All’inizio di quello che sarà un lungo e drammatico inverno tutte le principali parti in causa nel conflitto ucraino sembrano avere assunto una posizione di attesa. Ma dietro a questa facciata non mancano gli sviluppi preoccupanti, dalla situazione economica sempre più drammatica in Ucraina, in Russia e nel Donbass, fino alle grandi manovre nell’oligarcato e tra i separatisti. Sulla scena incombe sempre il rischio di un riaprirsi dei combattimenti in primavera.
Siamo solo all’inizio di quello che sarà sicuramente un lungo inverno, ma la situazione politica e militare in Ucraina appare già pienamente congelata. Per la prima volta dopo la firma degli accordi di tregua di Minsk sia il governo di Kiev sia i separatisti hanno affermato che da alcuni giorni il cessate il fuoco tiene. L’annunciata ripresa delle trattative però non c’è stata, né sono state fissate date per un riavvio dei colloqui tra le parti in conflitto. Sul piano diplomatico si alternano dichiarazioni dure e dichiarazioni concilianti, mentre i burocrati delle cancellerie mettono in circolazione le ipotesi più svariate sul futuro del conflitto, da un possibile compromesso incentrato sulla federalizzazione dell’Ucraina fino a una ripresa della guerra non appena finito il gelo invernale. Non è chiaro nemmeno cosa accadrà con le sanzioni, che cominceranno progressivamente a scadere a partire da marzo e per il rinnovo delle quali sarà difficile trovare a Bruxelles la necessaria unanimità. Su tutto incombe l’incognita della situazione economica, disastrosa in Ucraina, in caotico e precipitoso calo in Russia e ai limiti della fame nel Donbass.
L’impressione è che tutte le parti in causa, e in particolare Mosca e Bruxelles, semplicemente non abbiano alcuna idea precisa su come uscire dal garbuglio ucraino senza pagare un prezzo troppo alto. L’Ue da una parte non può permettersi uno scontro diretto con il vicino russo, che avrebbe effetti pesantemente destabilizzanti e che comunque il grande capitale del continente non vuole. Dall’altra si rende conto, Germania in prima fila, che Putin deve essere messo in qualche modo in riga perché il conflitto, così come altre leve di cui dispone il Cremlino, rischia di diventare un’occasione per ulteriori divisioni interne all’Unione, che sta passando attraverso una difficilissima fase economica sulla cui risoluzione si sono già aperte spaccature politiche. A tale proposito non è a nostro parere casuale che sia arrivata proprio in queste settimane la notizia dei finanziamenti russi al Fronte Nazionale francese, un partito in forte ascesa anche sull’onda di queste difficoltà economiche: Putin può giocare la carta degli aiuti all’estrema destra euroscettica in numerosi altri paesi dell’Ue, a cominciare dall’Italia. Mosca però si trova in una situazione ancora più difficile. La caduta apparentemente inarrestabile del rublo e il crollo dei prezzi del petrolio, insieme al gas la principale fonte di introiti per la Russia, rischiano di dare un colpo mortale al già debole e da lungo tempo affannato “modello Putin”. Più ancora che nei mesi scorsi, Mosca non può permettersi una guerra prolungata per il Donbass e la sua posizione economicamente debole rende meno efficaci anche le sue leve diplomatiche. Non bisogna però sottovalutare l’aspetto interno: la guerra è un’ottima carta da giocare per ricompattare la nazione e l’élite burocratica che la guida, e di un tale ricompattamento Putin potrebbe avere presto bisogno, visto che da una parte sembrano aprirsi spaccature profonde tra l’ala favorevole a riforme nell’economia e rapporti più concilianti con l’occidente e quella dei falchi maggiormente legati al complesso militare-industriale, mentre dall’altra la voragine economica rischia di aprire spazi per mobilitazioni sociali o “antipolitiche” della popolazione.
