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gilbert-archcar3-smalljpgQuesta intervista di Gilbert Achcar seppure di fine gennaio chiarisce in modo eccellente i termini dei problemi di fondo che hanno creato le condizioni degli attentati di Parigi dello scorso 7 e 9 gennaio e aiutano a comprendere anche gli ultimi attentati di Copenaghen. D’altronde offre una griglia interpretativa di quei fattori che possono legare la situazione europea a quella mediorientale in continuo subbuglio e mutamento.

 

Ahmed Shawki: di fronte agli attentati contro Charlie Hebdo, qual è stata la reazione della società francese, in generale, e quella dello Stato francese e della sua classe dirigente in particolare?

La reazione è stata quella che chiunque avrebbe potuto prevedere. La reazione iniziale è stato uno shock di massa – non molto diversa dalla reazione iniziale di fronte agli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, benché sia evidentemente molto esagerato mettere i due attentati sullo stesso piano, come hanno fatto in molti, soprattutto in Francia.

Naturalmente, lo shock è stato immediatamente sfruttato dal governo francese, nello stesso modo in cui l’amministrazione Bush sfruttò l’11 settembre, lo scopo in entrambi i casi era di far tacere le critiche ed ottenere un largo sostegno in nome della «unità nazionale». La popolarità di François Hollande è immediatamente molto aumentata mentre era a un livello molto basso. La stessa cosa avvenne con George W. Bush, la cui popolarità, molto bassa prima dell’11 settembre, aumentò molto più di quanto avrebbe potuto sperare.

Queste sono state reazioni assai simili da parte di società terrorizzate e in preda all’orrore – e, certamente, i crimini che la hanno provocate erano sicuramente orribili.

In entrambi i casi, la classe dirigente ha tratto profitto dallo stato di shock per attizzare il nazionalismo e il sostegno allo Stato: le forze di polizia sono state acclamate come degli eroi per aver mobilitato molte decine di migliaia dei loro effettivi nella caccia a tre folli assassini. I pompieri di New York hanno certamente meritato maggiormente l’essere stati lodati per il loro eroismo.

Non c’è nulla di originale in tutto questo. Invece, ciò che è piuttosto inedito è il modo in cui il dibattito si è sviluppato in seguito.

Come ora sanno tutti, l’attentato contro Charlie Hebdo e quello antisemita contro un supermercato kasher a Parigi sono stati perpetrati da due giovani di origine algerina e un altro di origine maliana, nati in Francia tutti e tre. In questi ultimi giorni c’è stata un’evoluzione importante nel dibattito pubblico sugli attentati: è diventato più sfumato, con un riconoscimento crescente che c’è qualcosa che non va nella società francese – per il modo cui le persone di origine immigrata vengono trattate.

Questa svolta ha raggiunto il picco con la pubblica ammissione da parte del primo ministro Manuel Valls, due settimane dopo l’attentato, che in Francia esiste un «apartheid territoriale, sociale, etnico» verso gli immigrati[2]. È una diagnosi severissima, in effetti, e come ci si poteva aspettare, la formula è stata largamente criticata, anche all’interno dello stesso governo di cui Valls è il capo.

Ma ha dato ragione a coloro che fin dall’inizio dicevano che questi terribili attenti dovevano indurre a riflettere in primo luogo sulle condizioni che hanno spinto questi giovani a un grado tale di risentimento da essere pronti a delle azioni suicide pur di uccidere. Non che vi sia qualche ragione che possa essere un alibi per i massacri che sono stati commessi, ma perché è indispensabile capire l’origine di un simile odio e di un simile risentimento invece di accontentarsi della spiegazione secondo cui «ci odiano a causa della nostra libertà» come aveva dichiarato George W. Bush dopo l’11 settembre. Ciò ci porta alla questione centrale, quella a cui ha fatto riferimento il primo ministro francese e che altro non è che la condizione degli immigrati in Francia. Un indice evidente e assai rivelatore è il fatto che la maggioranza dei detenuti nelle carceri francesi sono persone di origine musulmana, mentre meno del 10% della popolazione è di origine musulmana. Occorre aggiungere il fatto strettamente collegato che la società e lo Stato in Francia non hanno mai realmente fatto i conti con l’eredità coloniale.

