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costasMolto – troppo – è stato scritto in un modo giornalistico superficiale a proposito del ministro greco delle finanze Yanis Varoufakis e sui negoziati del mese scorso con l’Unione Europea. Ma adesso che l’inchiostro si è asciugato e le cose sono ci sono più chiare, si è aperta una nuova situazione.

Lo scenario di una Grecia che lascia l’eurozona (‘Grexit’) è più frequentemente ed esplicitamente presentata come la sola via a disposizione del governo di Syriza per evitare una marcia indietro rispetto alle sue promesse elettorali.

Per discutere in maggiore profondità questa materia abbiamo parlato con il parlamentare di Syriza Costas Lapavitsas. Lapavitsas è per molti versi l’anti-Varoufakis, non solo quanto a stile e percorso personale ma, cosa più importante, in termini di linea politica; egli è divenuto la figura più identificata con una chiara e franca rottura con la politica dell'”euro buono” della dirigenza di Syriza.

In precedenza docente alla SOAS di Londra, Lapavitsas non è membro di Syriza (anche se è stato eletto nella lista del partito) ed è nuovo alla politica parlamentare. Tuttavia è stato un attivista socialista per la maggior parte della sua vita ed è noto per il suo incisivo e stimolante lavoro teorico sull’economia politica della moneta, del credito e della finanziarizzazione (lavoro iniziato con Makoto Itoh, studiando il marxismo giapponese).

Lapavitsas ha anche collaborato con il gruppo di Ricerca su Denaro e Finanza di Londra per produrre analisi concrete delle origini e della traiettoria della crisi europea e, più recentemente, ha pubblicato insieme con l’economista tedesco neo-keynesiano Heiner Flassbeck una sorta di manifesto che propone una rottura radicale con l’euro.

E’ stato intervistato per Jacobin da Sebastian Budgen, un direttore di Verso Books che membro del consiglio della rivista “Historical materialism” .

Ringraziamo Nantina Vgontzas, Féliz Boggio, François Chesnais e Bue Hansen per i loro commenti, così come Jonah Walter per aver trascritto il dialogo.

 

Da persona che ha la sua storia, come ha vissuto la transizione a essere spinto giusto in una posizione di carica elettorale da parlamentare e nel mezzo di una tempesta politica? Deve essere un contrasto decisamente grosso rispetto ai giorni delle riunioni di facoltà alla SOAS.

[Ride] Non potrebbe essere maggiore! Devo dire due cose al riguardo. Innanzitutto l’effettivo periodo delle elezioni – la campagna elettorale e così via – è stato un processo incredibile perché davvero per la prima volta nella mia vita politica sono venuto a contatto con quello che potremmo chiamare, in senso genuino, ilpopolo di una particolare area, la Grecia.

Ho parlato a gruppi grandi e piccoli in villaggi, paesi, individualmente e così via, e ho rilevato che le mie idee – e io personalmente! – trovavano molta eco presso queste persone. E’ stata un’esperienza nuova per me perché il mio coinvolgimento nella politica è sempre stato a sinistra ed è stato sempre di influenza limitata. Dunque questa è la prima cosa.

Ora, dopo la mia elezione a parlamentare l’esperienza è stata – come dire? Esito a usare la parola ‘eccitante’ perché per molti versi non si tratta realmente di eccitazione – elettrizzante e insolita. Perché ti trovi a sedere al centro degli eventi politici e del processo politico, accumuli quell’esperienza e vieni a contatto con posizioni consolidate e vedi come funziona la vita politica al livello più elevato e sei parte di ciò. Per un uomo con la mia storia politica questo è nuovo e insolito.

 

Solo per chiarezza, lei è stato eletto in un’area della Grecia da cui viene la sua famiglia?

Sì. Sono stato eletto nell’area di Imathia, nella Macedonia centrale. E’ da là che viene la mia famiglia.

 

E questo resta un aspetto importante della politica greca?

Indubbiamente. Il fatto che il mio nome sia riconosciuto localmente ha avuto una parte considerevole nella mia elezione nella prefettura.

 

Cominciamo dagli eventi che hanno avuto luogo dopo le elezioni, più specificamente sul lato economico e poi passeremo alla politica. Immagino che la prima cosa che dobbiamo discutere è la questione della formazione del governo: l’alleanza con ANEL e i ministri che sono stati nominati al governo, più specificamente, da una parte, Varoufakis, il parlamentare Georgios Stathakis e il parlamentare Panagiotis Lafazanis.

Ora che c’è un po’ di distanza da quella procedura come descriverebbe la formazione dell’alleanza di governo e del governo?

Molto tradizionale per molti versi. E’ un atto di equilibrio. E’ un atto di equilibrio riguardo alla società in generale ma anche per quanto riguarda le dinamiche interne di Syriza. Il governo, prima di tutto, è stato formato in alleanza con ANEL. Contrariamente a quanto è stato detto all’epoca dalla stampa internazionale, non è un'”alleanza rosso-bruna”. Quella è stata una lettura completamente scorretta della situazione.

