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benyamin-netanyahou-le-president-malien-642x313Al di là dell’inevitabile emozione e della legittima condanna, come (re)agire all’assassinio di una dozzina di persone nei locali di Charlie Hebdo e fuori, di cui buona parte della redazione, seguito da quello di altre quattro persone in un supermercato kasher di Porte de Vincennes? E soprattutto come non re/agire?

Non si tratta, infatti, di urlare con i lupi dell’estrema destra e della destra estrema, indistintamente, che additano già l’insieme dei musulmani che vivono in Francia, e magari in tutto il mondo, come responsabili collettivi e i colpevoli provati di quest’azione, in nome della presunta natura intrinsecamente criminale dell’islam o del presunto “scontro di civiltà”, che lo renderebbe incompatibile con la modernità occidentale. Ciò facendo, queste correnti non fanno che continuare e aggravare la loro normale propaganda razzista, di cui l’islamofobia costituisce una dimensione essenziale, additando tutti/e quelli/e quelle che mettono insieme sotto il nome di “immigrati” come capri espiatori gravati di tutti i mali, reali o immaginari, che ci assillano e come bersagli predestinati, che alcuni non hanno tardato a perseguire nelle ultime ore prendendosela con alcune moschee, negozi o ristoranti frequentati da musulmani.
Di fronte a queste imprese di strumentalizzazione politica dell’odio razziale occorre continuare a ricordare che, come tutte le religioni, l’islam cambia nello spazio e nel tempo e che non lo si può ridurre alle sue tendenze fondamentaliste o integraliste e, meno ancora, ai movimenti, gruppi o individui che possono richiamarsi al jihadismo. Va altresì ricordato che, dando origine a tali sviluppi, l’islam contemporaneo non è un’eccezione: omologie esistono oggi anche in seno al buddismo, all’ebraismo o al cristianesimo (per limitarsi a religioni che si vogliono universali) – cosa di cui peraltro taluni movimenti di estrema destra sono una diretta manifestazione. Ed è per questo che va infine ricordato che la critica della religione, di tutte le religioni, è e resta indispensabile e legittima, specie quando portano all’intolleranza e soprattutto quando cercano di dar vita a regimi teocratici.
Tuttavia, non si tratta neanche di confondere le nostre voci o, meglio, la nostra assenza di voce (significherebbe chiederci di tacere) con tutti quelli che ci chiamano oggi, come un secolo fa, alla Santa Alleanza (Union Sacrée), sia nella sua versione di destra (la difesa della Nazione – se non dell’ordine e della legge), sia nella sua versione di sinistra (la difesa della Repubblica). Significherebbe dimenticare che le attuali discriminanti di fondo non sono tra i Francesi e quelli che non lo sono o che, pur essendolo formalmente, sono sospettati di non esserlo realmente o di non meritare di esserlo – con il che si fa presto, peraltro, a ritrovarsi sul terreno dell’estrema destra nazionalista dalla quale si pretende di distinguersi. Separano capitalisti e salariati, donne e uomini, nativi e stranieri in parte privi dei diritti dei primi, gruppi “etnicizzati” o “razzializzati” da quelli che li stigmatizzano, regioni e nazioni “ricche” e “sviluppate” e quelle che lo stesso sviluppo destina a un sottosviluppo costantemente aggravato, ecc. Significherebbe anche dimenticare che la Repubblica (quale che sia il suo numero) non è mai stata né sarà mai se non il paravento di interessi borghesi e strumento di oppressione delle classi popolari e che è in nome della Repubblica che si sono condotte guerre per la colonizzazione e contro la decolonizzazione delle popolazioni i cui discendenti subiscono ancor oggi le conseguenza sia a casa loro (nello sviluppo economico-sociale diseguale istituito dalla colonizzazione e al quale la decolonizzazione non ha posto fine) sia nelle ex metropoli coloniali verso cui hanno “scelto” di emigrare.
Soprattutto, la Santa Alleanza esonera i leader politici odierni e di ieri, di sinistra come di destra, ma anche i loro lacchè mediatici, dalle loro gravi responsabilità nella genesi, nel mantenersi ed aggravarsi delle situazioni che ci hanno portato al punto in cui ci troviamo. Perché chi si rifiuta di vedere negli autori degli assassini in questione dei “folli” o dei “barbari”, aggettivi cui si ricorre per non chiedersi sulle loro motivazioni, deve ben porsi questa domanda: perché e come tre giovani provenienti dall’immigrazione maghrebina o africana, nati in Francia, sono diventati carnefici jihadisti? E qualche elemento di risposta è a portata di mano. A cominciare dalla disoccupazione di massa e dallo sviluppo del lavoro precario e dequalificato, dalla pauperizzazione relativa e anche assoluta di determinati strati popolari, specie quelli parcheggiati in periferie diseredate sul piano di attrezzature collettive e servizi pubblici, dall’aggravarsi delle disuguaglianza sociali a tutti i livelli, con la riduzione delle prospettive di mobilità sociale verso l’alto, il tutto mentre si istalla sempre più cinicamente l’arroganza del successo di quelli che sfuggono all’insieme di questi fenomeni e che addirittura ne approfittano.