Riguardo a questo, è sorprendente dover constatare che l’esame di coscienza della società statunitense rispetto alla guerra del Vietnam è stato ben più profondo ed esteso – grazie all’enorme mobilitazione contro la guerra che si sviluppò negli stessi Stati Uniti – rispetto a tutto ciò che la Francia ha potuto conoscere sulla guerra d’Algeria. Anche se quest’ultima non è stata meno brutale – anzi si potrebbe sostenere il contrario – ed è durata 125 anni di barbarica occupazione dell’Algeria.

La Francia è un Paese in cui – si stenta a crederlo – nel 2005 il parlamento ha votato una legge fondamentale sull’eredità coloniale che rende omaggio agli uomini e alle donne, in particolare i militari, che hanno partecipato all’impresa coloniale. Ciò solo dieci anni fa, non mezzo secolo! Questa legge, tra le altre cose, chiedeva che nelle scuole si insegnasse «il ruolo positivo della presenza francese oltre-mare, in particolare in Africa del Nord»[3] . Questo paragrafo specifico della legge è stato abrogato con decreto presidenziale l’ anno successivo, dopo aver provocato vaste proteste da parte della sinistra e delle organizzazioni dei/delle immigrati/e e anche dei/delle storici/che. Ma lo stesso fatto che una legge simile sia stata adottata da una maggioranza parlamentare è semplicemente scandaloso.

 

Ci puoi dire qualcosa in più riguardo alle reazioni alla dichiarazione del primo ministro sull’ «apartheid francese»? È una dichiarazione che colpisce.

Infatti, colpisce moltissimo. D’altronde bisogna ricordare che Valls non è un radicale e neanche progressista. Appartiene all’ala destra del partito socialista. Prima di essere primo ministro, era ministro dell’interno ed è stato criticato dalla sinistra per essersi messo in concorrenza con l’estrema destra – con Marine Le Pen – in una gara sulla questione dell’immigrazione. E poi improvvisamente fa questa forte dichiarazione.

Non è sorprendente che sia stato largamente criticato, non solo dall’opposizione di destra, ma anche all’interno del suo stesso partito e anche da alcune persone della sinistra, tutti affermavano che aveva oltrepassato in limiti e che non avrebbe dovuto utilizzare il termine «apartheid».

Le critiche più sobrie hanno sottolineato che in Francia non esiste apartheid legale, a differenza di ciò che esisteva in Sudafrica o nel Sud degli Stati Uniti ancora fino a qualche decennio fa. Ma nessuno ha potuto seriamente negare l’esistenza in Francia di una segregazione «territoriale, sociale ed etnica», simile a ciò che continua a prevalere negli Stati Uniti.

Le condizioni delle popolazioni di origine immigrata in Francia, infatti, è più simile a quella dei Neri negli Stati Uniti che all’apartheid in senso stretto. Queste popolazioni sono concentrate in zone separate, nelle periferie delle città e vivono in condizioni estremamente frustranti. A ciò si aggiunga il razzismo largamente diffuso in varie forme nella società francese, comprese discriminazioni sul lavoro, riguardo agli alloggi e in altri ambiti.

Su quest’ultimo punto, la Francia è anche peggio degli Stati Uniti: non sarà tanto presto che si potrà vedere una persona di origine africana essere eletta alla presidenza della Francia, al contrario dello stravagante fantasma di un romanziere francese islamofobo, tristemente celebre. In realtà – purtroppo – è ben più probabile che un candidato di estrema destra sia eletto alla presidenza francese. Dopo tutto, nel 2002, Jean-Marie Le Pen è arrivato al secondo turno delle elezioni presidenziali, battendo al primo turno il candidato del partito socialista.

 

Ciò ci conduce alla questione dell’estrema destra francese, che è molto forte elettoralmente, con la figlia di Le Pen, Marine, alla testa di un Front National «riformato». Se non erro, il FN che storicamente trae la sua ispirazione dall’estrema destra – fino alla destra fascista compresa – ha all’interno della sua direzione dei gay, membri di minoranze, degli ebrei. Ma ha come bersaglio la popolazione immigrata, in particolare i musulmani, che identifica con il «nuovo nemico». È questa, più o meno la sua traiettoria?

In senso generale, l’estrema destra oggi in Europa, con l’eccezione di una frangia estremistica, non è particolarmente antisemita o omofobica. Una delle figure principali dell’estrema destra in Olanda era un uomo apertamente gay, che giustificava la sua islamofobia invocando la presunta omofobia degli immigrati di origine musulmana.