ANEL non è una versione morbida di Alba Dorata. Non sono fascisti morbidi. Quella è solo una stupidaggine. ANEL è fondamentalmente quella che chiamiamo la destra popolare in Grecia, che è tradizionalmente statalista, scettica nei confronti dell’alta finanza e nazionalista e conservatrice con la ‘c’ minuscola.

Ovviamente non sono compagni di letto naturali della sinistra radicale. Tuttavia, data la situazione, la scelta era chiara. O non si formava per nulla un governo – e si sarebbero avute nuove elezioni e il caos e via di seguito – oppure di formava un governo con queste persone che almeno sono state costantemente contro l’accordo di salvataggio e a favore dei lavoratori e delle piccole e medie imprese, eccetera.

 

Dunque lei scarta la tesi che affermava che era possibile un governo di minoranza?

E’ solo una stupidaggine. Data la situazione non era fattibile null’altro. La vera colpa è ovviamente del Partito Comunista (KKE). Che, ancora una volta, non è stato all’altezza delle domande della storia e ha scelto una linea di completa opposizione e completa ostilità nei confronti di Syriza e di ciò per cui è schierata, e perciò ha costretto Syriza a fare questo governo con ANEL.

Così come si sono sviluppate le cose non è affatto un male, visto che ha reso solido il sostegno a Syriza tra i settori più poveri della società, che hanno tradizionalmente guardato alla destra conservatrice e che hanno improvvisamente prestato sostegno al governo della sinistra radicale.

Ma la stessa composizione del governo è stata un atto di equilibrio. La cosa più importante – ciò che questo realmente segnala – è che Syriza ha scelto di occuparsi dei negoziati delle ultime settimane e di affrontare il prossimo periodo su una linea che porta avanti ormai da anni e sulla base della quale ha vinto le elezioni.

In altre parole Syriza tenterà di cancellare l’austerità, ridurre il debito – ristrutturare o cancellare il debito – e mutare l’equilibrio delle forze sociali, economiche e politiche in Grecia e in Europa più in generale senza uscire dall’unione monetaria e senza entrare in un conflitto a tutto campo con l’Unione Europea. E’ chiaramente questo che il governo segnala.

 

Ed è un atto di equilibrio nel senso che ci sono rappresentanti sia della destra di Syriza – Stathakis, per esempio – sia della sinistra – Lafazanis – e poi alcune figure come Varoufakis che non hanno alcun rapporto organico con il partito?

E’ un atto di equilibrio esattamente nel senso che tutte le ali del partito sono rappresentate nel modo che lei segnala. E Varoufakis, nella misura in cui esprime una qualsiasi linea particolare, esprime la linea che ho appena sintetizzato. Cioè la posizione che si possono ottenere queste cose rispettando i confini dell’euro. Questa è la sua posizione pubblica e questo è ciò che egli impersona e ciò per cui al momento è schierato.

 

Parliamo un po’ di Varoufakis, per quanto le è possibile. Naturalmente c’è stato un mucchio di ciance a proposito di Varoufakis, sulla sua personalità, il suo stile, eccetera. E ci sono stati anche alcuni articoli seri su di lui, di Michael Roberts per esempio, uno intitolato “Più eccentrico chge marxista”. Innanzitutto quale genere di ruolo ha avuto Varoufakis nella sinistra greca prima delle elezioni di Syriza?

Sono che ci sono stati molti articoli su Varoufakis e sul suo stile di vita, su ciò per cui è schierato e davvero non voglio commentare ciò. E’ compito di altri. Non ora … forse più in là (l’impatto che ha avuto sulla politica e così via).

Quanto a se sia un marxista o un radicale, eccetera, raccomanderei un maggior discernimento nell’uso del termine ‘marxista’, particolarmente da parte di persone che si fanno un nome come marxisti perché usano certi termini e parlano un mucchio di marxismo, mentre la sostanza delle loro analisi è quella politica ed economica più pedestre che si possa immaginare. Dunque maggior moderazione nel definire le persone ‘marxiste’ o no, per favore. Questa non è più politica da anfiteatro universitario; è reale, d’accordo?

Dunque Varoufakis: conosco Varoufakis da molto come economista, ovviamente. Non penso lo si possa definire un uomo di sinistra nel senso della sinistra radicale e certamente non della sinistra rivoluzionaria, non nel senso che riconosceremmo in questo paese, ma è certamente un uomo che appartiene alla sinistra del centro.

E’ sempre stato così. E’ sempre stato eterodosso e critico nella sua economia. E’ sempre stato un uomo che ha rigettato l’economia neoclassica e la teoria neoclassica nel suo lavoro. Ed è sempre stato pronto a venir fuori con consigli di politica fuori dagli schemi e pronto a pensare a vie alternative.

Questi sono tutti meriti, dal mio punto di vista. Tuttavia quando si considera il suo percorso si deve riconoscere che è stato anche un consigliere del governo di George Papandreou , che è stato il primo governo che ha introdotto le politiche del salvataggio in Grecia e vi è rimasto associato con un considerevole periodo di tempo. Dunque in quel senso non penso lo si possa definire un uomo di sinistra in alcun senso sistematico.