Altrettanti processi cui tutti i responsabili politici, di sinistra come di destra, che si alternano da più di trent’anni alla testa dello Stato hanno contribuito con le politiche neoliberiste di cui hanno incessantemente allargato il campo e indurito il corso. E altrettanti processi ai quali non è sfuggite la stragrande maggioranza delle popolazioni immigrate provenienti dall’Africa subsahariana, dal Maghreb o dal Vicino e Medio Oriente, non solo perché rientrano nel proletariato ma anche perché, nel loro caso. Gli effetti di questi processi sono stati aggravati dall’oppressione specifica a base della stigmatizzazione xenofoba e razzista di cui sono vittime quotidianamente, che li definisce “immigrati, arabi, musulmani, ecc., nella più perfetta confusione dei termini. Una stigmatizzazione di cui certi funzionari di Stato in senso lato (insegnanti, impiegati di prefettura o di organismi di assistenza sociale, lavoratori sociali, soprattutto poliziotti e anche giudici) non sono i minori responsabili, alimentando così un vero e proprio razzismo di Stato. A questo del resto sono stati istigati dall’impunità di cui hanno goduto da parte della rispettiva gerarchia nonché dall’implicito incoraggiamento rivolto loro dai responsabili politici.
L’esempio, infatti, è venuto dall’alto e da decenni, sia con azioni (le restrizioni introdotte nella politica di libertà di circolazione e al diritto d’asilo, gli accordi di Schengen e di Dublino) sia con i discorsi: da Pierre Mauroy, allora Primo ministro, che denunciava gli scioperi degli OS (Sistema Operativo, in genere lavoratori immigrati) dell’auto come responsabili della sconfitta della sinistra governativa alle comunali del marzo 1982 e da Jacques Chirac, allora Primo ministro e futuro Presidente della Repubblica, infastidito dal “rumore” e dagli “odori” dei quartieri a prevalente popolazione immigrata (giugno 1991), fino alle più recenti dichiarazioni sui Rom di un ministro dell’Interno diventato poi Primo ministro, passando per la promessa di Nicolas Sarkozy (nel giugno 2005), allora ministro dell’Interno e anche lui futuro Presidente della Repubblica, di spazzare le città con le idropulitrici Karcher (e mi fermo qui, perché l’elenco potrebbe essere ben più nutrito), ai più elevati livelli dello Stato non hanno mai cessato di moltiplicarsi le “scivolate” xenofobe, ben controllate a fini demagogici.
Scivolate che non avrebbero certo scompaginato il discorso di Jean-Marie Le Pen, che ha del resto avuto svariate occasioni di lamentarsi, a ragione, che gli si sottraeva il pezzo forte del suo traffico politico: additare gli “immigrati” (per forza musulmani) come capri espiatori. E per completare il ritratto di questa Francia nauseabonda, va ricordata anche la litania di editoriali, prime pagine, servizi, campagne dai miasmi razzisti di tanti mezzi di comunicazione di massa, come pure le “riflessioni” di tutti i Dupont-la-Joie [un film francese di Yves Boisset del 1975, incentrato sul razzismo] che purtroppo non si limitano alle chiacchiere da bar.