Questa, quindi, non è più la piattaforma dell’estrema destra europea odierna. Il bersaglio preferito dei loro discorsi che incitano all’odio è l’Islam. I musulmani sono i loro capri espiatori, molto più degli ebrei o le altre vittime del fascismo e del nazismo negli anni ’30 e ’40 – con l’eccezione dei Rom che rimangono sempre l’obiettivo di un forte odio razziale. Oggi, è l’Islam di gran lunga il bersaglio principale dell’odio dell’estrema destra.

Questa islamofobia viene spesso mascherata dall’alibi che non si tratterebbe di razzismo – che si tratta solo di un rifiuto della religione e non dei musulmani in quanto praticanti.

In altri termini, esistono «cattivi musulmani» e «buoni musulmani», visto che questi ultimi «bevono alcol e mangiano carne di maiale», cioè coloro che non sono religiosi e si adattano pienamente alla cultura cristiana occidentale. I benvenuti tra i musulmani – in senso etnico – sono coloro che fanno parte della piccola minoranza al coro islamofobo, in cerca di ricompense per la loro collaborazione come gli indigeni delle colonie che lavoravano al servizio dei loro padroni coloniali.

Questo approccio anti-Islam caratterizza le manifestazioni organizzate in Germania da un movimento che afferma di battersi contro l’ «islamizzazione dell’Occidente». Questo genere di ideologia è comune all’estrema destra in tutta Europa – forse con l’eccezione del caso del partito UKIP in Gran Bretagna che ha come bersaglio tutti gli immigrati, compresi quelli che arrivano dai Paesi dell’Unione Europea.

 

Si è detto che la sinistra francese era assai debole sulla questione del razzismo istituzionale in seno alla società francese. Pensi che ciò sia vero?

Gilbert Achcar: Sì, assolutamente. La sinistra francese – intendo ciò che si ha l’abitudine di chiamare la «sinistra radicale», a sinistra del partito socialista, che non definirei veramente di «sinistra» – ha un bilancio penoso riguardo ai rapporti con gli ambienti di origine immigrata. È una carenza importante – benché sia possibile, ovviamente, trovare delle situazioni simili nella maggior parte dei Paesi imperialisti.

L’assenza di un legame importante con queste popolazioni e in particolare con i loro giovani, provoca poca resistenza quando si sviluppa il risentimento al loro interno per ragioni legittime che si indirizza in una direzione sbagliata che conduce in casi al fanatismo omicida che abbiamo visto all’opera.

Il bilancio storico del partito comunista francese per ciò che riguarda l’anticolonialismo, in particolare nel caso dell’Algeria, è lungi dall’essere ineccepibile. Nella stessa Francia, la lotta contro le discriminazioni etniche e l’eredità coloniale non sono state abbastanza centrali nelle azioni della sinistra, cosa che ha spinto molti giovani di origine immigrata, attirati dalla sinistra per un breve periodo, a rifiutarla e a sviluppare sentimenti di amarezza verso di essa.

Ciò è generalmente legato ad una tradizione all’interno della sinistra francese che si può definire «laicismo radicale» o «integralismo laico».

 

Ti riferisci all’attaccamento alla «laicità»?

Gilbert Achcar: No, a qualcosa che va al di là. Diciamo che questa è una tradizione «anticlericale» che storicamente era molto forte a sinistra in Francia. Quest’ultima può assumere forme di un’arroganza laicista verso la religione e verso i credenti nel loro insieme.

Fintanto che la religione presa come bersaglio è quella dominante, non esistono problemi significativi, benché, anche in questo caso, ciò può essere controproducente. Come aveva ben detto il giovane Marx, la stessa religione che è lo strumento ideologico delle classi dominanti può anche diventare «l’aspirazione della creatura afflitta».

Ma questo è ancora più vero quando la religione in questione è la fede particolare di una parte oppressa e sfruttata della società, la religione dei dominati, come – in Occidente – l’Ebraismo ieri e l’Islam oggi. Non si può avere lo stesso atteggiamento verso l’Ebraismo dell’Europa degli anni ’30 e in Israele oggi, per fare un esempio – o lo stesso atteggiamento verso l’Islam nell’Europa di oggi e nei Paesi a maggioranza musulmana. Allo stesso modo, non si può avere lo stesso atteggiamento verso il Cristianesimo in Egitto, per esempio, dove i cristiani sono una minoranza oppressa e nei Paesi a maggioranza cristiana.