Nuovo governo a Kiev, oligarchi in stand-by e divisioni tra i separatisti
In questa situazione congelata le uniche novità fattuali rilevanti sono state quelle registrate a Kyiv. Gli inattesi risultati delle elezioni del 26 ottobre, che hanno visto una parità di fatto tra il Blocco Petro Poroshenko e il Fronte Nazionale di Arseniy Yatsenyuk, sono stati seguiti da una lunga “coalizìade”, come i media ucraini hanno definito le complesse trattative per la formazione di un governo e la spartizione delle relative poltrone. Non ci addentriamo qui nei particolari spesso barocchi dei mercanteggiamenti tra le diverse fazioni, basta dire che a un certo punto il vicepresidente statunitense Joseph Biden ha dovuto prendere l’aereo per Kyiv al fine di forzare un compromesso tra Poroshenko e Yatsenyuk. Il risultato è un governo di “grande coalizione” (ne fanno parte praticamente tutti i partiti, con l’eccezione vistosa del Blocco di Opposizione nato dalle ceneri del Partito delle Regioni) che è espressione degli equilibri precari raggiunti tra i due leader e, dietro le quinte, tra gli oligarchi. Il particolare che più ha richiamato l’attenzione dei media internazionali è quello della nomina di tre ministri stranieri, nello specifico la statunitense di origini ucraine Natalya Yaresko (ministro delle finanze), il lituano Aivaras Abromavicius (ministro dell’economia) e il georgiano Alexander Kvitashvili (ministro della sanità). La prima, già a capo della sezione economica dell’ambasciata Usa a Kyiv, è comproprietaria di un fondo di investimento, il secondo proviene anch’egli dal mondo della speculazione finanziaria, mentre il terzo è stato responsabile in Georgia di una riforma del sistema sanitario di chiaro stampo neoliberale. Salta subito all’occhio il particolare dei tre paesi di provenienza: da una parte una cittadina degli Usa, tutori dell’ordine neoliberale mondiale, dall’altra cittadini di due paesi che sono allo stesso tempo ligi esecutori di tale ordine e simbolo dell’antiputinismo. La presenza di questi “ministri stranieri” (naturalmente subito diventati anche cittadini ucraini) svolge numerose funzioni. Innanzitutto, quella di dare un tocco d’immagine al governo con la presenza di persone estranee a un mondo politico ucraino corrotto e poco popolare (come testimoniato tra le altre cose dalla bassa affluenza alle urne). Inoltre si tratta chiaramente di persone incaricate di fare da tutori alle riforme e che rappresentano una garanzia sia per i governi imperialisti sia per il grande capitale internazionale. Forse però il motivo ultimo della loro scelta è stato che la presenza di tre estranei al mondo politico ucraino fa da cuscinetto, in un momento da tutti i punti di vista drammatico per l’Ucraina, tra le fazioni opposte di Poroshenko e Yatsenyuk e dell’annesso oligarcato. Rimane il fatto che in tutti e tre i casi si tratta di una soluzione umiliante per il paese, che non manca certo di risorse umane e di potenziale democratico.
Dietro a tutto questo ci sono le manovre degli oligarchi, che dopo avere visto i propri equilibri interni sconvolti da Maidan ora cercano faticosamente di ricostruirli, in collaborazione con l’élite politica. Al tema ha dedicato un’interessante analisi il sito ucraino “Insider”, secondo cui in questo momento sarebbe in atto una tregua tra le principali fazioni oligarchiche del paese. Sia Igor Kolomoyskiy che Dmitro Firtash sono oggi ben posizionati in parlamento e dispongono di importanti leve nel governo. Più complessa la situazione di Rinat Akhmetov, che tuttavia è lungi dall’essere stato sconfitto. Suoi uomini sono presenti nel Blocco di Opposizione e sono in grado di fare sentire la loro influenza anche a Kiev. Inoltre Akhmetov rimane di gran lunga l’oligarca numero uno nel Donbass, governato da uomini a lui particolarmente vicini nelle zone occupate dai separatisti, i quali mai, al di là degli esercizi verbali a uso propagandistico, hanno intrapreso iniziative che intaccassero le sue proprietà. E’ vero che la regione è in ginocchio dopo la guerra, ma non bisogna dimenticare che se un giorno si arriverà a un compromesso con Kyiv l’oligarca di Donetsk ha in mano tutte le carte vincenti in quella che rimane potenzialmente l’area economica più ricca, e quindi più “rapinabile”, dell’Ucraina.