 

E lo stesso Varoufakis ha esplicitamente situato la sua posizione all’interno di una specie di cornice keynesiana ed è associato a persone come James Galbraith che sono apertamente keynesiane.

Mi lasci essere chiaro al riguardo. Keynes e il keynesismo, sfortunatamente, restano gli strumenti più potenti che abbiamo, anche da marxisti, per occuparci di politica nel qui ed ora. Naturalmente la tradizione marxista è molto potente nel trattare delle questioni di medio e più lungo termine e nel comprendere le dimensioni di classe e le dimensioni sociali dell’economia e della società in generale. In questi campi non c’è paragone.

Ma nell’occuparsi di politica nel qui ed ora, sfortunatamente, Keynes e il keynesismo restano un insieme di idee, concetti e strumenti molto importante persino per i marxisti. Questa è la realtà. Il fatto che alcuni amino usare le idee e non riconoscerle come keynesiane è qualcosa che non voglio commentare, ma succede.

Dunque non posso biasimare Varoufakis per questo, per associarsi ai keynesiani, perché anch’io mi sono associato ai keynesiani, apertamente ed esplicitamente. Se mi si mostrassero un altro modo di fare le cose ne sarei felice. Ma posso assicurarle, dopo molti di decenni di lavoro sulla teoria economica marxista, che al momento non esiste. Dunque sì, Varoufakis ha collaborato con keynesiani. Ma ciò non è, in sé e di per sé, una colpa.

 

Naturalmente lei sta operando una distinzione tra il marxismo come strumento analitico e il keynesismo come strumento politico, ma essi hanno anche obiettivi diversi e Varoufakis ha detto esplicitamente che il suo obiettivo è salvare il capitalismo da sé stesso. Non lo considera una linea distintiva di frattura?

Oh sì, moltissimo! Keynes non è Marx e il keynesimo non è marxismo. Naturalmente c’è un abisso tra i due ed è in gran parte come ha detto lei. Il marxismo riguarda rovesciare il capitalismo e dirigersi verso il socialismo. E’ sempre stato così e rimarrà così. Il keynesismo non ha tale oggetto. Riguarda migliorare il capitalismo e persino salvarlo da sé stesso. E’ perfettamente esatto.

Tuttavia quando si tratta di temi di politica, come la politica fiscale, la politica dei rapporti di cambio, la politica bancaria, eccetera – temi su cui la sinistra marxista deve necessariamente prendere posizione se vuol fare politica seria anziché denunciare il mondo da stanzini – allora si scopre rapidamente che, piaccia o no, i concetti usati da Keynes, i concetti elaborati del keynesismo, svolgono un ruolo indispensabile nell’elaborare una strategia che resta marxista.

E’ questa la tesi che sostengo. Sfortunatamente non c’è altro modo. E quanto prima i marxisti si rendono conto di ciò, tanto più rilevante e realistica diverrà la loro stessa posizione.

 

Parliamo allora dei negoziati che ovviamente si sono svolti in numerose fasi. Penso sia corretto dire – non so se lei sia d’accordo – che ci sono oggi due versioni su ciò che si è verificato sul fronte del negoziato.

Una versione, che è quella dominante sia nella sinistra critica marxista sia nella stampa finanziaria (a eccezione di figure come Paul Krugman e Galbraith) è che i greci – Varoufakis eccetera – si sono presentati cercando di giocare a poker senza avere in mano le carte giuste, senza nemmeno tentare di sostenere la loro strategia, e sono stati fondamentalmente battuti dalla UE e in particolare dai tedeschi.

L’altra versione, che proviene dai media filo-Varoufakis, filo-dirigenza di Syriza, è che, in realtà, essi hanno giocato la partita del negoziato con estrema abilità e sono riusciti a ribaltare il tavolo almeno parzialmente, mettendo i tedeschi sulla difensiva e guadagnandosi dello spazio di respiro che altrimenti non avrebbero avuto e legittimando un discorso sulla non rimborsabilità del debito e sull’inefficacia delle misure d’austerità, eccetera.

Non so se lei sia d’accordo su tale caratterizzazione delle due letture dominanti e, se sì, quale sia la sua posizione, in rapporto a esse, su ciò che è accaduto.

Riconosco molto di ciò che lei sta dicendo. In realtà non voglio collocarmi riguardo a questi due approcci generali pur non necessariamente dissentire da lei. Le dirò quello che penso e poi starà ai lettori e ad altri stabilire con quale schieramento sono in maggior sintonia.

Il mio punto principale, e posso cominciare da esso, è che il governo si è presentato ai negoziati con un approccio che, come ho già detto, era cruciale per la sua composizione, per la sua creazione, cioè che possiamo entrare nella stanza dei negoziati e possiamo pretendere, e batterci per, cambiamenti considerevoli, inclusa la cancellazione dell’austerità e la cancellazione del debito, restando al tempo stesso fermamente entro i confini dell’unione monetaria.

