L’articolo che mettiamo in linea oggi presenta in particolare i risultati di ricerche scientifiche molto recenti, che stabiliscono un legame diretto tra lo sviluppo della coltura e della commercializzazione dell’olio di palma in Guinea e nei paesi vicini e lo sviluppo della pandemia di Ebola. Sono lavori poco conosciuti, in quanto pubblicati su riviste scientifiche a diffusione limitata (biologia, epidemiologia, ecologia, ecc.) ed espressi in un linguaggio tecnico a volte difficile.
Questi mettono a fuoco le cause sociali e ambientali dell’attuale crisi sanitaria, in legame diretto con gli effetti della globalizzazione capitalista sui paesi dipendenti, e confermano gli articoli scritti in precedenza sull’argomento dall’autore.
Capitalismo globalizzato e ambiente patogeno: è possibile che la monocultura della palma da olio abbia provocato Ebola?
La pandemia di Ebola, che ha già causato la morte di oltre 5000 persone nell’Africa dell’Ovest, poterebbe ucciderne più di 90 000 nella sola contea liberiana di Montserrado, entro il 15 dicembre prossimo, se i mezzi impegnati sul terreno non aumenteranno in misura massiccia nei prossimi giorni[1]. In effetti, niente indica che le misure prese sin qui siano tali da fare arretrare in misura sensibile il flagello. D’altra parte è possibile venire a capo definitivamente di una tale crisi sanitaria senza agire sulle sue cause sociali e ambientali? Donde la necessità di approfondire la nostra comprensione di questa catastrofe, per trarne le necessarie lezioni, in particolare in una prospettiva eco socialista. Richiamerò dapprima cinque argomenti , sviluppati con più particolari nei miei articoli precedenti pubblicati su Viento Sur:
1. Il passaggio del virus dalla fauna all’uomo (spillover) è legato a trasformazioni qualitative dell’ambiente regionale causate dalla deforestazione, dall’accaparramento delle risorse naturali (minerali, legname, ecc.), dall’accaparramento delle terre (land grabbing) e dallo sviluppo delle monocolture per l’esportazione, fenomeni aggravati dal contesto mondiale del riscaldamento climatico.
2. L’aumentata esposizione delle comunità di villaggio a questo nuovo agente patogeno è causata dal regime di accumulazione per espropriazione che domina sempre più il capitalismo periferico, caratterizzato dalla privatizzazione accelerata dei beni comuni, dalla guerra per il controllo delle materie prime, dallo sradicamento e dalla migrazione forzata delle popolazioni.
3. L’incapacità di contenere la pandemia è il frutto del collasso dei sistemi di sanità e dei servizi pubblici in generale dei paesi colpiti, conseguenza diretta dell’imposizione dei brutali programmi di aggiustamento strutturale a spese dei compiti sociali elementari degli Stati.
4. L’alleanza neocoloniale dei grandi investitori stranieri e delle borghesie locali ha lo scopo di garantire il loro dominio esclusivo sulla rendita. Da qui l’autoritarismo e la repressione delle resistenze popolari, che suscitano di conseguenza una profonda diffidenza verso i poteri locali e le ingerenze straniere. Tale contesto politico mina oggi i tentativi di controllo dell’epidemia.
5. Il dominio della ricerca del profitto privato nell’industria farmaceutica, sterilizza lo studio sulle malattie dei paesi poveri finché non costituiscono un pericolo di pandemia mondiale o un rischio di bioterrorismo. Donde l’assenza di un vaccino o di trattamenti efficaci contro Ebola, circa 40 anni dopo la sua prima comparsa in Africa Centrale.
Lavori scientifici pubblicati nelle ultime settimane, in particolare nei campi della biologia, dell’epidemiologia e dell’ecologia umana, apportano nuove precisioni sul rapporto tra sviluppo dell’agricoltura intensiva per l’esportazione sottoposta alla pressione del mercato mondiale, in particolare dopo l’inizio della crisi finanziaria nel 2007-2008, e lo sviluppo della pandemia di Ebola. In generale, indicano che i circuiti del capitale aprono la via a quelli di germi patogeni estremamente pericolosi, in particolare nei paesi della periferia, che subiscono nella forma più brutale gli effetti sociali dell’accumulazione per espropriazione in corso. Cerchiamo di presentarne qui alcuni risultati importanti.
Ecosistemi ed epidemie.