A questo proposito è interessante un articolo di Pavel Kanygin, uno dei più attenti osservatori della situazione del Donbass, pubblicato recentemente dalla “Novaya Gazeta”. Secondo il giornalista la linea prevalente al Cremlino in questo momento è quella di fare sì che il Donbass rimanga parte dell’Ucraina con qualche forma di autonomia. Il principale fautore di questa linea sarebbe Vladislav Surkov, assistente di Putin, e la svolta definitiva troverebbe una conferma nella recente rimozione di uno dei principali responsabili della politica del Cremlino riguardo ai separatisti, Boris Rapoport. Surkov, secondo Kanygin, sarebbe la mente dietro alla recente pulizia all’interno delle fila dei separatisti, e in particolare dietro alla rimozione del comandante Igor Bezler “Bes” e del cosacco Kozicyn. Il primo era troppo indipendente e stava andando troppo velocemente verso un compromesso con Kiev per un Donbass autonomo all’interno dell’Ucraina (correvano voci di suoi contatti con l’oligarca Kolomoiskiy), il secondo era semplicemente troppo incontrollabile e le sue truppe erano le principali responsabili del caos militare e politico che regna nella Repubblica di Lugansk. Sempre secondo la ricostruzione di Kanygin, in un primo tempo il principale candidato alla guida del Donbass separatista dopo il ritiro di Igor Strelkov era Aleksandr Khodakovskiy, particolarmente vicino all’oligarca Akhmetov ed evidentemente disponibile a compromessi con Kiev. La sua impopolarità nell’area, così come il progressivo disgregarsi delle truppe sotto il suo comando, hanno però spinto il Cremlino, sempre in consultazione con Akhmetov, a scegliere Aleksandr Zakharchenko. Si tratta di una soluzione di compromesso, visto che fino ad allora Zakharchenko era stato una figura di secondo piano estranea alle lotte intestine tra i separatisti, da una parte, mentre dall’altra l’organizzazione di cui era membro, Oplot, si era molto rafforzata in loco. Oplot, lo ricordiamo, è una formazione di squadristi creata a Kharkov negli anni scorsi da un potente deputato locale del Partito delle Regioni, Aleksandr Bobkov, e da quello che è stato poi l’ultimo primo ministro del regime di Yanukovich, Sergey Arbuzov. L’organizzazione ha collaborato con un altro potente politico pre-Maidan, Viktor Medvedchuk, che è stato tra l’altro inaspettatamente protagonista delle trattative che hanno portato alla tregua di Minsk. Oplot, estranea al Donbass essendo sempre stata un’organizzazione attiva a Kharkov, è entrata sulla scena delle repubbliche insediandosi a Donetsk già a marzo, distinguendosi in particolare per avere difeso le proprietà dell’oligarca Akhmetov con il consenso dell’ala “dura” di Strelkov e Boroday. Nel Donbass quest’ultima continua comunque a contare tra i propri sostenitori alcuni noti comandanti, come Mozgovoy, Givi e Motorola, tutti sostenuti al Cremlino dalla fazione del complesso militare industriale, che però in questo momento sembra essere in minoranza. Da rilevare comunque una notizia passata in secondo piano, ma indicativa del clima diplomatico che regna riguardo al Donbass. Quando nei la settimana scorsa il previsto riavvio dei negoziati tra Ucraina, Russia, Osce e separatisti sul modello di Minsk è stato annullato all’ultimo momento, i primi tre hanno emesso un comunicato congiunto in cui hanno accusato duramente la leadership separatista di avere proposto la presenza di “rappresentanti non adeguati”, di avere “evitato discussioni fattuali sulla cessazione delle operazioni militari e il ripristino della pace del Donbass” e di avere in ultimo “fatto fallire le consultazioni previste”. Non solo le parole dure, ma anche il fatto che un comunicato di questo tono sia stato emesso congiuntamente da Ucraina, Russia e Osce ci sembra molto eloquente rispetto alla fase attuale.