Questo è il punto chiave. Questo è ciò che ho chiamato nel mio lavoro l’approccio dell'”euro buono”. Che, cambiando politica, vincendo le elezioni, cambiando il rapporto di forza politico in Grecia e in Europa negozieremo e trasformeremo l’unione monetaria e l’Europa nel suo complesso grazie alle carte politiche che metteremo sul tavolo. E’ cos’ che si sono presentati. E la loro strategia negoziale è stata determinata da ciò.

Ora, ci sono stati elementi di inesperienza, che sono inevitabili; elementi di personalità, che sono inevitabili e ai quali si è alluso in precedenza quando lei ha parlato di Varoufakis, eccetera. Questi sono elementi importanti. Tuttavia la questione chiave non è questa. La questione chiave è stata la strategia e questo deve essere compreso molto bene, perché ci si può perdere in discussioni sul poker, sui bluff, e su questo e quello e quell’altro.

Questo governo aveva una strategia ed era quella che ho appena esposto. E ha scoperto la realtà. Una realtà che è, penso, che questa strategia è arrivata al termine. Sì, l’equilibrio politico è cambiato in Grecia, ed è cambiato in misura spettacolare. Perché non si tratta solo del fatto che questo governo ha ottenuto il 40 per cento dei voti; ha anche avuto l’80 per cento del sostegno popolare, e i sondaggi lo dimostravano. Ma ciò ha contato molto, molto poco nei negoziati.

Perché? Perché i confini dell’unione monetaria sono quelli che sono. Non sono sensibili a questo genere di argomento. E’ una serie molto rigida di istituzioni con un’ideologia e un approccio integrato alle cose. L’altro schieramento non avrebbe cambiato atteggiamento solo perché c’era un nuovo governo in un piccolo paese.

Così i greci si sono presentati là, avevano grandi speranze e sono caduti nella trappola preparata loro da quelle istituzioni. E quella trappola consisteva fondamentalmente in (a) carenza di liquidità e (b) carenza di finanziamenti per il governo. E’ così che le istituzioni hanno tradotto il loro vantaggio strutturale in rapporto ai greci.

I greci non avevano scelta. Non potevano far fronte a ciò. Syriza non poteva farvi fronte perché aveva accettato i confini dell’euro. Fintanto che accetti i confini dell’euro non hai risposte efficaci. E’ questo il motivo per cui alla fine il risultato è stato quello che è stato.

Hanno tentato, hanno lottato per qualcosa di diverso. L’altro schieramento, in particolare i tedeschi, ha tolto loro la terra di sotto i piedi. E verso la fine dei negoziati era una questione di giorni prima che le banche dovessero essere chiuse. In quella situazione i greci hanno fondamentalmente accettato un compromesso al ribasso.

 

Penso ci siano due letture critiche della strategia della linea governativa all’interno di Syriza. Una è che l’euro è semplicemente preso come un articolo di fede, un principio da cui non si può deviare, o perché semplicemente è in sé e di per sé una “cosa buona” o perché è legittimato all’interno della società greca e non si può andare contro l’opinione dominante. O è così oppure ci si basa su un’analisi che è possibile decifrare divisioni nei diversi poteri della UE, che è possibile dividere Mario Draghi da Wolfgang Schaeuble, che è possibile portare Matteo Renzi e François Hollande dalla parte della posizione greca, che è possibile fare affidamento su Obama perché eserciti pressioni sulla Merkel e via discorrendo.

Ciò che penso molti abbiano difficoltà a capire fuori dalla Grecia è sia l’idea che si possa essere legati all’euro come questione di principio, come materia di fede, oppure l’idea, che sembra molto ingenua, che questi governi social-liberali – o nel caso di Obama governi neoliberisti – sarebbero in qualche modo alleati oggettivi contro i tedeschi e i sostenitori della linea dura nell’Unione Europea. Qual è il suo punto di vista al riguardo? Qual è la lettura più benevola della cornice analitica da cui attingono per scrivere questa strategia?

La mia lettura della cornice analitica, quando la affronto da economista politico, è del tutto contraria e l’ho detto apertamente. In realtà l’ho detto molti anni fa e penso che gli eventi delle ultime poche settimane abbiano confermato la mia posizione iniziale. Io, da marxista, ritengo che dobbiamo partire dall’economia politica della situazione, non dall’equilibrio politico di forze. Sfortunatamente la sinistra greca e gran parte della sinistra europea fa il contrario.

 

Parte dalla geopolitica anziché dall’economia politica?

Geopolitica e politica interna. L’equilibrio di forze politiche, perché è a questo che, sfortunatamente, è stato ridotto il marxismo. E quando si fa questo, quando si comincia dalla politica – il rapporto di forze interno o internazionale – è facile darsi a voli di fantasia. E’ facile cominciare a pensare che, alla fine, tutto è politica e che perciò si può cambiare il rapporto di forze politiche e tutto è realizzabile.