E le popolazioni provenienti dall’Africa subsahariana, dal Maghreb, o dal Vicino o Medio Oriente sono state trattate da paria una seconda volta dalla politica estera praticata dagli stessi governi in queste varie contrade nel corso degli ultimi decenni. Inutile ricordare che la Francia non si è affatto sganciata dal sostegno occidentale a Israele nella sua politica di colonizzazione delle terre e di spoliazione delle popolazioni palestinesi, così come non ha denunciato con il vigore che sarebbe stato necessario la serie di crimini di guerra che hanno accompagnato gli interventi israeliani in Libano e nella striscia di Gaza; cosa che non ha potuto se non creare un terreno favorevole al recepimento in parte della gioventù di discorsi antisemiti camuffati da critica del sionismo, terreno che alcuni (tra cui la coppia Dieudonné-Soral di recente) si sono dati da fare ad arare e seminare. La Francia non ha neanche preso le distanze dal “grande fratello” statunitense per il modo in cui ha condotto la sua “guerra contro il terrorismo” a Kabul, ad Abu Ghraib o a Guantanamo. Va ricordato che negli ultimi anni la Francia, da sola o con i suoi alleati, ha condotto svariate operazioni militari in paesi con popolazione a maggioranza musulmana (Afghanistan, Libia), perseguendovi obiettivi senza alcun rapporto con gli interessi di questa, a giudicare dalle distruzioni massicce e dai conseguenti massacri collettivi di cui si è disinteressata? Peggio ancora: non la si è vista a più riprese sostenere o dare manforte a regimi (in Iraq negli anni Ottanta, in Algeria negli anni Novanta, in Siria negli ultimi anni) che tiranneggiavano le loro stesse popolazioni quando non le massacravano sistematicamente? Non si è sentito un ministro degli Esteri proporre a un Ben Ali in piena rotta di fronte alla sollevazione del popolo tunisino di farlo approfittare dell'”esperienza delle nostre forze di sicurezza” nelle operazioni di repressione? Effettivamente, la Francia dispone di una lunga tradizione di mantenimento dell’ordine nel Nord Africa…
Per una persona o un gruppo sistematicamente stigmatizzato ci sono vari modi per difendersi; uno di questi, il più paradossale forse, ma il più temibile sicuramente, consiste nell’addossarsi le stigmate per ritorcerle contro coloro che lo stigmatizzano (cfr. Erving Goffman, 1963, Ed. de Minuit, Parigi, 1975). A furia di far capire a qualcuno che è solo un”immigrato”, un”arabo”, un”musulmano”,quando non uno”sporco arabo” si finisce per trasformarlo in … “arabo”, “musulmano” e anche in “sporco arabo”. In altri termini, si provoca un ripiegamento dell’individuo o del gruppo sulla sua identità assegnata, nel migliore dei casi rivendicata per dignitosa fierezza (ed è ad esempio la ragione per cui alcune delle donne musulmane indossano il famoso velo), nel peggiore dei casi nel modo odioso che aspetta solo l’occasione per vendicarsi degli affronti subiti. Cosa che ovviamente costituisce una condizione in più per recepire i discorsi dell’islam radicale, integralista o jihadista.
Ma il precedente processo interpella necessariamente anche le forze politiche rivoluzionarie, intendendo quelle che lottano per l’emancipazione nei confronti di tutte le attuali forme di oppressione. Non è infatti fatale che un potenziale di rivolta suscitato dall’ingiustizia sociale e dalla stigmatizzazione razzista porti ad un atto posto sotto l’insegna dell’identità religiosa. Se quel potenziale non trova altra forma di espressione è anche perché non ha trovato strade alternative. Ed è qui che la responsabilità di queste forze, che la nostra responsabilità, è chiamata in causa: non abbiamo saputo proporre queste alternative, o lo abbiamo fatto a una scala non all’altezza della sfida che ci veniva lanciata. In discussione c’è la nostra debolezza politica: la nostra presenza politica sul campo, all’interno delle fabbriche e dei quartieri dove lavorano e vivono le popolazioni in preda a questo dramma, è rimasta evidentemente insufficiente, malgrado i lodevoli sforzi di alcune organizzazioni sindacali (quali Sud-Solidaires) o di alcune associazioni (come Diritto alla casa o la Rete Istruzione senza confini). È chiamata in causa anche la nostra relativa ignoranza delle specifiche condizioni in cui si trovano queste popolazioni. Infine, è in questione la negligenza, perlomeno relativa, con cui abbiamo affrontato finora l’insieme delle questioni accennate, al punto di essere stati, come tutti, presi alla sprovvista dal rumore delle raffiche di kalashnikov che hanno preso a risuonare mercoledì scorso nei locali di Charlie Hebdo.
Alle nostre responsabilità relative al passato si aggiungono ormai quelle nei confronti di un immediato futuro facilmente prevedibile. Gli ultimi avvenimenti offriranno l’occasione e forniranno il pretesto, con la scusa di rafforzare la “lotta contro il terrorismo islamico”, per un inasprimento dell’apparato repressivo e l’aggravamento di restrizioni delle libertà politiche di cui rischiano di essere vittime tutte le organizzazioni associative, sindacali e politiche, che si battono, a qualunque livello contro l’ordine sociale esistente. E, da questo punto di vista,l’Union Sacrée costituitasi nelle manifestazioni del fine settimana del 10 e 11 gennaio, che va dal Fronte nazionale al Partito comunista e al Parti de Gauche [di Sinistra], è delle più inquietanti, come la Santa Alleanza volata in soccorso di Hollande, di cui fanno soprattutto parte quei grandi democratici che sono il Primo ministro ungherese Viktor Orban, il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman e il suo collega ministro dell’Economia Naftali Bennett, nonché il Presidente della Repubblica del Gabon Omar Bongo e il capo della diplomazia russa Sergey Lavrov. Se piromani del genere si propongono di spegnere l’incendio che hanno contribuito ad appiccare, è necessario prepararsi ad affrontare nuove braci ancora più vaste.