Il successo elettorale di Syriza segna una riscossa del popolo greco contro il più spietato attacco antipopolare messo in pratica in Europa occidentale da molti decenni a oggi, attuato congiuntamente dal ceto politico greco e internazionale. In questo senso, costituisce un’elementare vittoria della democrazia contro la postdemocrazia. La sostanza di quest’ultima è la concorde volontà dei partiti di governo, siano essi di destra o di sinistra, di far pagare la crisi capitalistica ai comuni cittadini, lavoratori e non.
Per il popolo greco la formazione di un governo centrato su Syriza costituisce non solo una speranza per il futuro ma anche un terreno più avanzato di lotta sociale nell’immediato. Syriza si è impegnata chiaramente a rovesciare l’orientamento della politica economica e sociale il che comporta, tra l’altro: creare 300 mila nuovi posti di lavoro, intervenire per ridare dignità a coloro che in questo momento si trovano ai limiti della sopravvivenza, restituire ai lavoratori i diritti che sono stati loro tolti, cancellare i debiti di chi si trova sotto la soglia di povertà, sospendere i pignoramenti, reintrodurre il salario minimo e la tredicesima per le pensioni fino a 700 euro, esenzione fiscale per i redditi fino a 12.000 euro e tassazione più progressiva, garantire l’assistenza medica gratuita per i disoccupati non assicurati, fermare le privatizzazioni.
Sulla carta, il programma di governo di Syriza è ragionevole e fattibile. Comporta la ricontrattazione del debito, di cui una parte dovrebbe essere cancellata, nonché una moratoria nel pagamento dello stesso: non è una novità, a fronte di un debito che non può, realisticamente, essere pagato, non nella sua interezza e non in tempi stretti; i creditori hanno già dovuto accettare un cosidetto haircut sul debito greco.
Nello stesso tempo si propone di rilanciare la domanda interna, il che ridurrebbe automaticamente il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno, sia per via della crescita del prodotto che per le maggiori entrate pubbliche, che si prevede aumentino anche grazie alla lotta all’evasione fiscale e al contrabbando. Per questo intende escludere gli investimenti pubblici dai vincoli del patto di stabilità; e sarebbe giusto che il quantitave easing della Banca centrale europea interessasse anche i titoli di Stato della Grecia, come dovrebbe essere ovvio in una unione monetaria. Nell’insieme, le misure del programma di Salonicco per affrontare l’emergenza sociale e rilanciare l’economia dovrebbero ammontare a circa un 6% del Pil della Grecia: non si può pensare di uscire dalla depressione con una spesa aggiuntiva inferiore.
Il criterio di valutazione di un programma politico e di un risultato elettorale da un punto di vista anticapitalistico non è quello per cui si rivendica, semplicemente, il massimo concepibile. Innanzitutto, il programma deve poter rispondere alle necessità dei lavoratori e dei cittadini. Nello stesso tempo occorre chiedersi: il risultato elettorale costituisce o no un terreno più avanzato e più favorevole di lotta e di iniziativa dal basso?
In prima battuta, la vittoria elettorale di Syriza comporta un sì a entrambe le domande. I lavoratori e i cittadini greci non devono fare altro che prendere sul serio le promesse elettorali di Tsipras, quelle espresse durante il meeting di Salonicco, e pretendere che siano messe in atto, tutte e completamente. Può e deve pretenderlo perché si tratta di misure minime di civiltà: e che esse debbano essere introdotte la dice lunga sull’inciviltà di chi ha portato la Grecia a questo punto. Se i lavoratori si metteranno in movimento pretendendo la concretizzazione del programma potranno ribaltare i rapporti di forza tra le classi e andare oltre lo stesso programma di Syriza. Potrebbero essere un esempio per l’Europa.
Come sempre, la verifica risiede nei fatti, non nelle promesse elettorali, nel senso di appartenenza ideologica, meno che mai nell’immagine del leader.
Syriza ha ottenuto un grande risultato elettorale, ma le mancano due voti alla maggioranza. A quanto pare, verranno dal partito Anel, acronimo per Greci Indipendenti. Si tratta di un partito fondato nel 2012 da Panos Kammenos, parlamentare espulso da Nuova democrazia per aver votato contro il governo di coalizione tra ND e Pasok di Papademos. In termini strettamente parlamentari la cosa non dovrebbe essere motivo di soverchia preoccupazione: Anel è un partito decisamente contrario al Memorandum sottoscritto dal precedente governo con la Bce, il Fmi e la Commissione europea; nel Parlamento europeo fa parte del gruppo Conservatori e riformisti europei, di tendenza «euroscettica»; sostiene che parte del debito estero debba essere cancellato; che l’Europa sia governata «da tedeschi neo-nazisti».
Insomma, come accade in tutte le coalizioni, è possibile che tra Syriza e Anel si litighi su questo o quel punto, ma si può anche ragionevolmente presumere che Anel non abbia eccessivi problemi a votare per la maggior parte delle misure di emergenza che fanno parte del programma di Syriza e che non sia particolarmente suscettibile a pressioni provenienti dalla Commissione europea. In particolare chi propone di uscire dall’eurozona e dall’Unione europea non dovrebbe scandalizzarsi per questa coalizione: in fin dei conti, fantasticando di una situazione simile in Italia, costoro potrebbero trovarsi a contare sulla Lega nord.
