Il moltiplicarsi di attacchi individuali di giovani palestinesi contro un bersaglio israeliano scelto a caso, impone una riflessione anche a chi ha sostenuto da sempre la causa palestinese contro l’oppressione coloniale sionista. Anche a chi, come me, ha sempre sostenuto che la scelta delle forme di lotta è compito di chi lotta contro l’oppressione. Naturalmente, prima di tutto, non si può mai dimenticare che quando l’asimmetria di armamenti è enorme, le scelte sono spesso quasi obbligate per i più deboli.
Durante la rivoluzione algerina, a un giornalista francese che chiedeva indignato: “perché mandate le vostre ragazze con la borsetta piena di esplosivo nei caffè europei di Algeri”, un esponente del FLN rispose: “Dateci i vostri carri armati, e noi vi daremo le nostre borsette esplosive”.
Tuttavia tra le armi vanno annoverate non solo i carri e le borsette, ma anche le ripercussioni di ogni azione nell’opinione pubblica internazionale, che non è impossibile raggiungere nonostante anche su questo terreno l’asimmetria tra i mezzi di cui dispongono le due parti sia enorme, forse perfino maggiore di quella puramente militare. E non c’è dubbio che alla causa palestinese verrà addebitata la responsabilità di queste azioni. Tuttavia pochi si domandano: a chi si può rimproverare l’auto lanciata su chi aspetta l’autobus, o l’assalto a una sinagoga di rabbini oscurantisti venuti da varie parti del mondo per rafforzare l’occupazione? Non sono atti programmati da una forza politica o militare, sono gesti di pura disperazione di chi è sicuro comunque di morire sotto i colpi dell’immenso apparato repressivo israeliano e, seguendo l’esempio biblico di Sansone, cerca di portare con sé il maggior numero di nemici possibile. Certo molto meno dei 3.000 di cui si vanta Sansone e di cui rende grazie al suo Dio, sempre per la già ricordata sproporzione di mezzi.
A settembre Amira Hass, la coraggiosa militante israeliana che vive tra i palestinesi, e la cui solidarietà è indiscutibile, aveva posto diciotto domande ad Hamas, che mi erano parse troppo dure. Tuttavia aveva ragione a chiedere: “1.Siete sempre dell’avviso che avete vinto la passata guerra? 2. Una vittoria di Hamas o dei Palestinesi? 3. Siete riusciti a mandare in confusione la più potente armata della regione. Sarebbe questa la [vostra] vittoria?”.
La domanda successiva chiariva il senso complessivo dell’intervento di Hamira: “4. Il turismo israeliano ha avuto un calo. Il bilancio dell’Istruzione israeliana subirà dei tagli. Il bilancio della Difesa riceverà maggiori finanziamenti. I residenti [israeliani] della zona limitrofa alla Striscia di Gaza sono frustrati, si sentono traditi e insicuri. Se la vittoria è consistita in questo, è valsa la pena di far pagare un prezzo[così alto] a Gaza e alla sua popolazione e perché?”
Un’altra domanda, la nona, metteva in discussione il bilancio complessivo positivo di Hamas sui risultati dell’ultima battaglia: “Avete detto che l’accordo di tregua con Israele è stato un grande risultato. Che cosa vi fa considerare che sia stato un tale risultato? Noi laici non riusciamo a capirlo. Intanto il blocco non è stato tolto e Israele non ha nessuna intenzione di toglierlo, la marina israeliana continua a sparare sui pescatori di Gaza e ad arrestarli quando escono fuori per procurarsi dal mare il [proprio] sostentamento da vivere, e i gazawi continuano a vivere nella stessa prigione che Israele gli ha costruito circa 20 anni fa.”
Ho riportato alcuni stralci di questo testo che avevo deciso allora di non pubblicare sul mio sito perché mi sembrava troppo severo verso Hamas, in un momento in cui era isolata e veniva attaccata su tutti i grandi mass media come estremista, mentre faceva solamente il suo dovere. Io comunque, dall’interno di un paese imperialista complice da sempre dell’oppressione coloniale sionista, non mi sentivo in diritto di giudicare e di dar lezioni a chi lotta in condizioni così difficili, e di questo sono sempre convinto.
Tuttavia nella sostanza mi sbagliavo: l’obiettivo delle diciotto domande era il trionfalismo di Hamas, che cantava vittoria senza domandarsi troppo a che prezzo, col risultato di rendere ancora meno vivibile la striscia di Gaza: la stessa Amira ricordava che “secondo quanto riportato nel sondaggio [del Centro Palestinese di Ricerca e Analisi Politica], il 43% dei residenti della Striscia, governata da voi, vuole emigrare( paragonato al 20% che vuole emigrare dalla Cisgiordania).” E chiedeva ai dirigenti di Hamas:”Non state minimizzando le vostre responsabilità per questo alto tasso di potenziali emigranti?”. In definitiva accettare il terreno di scontro scelto dallo Stato di Israele significa collaborare indirettamente al suo storico progetto di espulsione dei palestinesi dalla loro terra.