Sappiamo ormai che il virus dell’Ebola è presente in Africa Occidentale da molti anni: in primo luogo, perché anticorpi contro molte delle sue varietà sono stati trovati in campioni di sangue prelevati in Sierra Leone cinque anni fa; inoltre perché le prime analisi del genoma del ceppo attivo da più di dieci mesi permettono di datare la sua comparsa nella regione alla metà degli anni 2000[2]. Quindi, la domanda è: perché le infezioni puntuali provocate da questo germe, non diagnosticate come tali prima dell’inverno 2013-2014, sono improvvisamente sfociate in una epidemia? Perché, secondo uno studio recente: «cambiamenti di politica o di struttura socio-economica, in particolare dell’economia che regola le piantagioni, possono “de-sterilizzare “un ecosistema naturale entro il quale un agente patogeno poteva essere stato mantenuto finora in equilibrio a un basso livello di attività, o non aveva ancora trovato modo di svilupparsi»[3]
Al contrario, la piccola agricoltura contadina tradizionale, con la sua diversità spaziale, temporale e modale, pone numerosi ostacoli fisici e funzionali (che gli statistici chiamano «rumori stocastici») contro la moltiplicazione esponenziale di numerosi germi. Alcuni ricercatori cercano in quindi di determinare, per ogni tipo di ecosistema, quali modificazioni socioeconomiche possono facilitare l’evoluzione e la propagazione degli agenti patogeni. Ad esempio, sembra proprio che la mercificazione delle colture da frutta e gli effetti delle politiche governative che portano all’espropriazione delle comunità rurali abbiano favorito la crescita della densità degli uomini e degli animali attorno alle colture per l’esportazione, e la moltiplicazione dei contatti all’interno di ogni specie e tra diverse specie. Tale aumentata concentrazione di virus in uno spazio circoscritto, ha favorito la loro proliferazione a causa dell’«effetto Allee» (che stabilisce una relazione diretta tra densità e crescita di una popolazione.
Questo modello suggerisce la possibilità che, in certe condizioni, gli «attriti» propri di un ecosistema, che impediscono la circolazione dei germi, possano essere brutalmente ridotti. E questa nuova «fluidità» non permette più a un intervento di urgenza di contenere efficacemente la circolazione dei virus per assicurarne la regressione spontanea. A questo punto, la lotta contro la pandemia non può più fare a meno di misure strutturali finalizzate a restaurare la «viscosità» del sistema[4]. Il contenimento di una pandemia presuppone dunque la capacità di intervenire anche sulle trasformazioni in corso dei modi di produzione agricoli, silvicoli e minerari, realizzati sotto la pressione dell’economia mondiale. Una tale politica esige un’azione cosciente della popolazione interessata per resistere alle esigenze del mercato internazionale in una prospettiva sociale ed ecologica.
«Tracciare la comparsa delle malattie seguendo i circuiti del capitale»
Il bio-ecologista statunitense Robert G. Wallace (University of California, Irvine), tra altri, difende oggi «l’unità strutturale della salute» (Structural One Health). Questi ricercatori propongono lo sviluppo di «una nuova scienza che tracci l’origine delle malattie seguendo i circuiti del capitale»[5]. Ad esempio, se l’Ebola è potuto rimanere confinato per anni nella fauna selvatica, la fine di questo periodo di «latenza» e l’epidemia incontrollata che ha provocato, sarebbero dovute a trasformazioni importanti degli ecosistemi dell’Africa Occidentale, legate alle mutazioni del modo di produzione dell’olio di palma. Il primo focolaio di contagio, in un villaggio vicino a Gueckedou, si trova in effetti in una zona densa di foreste che ospita un mosaico di villaggi e di piantagioni del medesimo tipo. Si sa che le palme da olio attirano in particolare i grandi pipistrelli frugivori della foresta, ospiti privilegiati del virus, che possono trasmetterlo all’uomo con le urine, gli escrementi o la saliva, cosa che non implicherebbe necessariamente il consumo di carne della boscaglia. La regione vicina di Kailahun (Contea di Lofa) in Liberia, presenta caratteristiche analoghe, in più aggravate da uno sviluppo massiccio del land grabbing[6].