Ricordo inoltre che il Partito comunista greco, il Kke, dispone di 15 deputati, due più di Anel. Se volesse, potrebbe impegnarsi ad appoggiare, anche solo dall’esterno, un governo Syriza, permettendogli almeno di mettere in atto quelle misure da cui il popolo e i lavoratori greci non possono prescindere in alcun caso. Negli anni Ottanta, il Kke rinunciava a fare (moderata) opposizione ogni qualvolta il governo Pasok di Andreas Papandreou lo coinvolgeva in iniziative neocorporative col sindacato (il che, nella Grecia del tempo, era la norma) o faceva mostra di collaborare con qualche paese del blocco sovietico, questo mentre il Pasok strutturava la propria rete clientelare e di corruzione, i cui effetti sull’apparato statale si fanno sentire ancora oggi; nel 1989, mentre Papandreou era sotto accusa per gravi casi di corruzione (tra cui l’appropriazione indebita di 200 milioni di dollari da parte della Banca di Creta), fu al governo insieme a Nuova democrazia; di nuovo al governo insieme a Nuova democrazia e al Pasok nel 1990. Quando ha voluto e in circostanze infinitamente meno gravi delle attuali il Kke non ha rinunciato a governare con la destra, sia pure per breve tempo, e a condurre una benevola e oscillante opposizione nei confronti del Pasok, che al tempo si costruiva come un partito-Stato. Visti i precedenti, il netto rifiuto del Kke di collaborare con Syriza si comprende solo alla luce della congenita logica settaria, in salsa stalinista, di questo partito. Se fosse un partito responsabile davanti ai lavoratori permetterebbe a Syriza di formare il governo, ne appoggerebbe le misure sociali indispensabili, l’incalzerebbe per estenderle e si batterebbe per radicalizzarle (il che significa, per il Kke, uscire dall’eurozona). In altri termini, farebbe del suo meglio per mettere politicamente Syriza con le spalle al muro costringendola, se è questo è il caso, a dimostrare il proprio opportunismo.
A mio parere, che Syriza si trovi a dover contare sui voti parlamentari di Anel pone un grave problema essenzialmente nei confronti dell’iniziativa autonoma dei lavoratori. Se questi dovessero mobilitarsi per la realizzazione rapida e integrale del programma di Salonicco, lottare per specifici obiettivi di categoria, andare oltre, in questo movimento, la linea del governo, allora potranno emergere forti contrasti nella coalizione e si chiarirà in modo inequivocabile la tempra di cui sono fatti Tsipras e il suo partito. Questa, però, è questione che potrebbe porsi in ogni caso, anche se Syriza disponesse della maggioranza assoluta o formasse il governo con il Kke. La coalizione con Anel potrebbe rendere più brevi i tempi e più acuto il problema sul piano dell’unità del governo. Questo ragionamento è tutto al condizionale, perché all’equazione manca ancora un valore: appunto quello della mobilitazione di massa e autonoma dei lavoratori e dei cittadini, vale a dire il fattore decisivo per capire in quale direzione si orienti la nuova e insolita coalizione di governo.
A questo riguardo è utile rivedere i risultati elettorali. Calcolati sui voti validi, i risultati per i principali partiti greci sono i seguenti:
Syriza 36,3%; Nea dimokratia 27,8%; Chrysi aygi (Alba dorata) 6,2%; To potami 6%; Kke 5,4%; Anel 4,7%; Pasok 4,6%.
Tuttavia, se gli elettori greci sono in tutto 9,9 milioni, hanno votato solo 6,3 milioni: l’astensione è stata pari al 35% (o il 37% con i voti bianchi o nulli). Se ricalcolati su tutti gli elettori, compreso gli astenuti, i risultati sono invece questi:
Syriza 22,6%; Nea dimokratia 17,2%; Chrysi aygi (Alba dorata) 3,8%; To potami 3,7%; Kke 3,3%; Anel 2,9%; Pasok 2,8%.
Come oramai accade sistematicamente, le percentuali calcolate sui voti validi distorcono fortemente il grado di consenso dei cittadini verso i partiti e possono indurre a gravi errori di valutazione.
Syriza ha ottenuto 2,2 milioni di voti, circa 600 mila in più che nel giugno 2012; se il Pasok crolla, Nea dimokratia invece tiene relativamente bene, perdendo soltanto circa 100 mila voti. Il risultato di Syriza è ottimo, ma è pur sempre vicino a un quinto dell’elettorato invece che a «quasi il 40%», come si può essere indotti a pensare, in preda all’ebbrezza del successo, guardando alla percentuale sui voti validi. Si può rincarare la dose e dire che Syriza ha quasi l’80% dei cittadini greci che la pensano diversamente.
Il dato elettorale può non significare niente in rapporto alla mobilitazione di massa su obiettivi specifici e concreti, che coinvolge cittadini e lavoratori di opinioni ed appartenenze diverse, che possono trasformarsi o ribaltarsi nel corso dell’esperienza della lotta collettiva. Ed è la questione determinante: per reggere il duro confronto con le forze politiche ed economiche ostili che l’attende, per tener fede alle promesse che ha fatto e alle speranze che ha suscitato, il governo di Syriza ha assoluta e urgente necessità di promuovere la mobilitazione sociale e di recepire le rivendicazioni spontanee dei lavoratori, di andare molto oltre il risultato elettorale. Ha anche la necessità di sviluppare una sorta di «diplomazia dal basso» nel resto d’Europa, non per ottenere o per dare appoggi simbolici, ma per contribuire, per quel che può, a dare impulso alla lotta sociale negli altri paesi. È su questo che si gioca il futuro del governo, di Syriza, e, ancor più, della lotta di classe in Grecia e, forse, in Europa. Vedremo se le promesse di Tsipras erano solo elettoralistiche o se intende fare sul serio.