È questo il problema di Charlie Hebdo. Alcune persone coinvolte in Charlie Hebdo sono completamente di sinistra. Stéphane Charbonnier, conosciuto con il soprannome di Charb, il direttore della rivista che era l’obiettivo principale degli assassini, era sotto tutti gli aspetti qualcuno che si situava a sinistra. Aveva stretti legami con il partito comunista e gli ambienti di sinistra. I suoi funerali si sono svolti al suono dell’Internazionale e l’elogio funebre che gli ha reso Luz, un sopravvissuto del gruppo di Charlie Hebdo, conteneva una critica aspra della destra e dell’estrema destra francese, del Papa e di Benjamin Netanyahu.

In questo senso, il paragone che alcuni hanno fatto tra Charlie Hebdo e una rivista nazista che ha pubblicato delle vignette antisemite nella Germania nazista sono totalmente insensate. Charlie Hebdo sicuramente non è una pubblicazione di estrema destra e la Francia di oggi certamente non è uno Stato di tipo nazista.

Charlie Hebdo rappresenta piuttosto una dimostrazione eclatante del laicismo arrogante di sinistra di cui ho parlato, che è un atteggiamento molto diffuso in buona fede – cioè nella convinzione che il laicismo e l’anticlericalismo fanno parte dei principi di base della tradizione di sinistra, insieme al femminismo e altre cause emancipatrici.

 

So che uno dei dibattiti principali all’interno della sinistra francese nell’ultimo decennio, o anche di più, era quello sulla questione del diritto delle donne musulmane di indossare l’hijab in pubblico. Puoi spiegare i termini di questo dibattito?

Si tratta della dimostrazione dello stesso problema. Il dibattito è emerso nel 1989 intorno al caso di alcune giovani che andavano a scuola indossando il foulard e che furono espulse per aver insistito nel tenerlo, con il sostegno delle loro famiglie. Ciò portò nel 2004 ad una legge che vietava di indossare simboli religiosi «ostentati» nelle scuole pubbliche.

Una parte della sinistra – in effetti, la gran parte della sinistra francese, compreso il partito comunista – ha appoggiato questo divieto pensando che così «avrebbe aiutato» le ragazze a combattere l’imposizione oppressiva del foulard da parte delle loro famiglie, convinti che, essendo il foulard un simbolo dell’oppressione delle donne, la sua proibizione era un modo di opporsi a questa oppressione e di difendere il carattere laico delle scuole pubbliche.

Il problema centrale con il laicismo arrogante – questa arroganza assai orientalista, si può dire – è la convinzione che la liberazione può essere «imposta» agli/alle oppressi/e. L’argomento è che forzandovi a togliere il vostro foulard, io vi «libero», che voi approviate o meno. Va da sé che questa rappresenta una riproduzione esatta della mentalità colonialistica.

 

Credo che per alcuni, questa critica alla sinistra francese per il suo laicismo arrogante si unisca ad un’esitazione a fare un’analisi dell’Islam politico, in particolare della sua variante reazionaria che è di sfondo all’attentato contro Charlie Hebdo o agli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti. Tu hai affrontato questa vicenda nel tuo libro Scontro tra barbarie[4], vero?

Infatti ho scritto questo libro dopo l’11 settembre. Quando ci si confronta con un attacco come quello dell’11 settembre, è evidente che il termine «barbarie» è usato evidentemente per descriverla.

Quale dovrebbe essere la razione degli antimperialisti? Vi sono due possibili scelte. La prima è quella di dire «No, non è una barbarie». Questa è una reazione ridicola, perché lo è in maniera manifesta. Perché si dovrebbe considerare come barbarico il massacro islamofobico perpetrato da Anders Breivik nel 2012, il fanatico norvegese di estrema destra e non i massacri dell’11 settembre o la strage di Parigi? Questo sarebbe un esempio estremo di «orientalismo di ritorno», sostituendo il disprezzo dell’Islam con una posizione molto ingenua e acritica verso tutto ciò che si fa in nome dell’Islam.

Ciò che è politicamente falso e pericoloso non è ricorrere a termini come «barbaro», «abominevole» e altri, ma l’utilizzo fuori luogo della categoria politica di «fascismo». Molti all’interno della sinistra – il partito comunista, ma anche altri membri dell’estrema sinistra e, recentemente, il filosofo post-maoista Alain Badiou[5] – hanno definito gli attentati di Parigi e coloro che li hanno commessi «fascisti». Questo è completamente privo di senso dal punto di vista sociopolitico perché il fascismo è un movimento di massa ultranazionalistico il cui principale interesse è quello di salvare il capitalismo schiacciando ciò che lo minaccia, ad iniziare dal movimento operaio, come anche quella di promuovere un imperialismo aggressivo. Applicare questa categoria ad alcune correnti terroristiche ispirate dall’integralismo religioso in Paesi dominati dall’imperialismo è assurdo.