Beh, mi dispiace, non è così. E questo non è marxismo. Da marxista io credo che la politica, alla fine, sia un derivato della realtà materiale dei rapporti economici e di classe. Questa è un’affermazione molto, molto profonda di Karl Marx, nella misura in cui è compresa correttamente, nella misura in cui non è meccanica. La morale è che quest’affermazione significa che non tutto è possibile mediante la politica.

Ed è esattamente quello che abbiamo appena visto. Perché? Perché l’economia politica dell’unione monetaria è determinante. Che ci piaccia o no, l’Europa e la Grecia esistono oggi entro i confini di un’unione monetaria.

Sfortunatamente gran parte della sinistra marxista ha fatto finta che non sia così o ha frainteso l’importanza della moneta, qui. E ciò non sorprende, perché la sinistra europea semplicemente non capisce il denaro e la finanza. Fa finta di sì, ma non è così.

Ripeto: ciò che è fattibile e ciò che non lo è alla fine è deciso dall’economia politica dell’unione monetaria. Entro i confini del capitalismo europeo, naturalmente; il capitalismo è l’elemento determinante. Ora Syriza l’ha appena scoperto. Ed è ora che riconsideri le cose e cominci a capire come plasmare la politica e come plasmare il proprio approccio politico all’interno di questi confini.

Se vuole realizzare altre cose politicamente, deve cambiare la cornice istituzionale. Non c’è altro modo. Per cambiare tale cornice si deve andare a una rottura. Si deve perseguire una frattura. Non si può riformare il sistema dell’euro. E’ impossibile riformare l’unione monetaria. E’ questo che è diventato chiaro.

Ora, questa posizione corrisponde a dire che non si può far nulla a meno di rovesciare il capitalismo, che è ciò che segmenti dell’ultrasinistra vanno dicendo? Quello è chiaramente un’ultrasinistrismo assurdo. Non c’è bisogno di una rivoluzione socialista, e non c’è bisogno di rovesciare il capitalismo ogni minuto della giornata per fare piccole cose. Naturalmente miriamo a rovesciare il capitalismo e naturalmente alla fine vorremmo vedere la rivoluzione socialista. Ma al momento ciò non è nelle carte.

Non occorre una rivoluzione socialista in Grecia e non è necessario rovesciare il capitalismo in Grecia per liberarsi dell’austerità. Non occorre. Ma certamente occorre aver ragione della cornice istituzionale dell’euro. Tale semplice posizione non è compresa – o non è diffusamente gradita – all’interno di Syriza e all’interno della sinistra europea e questa è una tragedia da anni.

 

E il motivo di questo è che quella posizione è più o meno la posizione di Antarsya, o del KKE, e che a causa del rapporto interno di forze politiche non è possibile cedere questi argomenti, nemmeno a livello analitico, a questi critici di sinistra?

In parte. In altri termini abbiamo una lunga patologia nella sinistra greca – e, mi affretto a dire, nella sinistra britannica, quello che ne rimane, ovviamente – che è del tutto venefica a questo livello.

Ma c’è qualcosa di più profondo qui: non è semplicemente il settarismo patologico, eccetera. Ciò che è in gioco e ciò che è in questione nella sinistra non-Syriza è la paura del potere. Essa si maschera e si cela dietro i paroloni. Nel caso del Partito Comunista una parola sì e una no riguarda il potere dei lavoratori. In Antarsya una frase sì e una no è a proposito del rovesciamento del capitalismo e dell’instaurazione del comunismo. Ciò che questo nasconde, in realtà, è profonda paura del potere. Una profonda paura del potere!

E loro pensano che la gente non lo capisca, ma è del tutto evidente che queste persone e queste organizzazioni sono spaventate fin dentro il midollo delle loro ossa dalla prospettiva di responsabilità e di potere. E’ per questo che assumono queste posizioni di ultrasinistra.

C’è un proverbio tradizionale in greco che un uomo che non vuole sposarsi continua a fidanzarsi. Bene, questo è ciò che sono andati facendo i comunisti, disgraziatamente. Poiché non vogliono affrontare la questione di occuparsi della situazione nel qui e ora, parlano di rivoluzione.

Così, se si fa questo non occorre affrontare la questione dell’euro. Si finge che la questione dell’euro sia una specie di questione minore o una questione a parte, o quant’altro. Oppure si spara grosso: quel che è necessario è uscire dall’Unione Europea, uscire dalla NATO, uscire da questo, da quello e da quell’altro. In altri termini non si offre alcuna risposta specifica, perché si risponde a tutto.

 

Una lettura più benevola potrebbe essere che sono preoccupati degli effetti del potere sui governi di sinistra, in base all’esperienza storica. Hanno meno paura del potere in sé che degli effetti del potere che distruggono l’autonomia dei movimenti sociali.

Qui posso utilizzare un detto inglese: se hai paura del fuoco sta’ lontano dalla cucina. La politica riguarda questo. Non è questione di teorizzare e non è questione di tener lezioni in piccole stanze eccetera.