Vero che la palma da olio è sfruttata allo stato naturale e coltivata da secoli in Africa Occidentale. Ma sotto la pressione della domanda internazionale, i suoi cicli di riposo sono sempre più brevi, da 20 anni negli anni 1930, a meno di 10 anni negli anni 2000, comportando un aumento della densità delle piantagioni. In Guinea, la coltivazione di questi alberi ha avuto un’espansione recente: 15 000 ettari dovrebbero permettere di commercializzare 84 000 tonnellate di olio entro il 2015[7]. E anche se il settore artigianale tradizionale continua a dominare questa attività, la Guinean Oil Palm and Rubber Company (SOGUIPAH), un’impresa statale, è servita da cinghia di trasmissione alle pressioni dei mercati esteri: introduzione di una varietà ibrida più produttiva, i cui semi possono essere ottenuti solo dalla compagnia[8], requisizione di terre ed espulsione degli abitanti, moltiplicazione dei contratti di affitto, catene di produzione razionalizzate, interventi polizieschi per reprimere le resistenze popolari.
L’«aiuto allo sviluppo» ha accentuato tali dinamiche, poiché la Banca Europea d’Investimenti ha finanziato di recente la quadruplicazione della capacità di raffinazione industriale della SOGUIPAH, che ora proibisce ai piccoli produttori di estrarre il loro olio in modo artigianale, pena il carcere. Questi sviluppi producono la privatizzazione dei beni comuni: ostacoli crescenti al libero sfruttamento delle palme da olio naturali o allo sviluppo di piccole piantagioni private su debbio. Quindi, anche se in Guinea non ci sono ancora grandi sfruttamenti multinazionali, come in Liberia e Sierra Leone, «l’olio di palma vi rappresenta un caso tipico di consolidamento strisciante [della monocoltura per l’esportazione], di privatizzazione, di commercializzazione e di capitalizzazione [di tale attività], che fanno arretrare la produzione artigianale. Quindi, anche se per ora in Guinea nessuna compagnia privata pianta direttamente palme da olio, sotto l’effetto di una geografia relazionale, l’impatto del mercato mondiale sull’agroecologia locale comincia già a farsi sentire»[9].
La violenza dell’epidemia di Ebola in Africa Occidentale non fa che trasporre sul piano sanitario quella che presiede alla distruzione degli ecosistemi (deforestazione), all’espropriazione delle comunità rurali (privatizzazione) all’estremo indurimento delle condizioni di lavoro nei settori dell’esportazione (supersfruttamento), ma anche allo smantellamento degli ultimi sistemi sociali stabiliti dagli Stati (piani di aggiustamento strutturale). Essa annuncia il prezzo che il capitalismo globalizzato si appresta a far pagare alle popolazioni, in particolare a quelle più povere e più esposte, per la mercantilizzazione sempre crescente delle loro economie, e per gli squilibri ambientali crescenti che genera. Ragione di più per combatterlo in nome di un progetto ecosocialista che non sia considerato un «lusso» per il Nord, ma una necessità urgente per il mondo intero.
[1] Fishman, D e Tuite, A.R., «Ebola: No Time to Waste», The Lancet, 24 ottobre 2014.
[2] Schoepp, R.G. et al., «Undiagnosed Acute Viral Febrile Illnesses , Sierra Leone », Emerging Infectious Diseases, 20, 2014, pp. 1176-1182; Gire, S.K. et al., «Genomic Surveillance Elucidates Ebola Virus Origin and Transmission During the 2014 Outbreak», Science,345, 12 settembre 2014, pp. 1369-1372.
[3] Wallace, R.G. et al., «Did Ebola Emerge in West Africa by a Policy-Driven Phase Change in Agroecology?», Environement and Planning, 46, 2014 (in stampa) pubblicato in linea il 20 ottobre 2014.
[4] Osterholm, M.T., «What we need to fight Ebola», Washington Post , 1° agosto 2014.
[5] Wallace, R.G. et al.,«The Dawn of Structural One Health: A New Science Tracking Disease Emergence Along Circuits of Capital», Social Science and Medicine, 2014 (in stampa, disponibile in linea)
[6] Fouladbash, L, Agroforestry and Shifting Cultivation in Liberia: Livelihood Impact, Carbon Tradeoffs, and Socio-political Obstacles, PhD Thesis, Natural resources and Environment, University of Michigan, 2014.
[7] Carrere, R., Oil Palm in Africa: Past, Present and Future Scenarios, World Rainforest Movement, Montevideo, 2010.
[8] In caso di rottura di contratto, l’utilizzo dei semi degli alberi di prima generazione comporta una diminuzione di rendimento del 40% (Delarue, J., et Cochet, H., «Systemic Impact Evaluation: A Methdology for Complex Agricultural Development Projects. The Case of a Contracting Farming Project in Guinea», European Journal of Development Research, 25, 2013, pp. 778-796.
[9] Wallace et al., «Did Ebola Emerge….», art. cit.
*Articolo scritto per Viento Sur: http://www.vientosur.info/spip.php?…