Un simile uso del marchio «fascismo» confonde ciò che in realtà è una categoria sociopolitica precisa. Se si vuole annacquare in questo modo questa categoria sociopolitica, fenomeni come lo stalinismo o, ancora di più, le dittature baasiste in Iraq prima del 2003 o quella nell’attuale Siria hanno sicuramente più tratti in comune con il fascismo storico di Al Qaeda o il sedicente «Stato islamico in Iraq e in Siria».

L’abuso di questa etichetta è stato fatto dapprima dai neoconservatori dell’amministrazione Bush e altri che hanno definito Al Qaeda «islamo-fascismo» ed è un gran peccato che persone di sinistra cadano in questa trappola. L’evidente obiettivo politico di questo abuso – dal momento che il «fascismo» è considerato il male assoluto, dato che lo stesso nazismo è un clone del fascismo – è quello di giustificare qualsiasi azione contro di esso, comprese le guerre imperialistiche.

Ricordo molto bene una discussione organizzata a Parigi dal partito comunista immediatamente dopo l’11 settembre, alla quale ero stato invitato. Uno dei relatori, un eminente membro di questo partito, ha spiegato che Al Qaeda e l’integralismo islamico costituivano un nuovo fascismo, contro il quale è legittimo sostenere le guerre condotte dagli Stati occidentali, come fu legittimo per l’URSS allearsi con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna contro le potenze fasciste durante la Seconda guerra mondiale. Si ritrova una eco diretta di questi argomenti nella descrizione fatta dai neoconservatori della «guerra contro il terrorismo» come di una «Terza guerra mondiale» contro l’«islamo-fascismo».

Per tornare alla definizione «barbaro», l’altro modo di reagire è, sicuramente, quello di dire: sì, questi massacri sono semplicemente e puramente barbarici, ma sono in primo luogo una reazione alla barbarie capitalistica e imperialistica, che è molto peggio. Questa è stata la reazione di molti a sinistra dopo l’11 settembre 2001. Noam Chomsky era probabilmente il più eminente tra questi e tra coloro che hanno spiegato che, per quanto fossero stati orribili gli attentati dell’11 settembre, erano massacri minori se paragonati a quelli commessi dall’imperialismo americano.

Nel mio libro Scontro tra barbarie, ho sottolineato che la barbarie del più forte è la principale responsabile, che è la causa primaria che provoca l’emersione di una contro-barbarie dal lato opposto. Questo «scontro tra barbarie» è la vera natura di ciò che è stato descritto, e lo è ancora, in modo erroneo come uno «scontro di civiltà». Come ha affermato Rosa Luxemburg un secolo fa, la dinamica delle crisi del capitalismo e dell’imperialismo non lascia a lungo termine che l’alternativa «socialismo o barbarie».

Gli attentati dell’11 settembre 2001, quelli di Madrid nel 2004, di Londra nel 2005 e più recentemente a Parigi sono stati tutti rivendicati da Al Qaeda – un’organizzazione fortemente reazionaria. Questa insieme ad altre organizzazioni ideologicamente simili, sono nemiche giurate della sinistra nei Paesi dove sono basate. Per esempio, un membro eminente del sedicente Stato islamico in Iraq e in Siria si è vantato d’aver organizzato l’assassinio di due importanti dirigenti della sinistra tunisina nel 2013.

I giovani che hanno perpetrato i massacri di Parigi erano collegati ad organizzazioni terroristiche che sono il punto estremo dell’estrema destra nei Paesi a maggioranza musulmana. Al Qaeda è un’emanazione del Wahhabismo, l’interpretazione più reazionaria dell’Islam e l’ideologia ufficiale del regno saudita – e nessuno ignora che il regno saudita è il miglior amico degli Stati Uniti in Medioriente, oltre ad Israele.

Coloro che sono di sinistra non dovrebbero dare l’impressione di avallare o sostenere in qualche modo una qualsiasi organizzazione di questo tipo. Dobbiamo denunciarle per ciò che sono, ma dobbiamo anche sottolineare, allo stesso tempo, che la responsabilità principale della loro comparsa ricade su coloro che hanno dato il via allo «scontro tra barbarie» e la cui barbarie è omicida ad un livello incomparabilmente più grande: le potenze imperialistiche e, in testa, gli Stati Uniti.