La politica riguarda la società così com’è. E la società greca vuole risposte reali nel qui ed ora. Sfortunatamente solo Syriza ha cominciato a fornirle a modo suo ed è per questo che si trova dov’è, ed è per queste che le altre organizzazioni sono dove sono.

 

Ora c’è uno spazio di respiro, cosiddetto, che si è aperto per quattro mesi. C’è parecchia incertezza sa proposito di come le varie riforme che sono proposte dal governo saranno portate a compimento in concreto, sia in termini di riforme redistributive che erano state promesse in campagna elettorale, sia in termini di questioni quali le privatizzazioni, che sono anch’esse linee rosse.

Ci sono ora anche divisioni aperte che tutti possono vedere all’interno della stessa Syriza, con l’assemblea del comitato centrale tenuta nel fine settimana, eccetera. Come vede la fase in cui siamo attualmente, tra oggi e l’estate?

Sarà un periodo molto, molto duro per il governo e per Syriza. Un periodo molto duro. Naturalmente è la conseguenza del compromesso sottoscritto nei negoziati. Fondamentalmente all’epoca i creditori e la UE hanno accerchiato Syriza quanto più decisamente hanno potuto. Il governo sarà sotto costante pressione perché rispetti gli obiettivi fiscali e soddisfi i requisiti fiscali.

In marzo ci sono rimborsi molto pesanti del debito, che stanno già creando un problema molto grosso, perché il sistema fiscale è al collasso. In aprile il governo dovrà completare una revisione del processo esistente, che è una revisione rimandata del programma esistente, e quello sarà un periodo d’inferno, perché ovviamente le istituzioni monetarie saranno rigide.

E poi in maggio il governo dovrà prepararsi ai negoziati che ci saranno a giugno per un nuovo accordo più di lungo termine che in qualche modo si occuperà di finanziare il debito e ottenere la riduzione del debito promessa da Syriza al popolo greco. Il tempo tra oggi e giugno volerà, e sarà un tempo di costanti frizioni e costante lotta per evitare una crisi, o piuttosto un periodo in cui far fronte alla crisi, su base quotidiana.

Ora, in tale contesto il governo, dal mio punto di vista, ha solo due vere opzioni se deve sopravvivere e se deve fare ciò che è stato eletto per fare.

La prima consiste nel cominciare ad applicare il più possibile il proprio programma. E’ assolutamente indispensabile che passi attraverso il parlamento una legislazione che cominci a mostrare alla gente comune che noi intendevamo quello che abbiamo detto e che, anche entro i confini dell’accordo, possiamo mantenere le promesse, a volte forzando tali confini, se possiamo.

La seconda cosa che il governo deve fare è, naturalmente, imparare la lezione della strategia fallita che è sfociata nello sporco accordo di febbraio e cominciare a prepararsi per un approccio diverso nei negoziati di giugno. Poiché se approccerà questi negoziati con la stessa strategia, avrà gli stessi risultati.

 

Dunque per lei i temi chiave che il governo può far avanzare sarebbero quelli di riallacciare l’elettricità alle persone, forse rivalutare le pensioni, e ridare assistenza sanitaria a chi l’ha persa, ma non temi che sono già stati esclusi, come aumenti del salario minimo, riassunzione dei lavoratori licenziati nel settore pubblico o rinegoziazione o cancellazione delle privatizzazioni?

Dobbiamo essere attenti e realistici in proposito. Il governo si trova in una situazione difficile, per i motivi che abbiamo discusso. Quattro mesi sono un periodo di tempo breve. Il governo è anche inesperto e la macchina dello stato è lenta nel muoversi e generalmente ostile nei confronti del nuovo governo. Questo stato delle cose non favorisce cambiamenti spettacolari nell’immediato, certamente non da parte di un governo di sinistra.

Perciò devono essere stabilite delle priorità su ciò che può e ciò che non può essere realizzato in questo breve arco di tempo, guardando anche a radicare il sostegno popolare e a dimostrare alla gente che non siamo come l’altra banda. Quali tra le promesse che sono state fatte possono cominciare a essere mantenute è una questione da valutare.

Certamente sono di primaria importanza leggi che affrontino la crisi umanitaria ed esse sono già state introdotte. Leggi per occuparsi dei debiti nei confronti del settore pubblico, questioni fiscali, sono anch’esse molte importanti. Leggi che prevedano il divieto di pignoramento delle case per rimborsare i debiti verso le banche e così via, sono anch’esse importantissime. Aumentare il salario minimo, anche se resta un impegno che abbiamo preso e che andrebbe onorato, può aspettare quattro mesi. Non è la fine del mondo.

Così devono essere decise attentamente alcune priorità in linea con ciò che lei ha suggerito. Ma se la UE e le altre istituzioni eserciteranno pressioni su di noi per non farci introdurre anche solo alcune delle misure che ho citato, dovremmo essere fermi e salutarle. Se non lo facciamo, siamo finiti.

