopi militari riguarda solo i nuovi, futuri progetti e potrà cominciare ad avere qualche effetto limitato nel corso del 2015, ed effetti consistenti solo più in là.

Per quanto riguarda gli Usa, la tesi secondo cui sarebbero stati gli Usa a fare saltare questo accordo non trova alcuna conferma negli eventi (i famosi “cecchini”, per esempio, avevano condotto la loro azione stragista prima della firma dell’accordo tra Yanukovich e opposizione con la mediazione dei paesi Ue – la strage è stata probabilmente una mossa di Yanukovich per alzare la posta in gioco e coinvolgere così la “comunità internazionale” al fine di giungere a un accordo che gli garantisse la sopravvivenza politica, mossa tipica dei despoti in situazioni analoghe – la piazza ha poi mandato all’aria la convergenza tra Yanukovich e gli imperialisti occidentali). Gli Usa in realtà hanno tenuto una posizione ben poco attiva riguardo all’Ucraina, se si guarda ai fatti e non alle dichiarazioni verbali di routine. Non hanno reagito a un evento senza precedenti nella storia europea recente come l’annessione per via militare e in sole tre settimane della fetta di uno stato (il caso della Crimea), non hanno reagito se non a parole all’azione dei militari russi nell’Ucraina orientale ad aprile, non hanno reagito nemmeno all’abbattimento del boeing malese (che, indipendentemente dalle reali responsabilità, era un’occasione d’oro per l’Occidente se avesse voluto un’escalation) e, infine, non hanno reagito con fatti concreti all’intervento diretto della Russia in Ucraina orientale a fine agosto. Non hanno mai adottato misure sostanziali di aiuto al governo ucraino, per esempio fornendo armamenti. Che aiuti militari non siano stati forniti lo dice lo stesso svolgimento del conflitto: se ci fossero stati, Kiev sarebbe riuscita facilmente a sbarazzarsi dei separatisti nella prima fase e nelle successive fasi non sarebbe caduta in uno stallo totale durante l’estate, non avrebbe registrato clamorose perdite negli accerchiamenti e non avrebbe subito una disfatta totale che la ha portata a capitolare a fine agosto. Le teorie secondo cui la Russia è stata accerchiata o vittima di cospirazioni e non poteva non rispondere sono pertanto prive di ogni fondamento, e non a caso chi le sostiene si basa solo su nebbiose “rivelazioni non confermate” o singoli episodi privi di rilevanza complessiva. Tutto questo si inserisce in un contesto di dinamiche imperialiste che stanno cambiando a livello mondiale e che vedono in particolare da anni in atto un disimpegno degli Usa dal ruolo di “poliziotto mondiale” che agisce in autonomia, al quale corrisponde in parallelo un’Europa occidentale eternamente divisa e in difficoltà a livello economico e politico. Questo non vuole dire che gli Usa e l’Ue non costituiscano più un pericolo e non siano più imperialismi di primo piano, al contrario, solo che il loro modo di agire è cambiato in modo sostanziale così come, con gli spazi lasciati così “aperti”, stanno cambiando i comportamenti di altri imperialisti. L’imperialismo russo, da parte sua, ha dimostrato con la crisi Ucraina di essere particolarmente aggressivo e di puntare a riacquisire un ruolo globale di primo piano, che intende intensificare altrove, in particolare in Medio Oriente (vedi il caso della Siria). E rappresenta un enorme pericolo perché per sua natura si basa principalmente sulla forza militare, ivi compreso il suo micidiale arsenale nucleare. Nel farlo, persegue fini di oppressione e guerrafondai che non sono alternativi, bensì analoghi per natura, a quelli degli Usa. Non è un “imperialismo secondario”, è un imperialismo che ha un proprio progetto oppressivo e allo stesso tempo è a tutti gli effetti parte dell’imperialismo mondiale.

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