Ma ora vediamo un’altra conseguenza di quella guerra asimmetrica e del bilancio trionfalista di Hamas, che ne ha esaltato i risultati, in contraddizione con l’esperienza diretta di tanti palestinesi, della Striscia, della Cisgiordania o di Gerusalemme.
Hamas è stata in parte “bruciata” come era già accaduto ad al Fatah e all’OLP, e alle stesse organizzazioni laiche e marxiste, FPLP e FDLP, che negli anni Settanta avevano suscitato tante speranze anche nella sinistra rivoluzionaria europea. È apparsa a molti palestinesi un’organizzazione come le altre, più preoccupata della sua immagine che del popolo che le ha accordato la sua fiducia in elezioni regolarissime. È un’organizzazione sostanzialmente impotente, che punta soprattutto sui suoi razzi simbolici, di cui uno su diecimila si avvicina al bersaglio prescelto, e non delinea nessuna prospettiva al di fuori della eterna ripetizione dello stesso copione: fornire a Israele un pretesto per ripetere l’attacco diretto senza “prendere in considerazione il fatto che l’occupante che sostiene di essere attaccato è senza scrupoli”. Sono parole di Amira Hass.
Per ora chi tenta individualmente di riprendere la strada della lotta, anche a Gerusalemme che era sembrata relativamente tranquilla fino a poco fa, perfino nella laica Tel Aviv, perfino da parte di alcuni dei palestinesi con passaporto israeliano della Galilea, non fa riferimento a nessuna organizzazione. Ma presto potrebbero comparire riferimenti diretti allo Stato Islamico che, anche grazie alla propaganda occidentale che ne amplifica la portata, potrebbe apparire l’unica alternativa ai tanti sconfitti. Era quanto temevano gli osservatori più attenti: schiacciare ancora una volta militarmente Gaza, e umiliare Hamas, potrebbe aprire tragiche prospettive per Israele.
Di questo è consapevole sicuramente sia Hamas, che ha assunto la responsabilità di queste azioni a prescindere dall’esistenza di legami reali con gli attentatori, sia Marwan Barghuti, che ha le ha commentate incitando alla ripresa della lotta armata dal fondo delle prigioni israeliane in cui dovrebbe scontare quattro ergastoli. Ma Barghuti, che sarebbe stato l’unico dirigente dell’OLP in grado di risollevarne il prestigio e assicurare una ricomposizione del popolo palestinese, pesa inevitabilmente meno che in passato.
Troppe volte i possibili mediatori capaci di esplorare la strada per una soluzione politica sono stati fatti marcire in prigione fino all’ultimo, come sarebbe toccato allo stesso Mandela se il tempestivo intervento cubano a sostegno dell’Angola non avesse fermato l’arroganza dello Stato razzista sudafricano, costringendolo a cercare una soluzione chiedendo aiuto proprio all’uomo che per 27 anni era stato presentato come un “terrorista”. E come è toccato ad Arafat, rinchiuso nella sua semiprigione, e probabilmente avvelenato, nonostante avesse consumato quasi tutto il suo grandissimo prestigio nella ricerca vana di un compromesso in qualche modo accettabile.
La causa palestinese non ha oggi un solo Stato che le offra il pur minimo sostegno, a parte le ipocrite dichiarazioni di regimi infami e complici degli oppressori. Per questo è possibile che il gioco si complichi ed entri un nuovo inquietante giocatore, con alle spalle non si sa chi. Non sarà una fatalità, ma la conseguenza inevitabile di una lunga serie di crimini contro il popolo palestinese (crimini israeliani, statunitensi ed europei, ma anche mediorientali) che hanno bruciato ogni dirigente disponibile a cercare una soluzione.
Postilla
Per capire cosa intendo quando parlo di crimini israeliani, con la complicità di tanti Stati “rispettabili”, vorrei ricordare l’indifferenza con cui si procede a rappresaglie collettive distruggendo case, si tagliano ulivi secolari, si risponde alle pietre con i proiettili, si toglie acqua alle case e ai campi palestinesi per darla alle piscine dei coloni venuti da ogni parte del mondo, che spesso sono convertiti senza nessuna radice ebraica, solo attratti dalla politica coloniale di Israele e dalle facilitazioni economiche per chi partecipa alla spoliazione degli abitanti originari, con l’obiettivo della loro definitiva espulsione dalle loro terre.