 

Parliamo, allora, di salutarle! Lei ha pubblicato un libro con Heiner Flassbeck che percorre i vari passi che lei considera sarebbero necessari per un’alternativa alla strategia attuale. Ci sono anche alcune domande che io ho su tali passi e altre domande mi sono state trasmesse. Alcune delle obiezioni sono piuttosto ovvie. Ma presumibilmente il passo più urgente sarebbero i controlli sui capitali, che sono anche compatibili con l’appartenenza alla UE?

Penso che, prima di ciò, dobbiamo fare un passo indietro e dire che una strategia alternativa – e una comprensione chiara di che cosa è e che cosa non è fattibile e quale dovrebbe essere l’approccio – è importante anche per i negoziati.

Credo fermamente che i negoziati di febbraio avrebbero avuto risultati diversi non solo se il governo fosse stato consapevole della trappola ma fosse anche stato preparato a prendere iniziative per non caderci. I negoziati hanno risultati molto diverso se l’altra parte si rende conto che disponi di un’alternativa e sei deciso ad adottarla, se necessario.

 

Che sei in grado di sganciare la bomba atomica, se lo vuoi?

Esatto! Questo è un punto molto importante. Perché se dici loro che non sei pronto a usare la bomba atomica, come lei dice, allora ovviamente ti indebolisci enormemente. Così, questo è il primo punto. Ora, se si arrivasse a ciò e la Grecia forse costretta a farlo…

 

Come lei pensa che probabilmente accadrà, tra quattro mesi.

Sì, penso che accadrà. Oppure penso che troveranno molto difficile individuare un’alternativa significativa.

Voglio essere chiaro, e questa è una buona sede per esserlo, e dire quanto segue: la soluzione ovvia per la Grecia oggi, se guardo a essa da economista politico, la soluzione ottimale, sarebbe un’uscita negoziata. Non necessariamente un’uscita conflittuale, ma un’uscita negoziata. Penso che la Grecia avrebbe una possibilità ragionevole se si presentasse ai negoziati e fosse pronta a lottare per, e ad accettare, un’uscita negoziata. Potrebbe essere per un periodo di tempo limitato; se il popolo greco l’accettasse più facilmente, tanto meglio.

Uscita negoziata … negoziata nel senso che l’altra parte della trattativa sarebbe una profonda cancellazione del debito che sarebbe il prezzo che l’unione monetaria dovrebbe accettare, una cancellazione del 50 per cento. E, cosa fondamentale, l’uscita sarebbe protetta, nel senso che la Banca Centrale Europea (BCE) si occuperebbe di assicurare che la svalutazione della nuova moneta non fosse superiore al 20 per cento e che le banche sopravvivessero.

Queste due condizioni – proteggere il rapporto di cambio e proteggere le banche – non costano quasi nulla. Non è come se si chiedesse all’unione monetaria di impegnare fondi o di sopportare un costo considerevole per esse. Farebbe un’enorme differenza per la Grecia senza, in effetti, alcun costo per l’unione monetaria. Il solo costo per l’unione monetaria sarebbe la cancellazione del debito.

In tale contesto posso vedere motivi per cui l’unione monetaria accetterebbe ciò, poiché porrebbe fine al problema greco. Per me, questa è la soluzione ottimale oggi, perché posso capire le difficoltà di un’uscita conflittuale. Tuttavia, se si arriva a ciò, anche un’uscita conflittuale è meglio che continuare con il programma attuale.

 

Una delle questioni dell’uscita negoziata: alcuni stanno dicendo che il ministro tedesco delle finanze, Wolfgang Schaeuble, è favorevole a essa e che è trattenuto solo dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Che accetti l’altra parte dell’accordo è ovviamente opinabile. Qual è la sua opinione?

Schaeuble risulta ufficialmente, o almeno ministri greci risultano ufficialmente affermare che Schaeuble ha offerto un’uscita assistita ai greci già nel 2011. Posso capire, dalla prospettiva della struttura di potere tedesca, perché potrebbero essere tentati da questa idea e posso vedere che è un obiettivo per il quale varrebbe la pena che il governo greco di sinistra si battesse, per ragioni evidenti.

Non so se ci siano divisioni su ciò nella dirigenza tedesca; davvero non lo so, perché non conosco i dettagli del dibattito politico tedesco. Ma l’argomento può essere così convincente a livello generale che posso essere ragionevolmente ottimista.

Se lo schieramento greco si battesse per questo e indicasse di volerlo accettare, io penso che potrebbe essere raggiunto un compromesso anche nell’interesse dei lavoratori greci, non solo dell’élite greca, perché si eviterebbero le difficoltà dell’uscita conflittuale.

Vale decisamente la pena di battersi per questo. E io sosterrei che è a questo che il governo di Syriza dovrebbe attrezzarsi nel prossimo periodo. Ma, ripeto, se ciò dovesse dimostrarsi impossibile, anche un’uscita conflittuale sarebbe meglio che una prosecuzione del programma attuale.