Lo spettro del default in Ucraina
Come già ricordato, la situazione economica dell’Ucraina rimane drammatica. Il neoministro dell’economia Abromavicius ha detto senza peli sulla lingua che il paese si trova in situazione di default di fatto, valutazione del tutto realistica. Le riforme che si prevede di avviare non hanno nulla di fantasioso e replicano passo per passo le ricette applicate altrove nel mondo in situazioni analoghe con esiti pesantissimi per la popolazione e senza risultati positivi sul piano economico, se non di natura passeggera. Si parla cioè di innalzamento dell’età pensionistica e di riforma del codice del lavoro per aumentare la “flessibilità”, nonché di tagli alla spesa pubblica e (ovviamente non in modo esplicito) di compressione dei salari. Si tratta di riforme che per la maggior parte erano già state avviate sotto Yanukovich e che ora dovrebbero subire una netta accelerazione. L’obiettivo è quello di garantire nella massima misura ai creditori esteri, cioè banche, governi e istituzioni internazionali, il recupero dei soldi che hanno foraggiato in passato il regime di Yanukovich o, negli ultimi mesi, quello di Poroshenko. Ironia della sorte, tra di loro in prima fila c’è la Russia di Putin. Da rilevare infine che in questa situazione caotica continuano i segnali che confermano come le fazioni al governo tengano la carta neofascista come variante di riserva. Dopo i neofascisti portati in parlamento da Yatsenyuk, e la nomina di un neonazista a capo della polizia della regione di Kyiv, il presidente Poroshenko ha concesso la cittadinanza ucraina a Sergey Korotkih, un noto criminale neonazista bielorusso dalla lunga fedina penale che ha combattuto nel battaglione Azov. Nel paese in generale regna un clima di artificiale patriottismo sapientemente alimentato dall’alto per cui anche solo denunciare fatti del genere viene considerato un “tradimento”, clima che va a esclusivo vantaggio dell’oligarchia politica ed economica.
Lo spettro della fame nel Donbass
Se per l’Ucraina si può parlare di baratro, nelle zone del Donbass controllate dai separatisti la situazione è direttamente da incubo. Si moltiplicano le notizie che parlano di morti di fame, anche se non vi sono conferme affidabili. Secondo alcune testimonianze, i casi di morte per distrofia (per fame) vengono occultati come generici arresti cardiaci al momento della stesura dell’atto di morte. L’impossibilità di verificare queste voci è dovuta tra l’altro al sistema di repressione totale e di censura generalizzata vigente nelle “repubbliche” separatiste, dove fin dall’inizio, e non solo ora, è mancata qualsiasi mobilitazione attiva di base, fatto a cui i comandanti e i leader hanno sempre sopperito con la violenza e il totale controllo poliziesco dall’alto. Il fatto che tali voci trovino spazio non è però solo dovuto alla propaganda ucraina (che in realtà non ha insistito più di tanto su questo argomento), ma anche al fatto che la situazione è tale da renderle credibili. Sul sito indipendente Colta.ru la giornalista Ekaterina Sergackova ha tentato una ricostruzione della situazione sulla base di testimonianze di attivisti umanitari che operano nelle aree controllate dai separatisti. Le prime vittime della miseria generalizzata di questo primo inverno dopo la guerra estiva sono gli anziani e gli invalidi, rimasti privi di pensioni e sussidi. In estrema difficoltà sono anche le famiglie che non ricevono stipendi da mesi. A Donetsk, Lugansk e negli altri centri urbani maggiori il dramma non è visibile perché vi giunge la maggior parte degli aiuti umanitari russi e sono attive organizzazioni di volontari o fondi come quello dell’oligarca Akhmetov. Ben diversa è la situazione in numerosi centri minori. Qui gli aiuti giungono già saccheggiati dai vari boss delle “repubbliche popolari”. I separatisti poi non hanno organizzato alcun sistema di distribuzione a domicilio per chi a causa dell’età o della malattia non è in grado di ottenerli facendo file in piazza e queste persone sono pertanto abbandonate a se stesse. Secondo “Colta.ru” a Krasnopartizansk recentemente vi sarebbe stata addirittura una “rivolta della fame” durante la quale le donne locali hanno circondato una sede dei separatisti chiedendo i sussidi promessi e mai corrisposti, nonché la distribuzione di pasti caldi. L’ex comandante Strelkov ha parlato anch’egli di decine di morti per fame a Donetsk e Lugansk, ma ha tutto l’interesse per farlo perché così scredita la fazione rivale attualmente al potere nelle “repubbliche”. C’è da sperare quindi che le notizie di morti per fame siano solo un’esagerazione messa in giro ad arte, ma la situazione è comunque senza dubbio al limite della catastrofe. Così chiude il suo “j’accuse” la giornalista Sergackova: “I convogli umanitari arrivano, ma gli aiuti non giungono a chi ne ha bisogno. Anna Netrebko [noto soprano russo] consegna un milione di rubli a Oleg Tsarev [presidente delle “repubbliche popolari confederate”, già boss del Partito delle Regioni], ma gli aiuti non vanno a chi fa la fame e vengono invece destinati ai lavori di restauro del teatro d’opera di Donetsk, che non ha mai subito danni. I funzionari e i combattenti della RPD e della RPL ricevono lo stipendio dalla Russia e pranzano nei ristoranti più cari, ordinando ostriche a sei dollari l’una. Intanto intorno passano persone che fanno la fame, le stesse persone per le quali queste ‘repubbliche’ dovrebbero essere state fondate”.
In attesa del disgelo
Colpisce il fatto che la Russia, al di là dei convogli umanitari che bastano, se bastano, solo a evitare la fame generalizzata, ha chiaramente lasciato l’economia del Donbass ai suoi destini dopo la vittoria militare di fine agosto. Si tratta di una posizione difficile da interpretare. Che Mosca dopo il successo ottenuto ad agosto con un intervento palese non avesse intenzione di spingere troppo il piede sull’acceleratore era risultato subito evidente quando aveva rinunciato, insieme ai separatisti, alla conquista di Mariupol, che in quel momento era una preda militarmente molto facile (altra questione è il fatto che probabilmente avrebbe incontrato l’opposizione di una parte consistente della popolazione). Che però ora lasci addirittura cadere il Donbass in una catastrofe umanitaria appare a prima vista poco logico. Con ogni probabilità l’attuale inerzia è dovuta a una paralisi interna conseguente, come già abbiamo accennato, alla crisi economica sistemica che Mosca si trova ad affrontare, con il conseguente approfondirsi delle lotte intestine tra fazioni politiche contrapposte. A questo si aggiunge il fatto che la Russia si trova di fronte un Occidente che a sua volta sta agendo per inerzia e senza seguire una linea chiara. Sarà banale, ma l’interpretazione più probabile è che tutti attendano la primavera, quando in Russia sarà più chiaro cosa succede con il rublo e con gli introiti petroliferi, quando si vedrà come si saranno risolti gli equilibri interni a Kyiv e se l’Ucraina entrerà o meno ufficialmente in default, quando forse sarà più chiaro verso quali soluzioni economiche e di compromesso interno si indirizzerà l’Ue (il nodo centrale è l’acquisto di bond da parte della Bce, con tutte le sue conseguenze sul piano degli equilibri politici) e come si svilupperanno gli eventi nel teatro geopoliticamente molto più importante del Medio Oriente, tra Isis, Siria e trattative con l’Iran. L’aspetto inquietante rimane naturalmente il fatto che in primavera, finito il gelo invernale, chi lo riterrà in quel momento utile potrà facilmente tornare a ricorrere all’opzione militare.