La recente decisione della Banca Nazionale Svizzera (BNS) di rinunciare ad intervenire, dopo quattro anni, a difesa di un livello 1,20 nel cambio franco/euro mostra ancora una volta, qualora fosse necessario, il carattere profondamente antidemocratico, antisociale e di classe del capitalismo reale.
Tutti hanno sottolineato (chi più, chi meno sinceramente) le conseguenze economiche, sociali, occupazionali (e quindi umane in ultima istanza) della decisione delle BNS. Padroni, partiti politici, sindacati hanno subito iniziato le loro giaculatorie sulla necessità impellente di “aiutare le imprese”, “portare sostegno alle nostre aziende esportatrici”, “difenderne la concorrenzialità”.
Nessuno, evidentemente, ha pensato anche per un solo momento se sia tollerabile che pochi uomini, profumatamente pagati e che nessuno ha eletto a quella funzione, possano prendere decisioni che sconvolgono la vita sociale di milioni di persone. I dirigenti della BNS non sono una “istituzione democratica” , non hanno alcun mandato popolare e non devono rendere conto a nessuno delle loro scelte. È dietro la mitica “indipendenza” della BNS che si nasconde, in realtà, una politica tutta tesa alla difesa degli interessi del sistema e dei suoi membri più importanti: il padronato e i detentori di patrimoni.
Nessuno si era lamentato della decisione di quattro anni fa: una decisione che aveva come principale obiettivo quello di proteggere in qualche modo l’industria svizzera di fronte ad un euro sempre più debole e in difficoltà. Anche quella decisione non era assolutamente democratica: ma partiti di governo e padronato si guardarono bene dal criticarla.
Ora, passati quattro anni, non solo i profitti si sono sviluppati ed assestati, ma, vista la persistente debolezza dell’euro (ed una sua ulteriore svalutazione se la BCE dovesse adottare le previste misure di quantitative easing) una ulteriore difesa del tasso di cambio a 1,20 diventava insostenibile. A questo va aggiunta una certa difficoltà incontrata negli investimenti diretti all’estero, fondamentali per il capitalismo svizzero che, lo ricordiamo, vede le maggiori imprese industriali svizzere creatrici di 3 posti di lavoro nelle loro filiali estere per ogni posto di lavoro in Svizzera. Lo scorso anno infatti, per la prima volta dopo numerosi anni, gli investimenti diretti all’estero hanno segnato una contrazione.
Al di là delle ragioni più strettamente tecniche e finanziarie, non vi sono dubbi che questa misura rappresenterà un vero e proprio grimaldello per mettere in discussione ancor di più condizioni di lavoro e di salario in Svizzera. Con la scusa della necessaria difesa della “competitività” della “nostra” industria e della “nostra” economia, cominciano già a delinearsi le proposte per abbassare salari (si comincia con i frontalieri naturalmente…) e peggiorare condizioni di lavoro.
Quanto al Consiglio Federale ha già promesso che altri sgravi fiscale per le aziende seguiranno, oltre a quelli già messi in cantiere nell’ambito della riforma III dell’imposizione fiscale delle imprese (la cui consultazione è in dirittura d’arrivo) che gia prevede sgravi fiscale dell’ordine di tre miliardi, destinati, come già avvenuto, per la riforma II a lievitare fortemente rispetto alle previsioni iniziali.
Un contesto quindi complesso, che necessita analisi e discussioni approfondite per cercare di individuare rivendicazioni e strategie per cercare di costruire un minimo di resistenza in un contesto che si annuncia sempre più difficile e duro per la maggioranza dei salariati attivi in questo paese.
Da questo punto di vista diventa decisivo, ancor prima di lanciarsi in rivendicazioni più o meno azzardate, chiarire quello che deve essere il punto di vista per chi si pone in alternativa alla politica del padronato e dei suoi partiti. E questo punto di vista non può che essere quello della necessità prioritaria di adottare misure che difendano condizioni di vita e di reddito per tutti i salariati.
Solo in questo modo si potrà tentare di mobilitare i salariati, evitare una deriva xenofoba, “concorrenziale” e “competitiva” e sperare di ricostruire quel minimo di solidarietà tra i salariati necessario per fare qualsiasi piccolo passo in avanti.