Vi è, in realtà, una relazione diretta ed evidente tra le due. Gli Stati Uniti, con il regno saudita, hanno favorito per decenni le correnti integraliste nella lotta contro la sinistra nei Paesi a maggioranza musulmana. Queste correnti sono state per lungo tempo legate agli Stati Uniti – una collaborazione storica che è culminata con la guerra in Afghanistan negli anni ’80, quando furono sostenute contro l’occupazione sovietica da Washington, dai sauditi e dalla dittatura pachistana.

Ciò che alla fine è accaduto, come nella storia di Frankestein, è che alcune componenti di queste forze si sono rivoltate contro la monarchia saudita e contro gli Stati Uniti. È la storia di Al Qaeda: i suoi fondatori erano alleati degli Stati Uniti e del regno saudita nella lotta contro l’occupazione sovietica in Afghanistan, ma si sono ribellati contro di essi a causa del dispiegamento delle truppe statunitensi nel regno saudita in preparazione della prima guerra condotta dagli Stati Uniti contro l’Iraq, nel 1991.

In questo modo, l’amministrazione di Bush padre ha provocato il voltafaccia di Al Qaeda contro gli Stati Uniti attraverso la prima guerra contro l’Iraq e Bush figlio ha proseguito il compito con l’invasione dell’Iraq. Quest’ultima è stata intrapresa prendendo a pretesto delle grandi menzogne, di cui una era che fosse necessaria per distruggere Al Qaeda – benché non esistesse alcun legame tra Al Qaeda e l’Iraq. Infatti, il risultato dell’occupazione statunitense di questo Paese ha dato un forte impulso a Al Qaeda, permettendole di acquisire una base territoriale in Medioriente, dopo essere stata rinchiusa precedentemente in Afghanistan.

Ciò che oggi si chiama lo «Stato islamico» in Iraq e in Siria non è altro se non che uno sviluppo di quella che era una branca di Al Qaeda in Iraq, un’organizzazione che non esisteva prima dell’invasione del 2003 e che è sorta grazie all’occupazione. Era stata sconfitta e marginalizzata a partire dal 2007, ma è arrivata a ricostruirsi in Siria, traendo profitto dalle condizioni create dalla guerra civile in questo Paese e dall’estrema brutalità del regime siriano. Ed eccola ora che colpisce ancora una volta al cuore l’Occidente. Oggi come ieri, «chi semina vento raccoglie tempesta».

 

 

Intervista con Gilbert Achcar[1] raccolta da Ahmed Shawki il 27 gennaio 2015, pubblicata dal sito

 

[1] Gilbert Achcar, intellettuale di origine libanese, è docente al SOAS, presso l’Università di Londra. È autore di numerosi testi, tra cui ricordiamo Le peuple veut – une exploration radicale du soulèvement arabe, Actes Sud, Paris, 2013 e Les Arabes et la Shoah – La guerre israélo-arabe des récits, Actes Sud, Paris, 2009.

[2] http://www.lemonde.fr/politique/article/2015/01/20/pour-manuel-valls-il-existe-un-apartheid-territorial-social-ethnique-en-france_4559714_823448.html

[3]http://fr.wikipedia.org/wiki/Loi_portant_reconnaissance_de_la_Nation_et_contribution_nationale_en_faveur_des_Fran%C3%A7ais_rapatri%C3%A9s#L.27alin.C3.A9a_2_de_l.27article_4_supprim.C3.A9

« La Nation exprime sa reconnaissance aux femmes et aux hommes qui ont participé à l’œuvre accomplie par la France dans les anciens départements français d’Algérie, au Maroc, en Tunisie et en Indochine ainsi que dans les territoires placés antérieurement sous la souveraineté française. » (article 1).

« Les programmes scolaires reconnaissent en particulier le rôle positif de la présence française outre-mer, notamment en Afrique du Nord et accordent à l’histoire et aux sacrifices des combattants de l’armée française issus de ces territoires la place éminente à laquelle ils ont droit » (article 4, alinéa 2).

Ce dernier alinéa a été abrogé en 2006.

[4] Gilbert Achcar, Scontro tra barbarie. Terrorismi e disordine mondiale, edizioni Alegre, Roma, 2006

[5] http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/01/27/le-rouge-et-le-tricolore_4564083_3232.html