 

Supponiamo tuttavia che non sia possibile. Come ho detto, sia oggettivamente sia soggettivamente – in termini di gestione del panico che seguirebbe – presumibilmente il primo passo da attuare è un immediato controllo dei capitali?

Partiamo di nuovo dalla parte opposta. Consideriamo l’uscita conflittuale. Se dovesse verificarsi, la prima cosa che avrebbe immediatamente luogo sarebbe un’insolvenza del debito. Se la Grecia diventasse insolvente riguardo al proprio debito si aprirebbe un processo di ristrutturazione negoziata del debito. (Perché l’insolvenza non significa che il debito scompare; semplicemente ci si rifiuta di pagarlo).

Se non accade entro i confini dell’unione monetaria, la ristrutturazione risulta molto più facile. Molto, molto più facile! Il FMI, per esempio, sa che il debito deve essere ristrutturato. La vera forza che impedisce la ristrutturazione in Grecia è l’Unione Europea e l’unione monetaria. Così la ristrutturazione del debito dovrebbe diventare più facile e più attuabile se la Grecia, ovviamente, uscisse. Questa è la prima cosa. Il debito può aspettare. La Grecia dichiarerà bancarotta, il debito resterà fermo, può aspettare.

I veri problemi allora saranno i problemi immediati. I problemi immediati richiederanno una serie di azioni immediate. Sappiamo quali siano dall’esperienza di Cipro, dove la UE stessa le ha imposte. Per prevenire molte delle sue domande, sappiamo che la UE consente controlli sui capitali e li impone essa stessa quando deve.

Così il governo dovrebbe immediatamente imporre controlli sui capitali e dovrebbe imporre immediatamente controlli sulle banche. Superfluo dirlo. Dovrebbe fare quello che ha fatto la UE nel caso di Cipro. Ora, quanto a lungo dureranno tali controlli e quali forme assumeranno dipende da come si svilupperà la situazione. Certamente dureranno per un considerevole arco di tempo. E qualche forma di controllo sui capitali ovviamente permarrà, come dovrebbe.

I controlli sulle banche, supponendo che la situazione sia regolarizzata in un arco di tempo ragionevole, possono cominciare a essere cancellati dopo pochi mesi. Ma queste due sono misure immediate, misure fondamentali, che dovranno essere prese immediatamente.

Poi ci sarà il problema della ridenominazione di ogni cosa nella nuova moneta. Ciò genererà una quantità di problemi legali – avremo bisogno di un esercito di avvocati – poiché il modo più facile per attuare la ridenominazione è essenzialmente alla pari.

La ridenominazione dipenderà dalla legge che regge i contratti di cui ci si occupa. Se i contratti sono regolati da una legge straniera, sarà problematico. Questi contratti dovranno essere parcheggiati in conti speciali e dovranno essere gestiti in un periodo di tempo. Quelli regolati dalla legge greca, in linea di massima, andranno ridenominati immediatamente. E ciò significa, naturalmente, depositi, debiti bancari e altre obbligazioni. Di qualsiasi cosa si tratti, di qualsiasi cosa rientri entro i limiti della sovranità greca, dello stato greco e del sistema legale greco, dovrebbe essere in gran parte essere ridenominato immediatamente.

La ridenominazione creerebbe un problema per le banche e sarebbe ovviamente immediatamente necessaria la nazionalizzazione delle banche. Ma la nazionalizzazione delle banche è chiaramente un passo vitale oggi perché il sistema bancario privato, o il sistema bancario in generale, ha fallito. Dunque non stiamo facendo nulla di particolarmente sconvolgente.

Poi lo stato dovrà intervenire, una volta nazionalizzate le banche e ridenominati i loro bilanci, per ristrutturare le banche. Le banche necessitano di riorganizzazione per vedere quali banche resteranno e a quali condizioni. E’ un processo che richiederà un certo tempo e non sarà semplice.

 

E lei considera questa nazionalizzazione come un processo puramente dall’altro o come qualcosa che coinvolgerebbe anche un certo grado di controllo popolare?

Assolutamente con maggior controllo popolare e partecipazione dei lavoratori! I sindacati dei bancari sono molto attivi e vogliono contribuire positivamente a ciò che sta avvenendo. Avrebbero un ruolo nella gestione delle nuove banche e nella loro riorganizzazione, naturalmente. Non è solo una cosa calata dall’alto.

Ma una cosa calata dall’alto è necessaria. Dovremo nominare un commissario pubblico per il sistema bancario; dovremo cambiare immediatamente gli amministratori e poi avviare il processo di ristrutturazione delle banche per creare, finalmente, alcune banche sane. Aumenteranno l’occupazione e la produzione.

La cosa successiva sarebbe, naturalmente, per certi versi quella più difficile, la più complicata: occuparsi dei particolari mercati e dell’impatto dell’uscita su tali mercati. Ora, ci sono tre mercati chiave qui: energia, che significa fondamentalmente petrolio, cibo e medicinali.

La situazione della Grecia al riguardo è molto migliore di quanto fosse nel 2010 perché il paese ha reagito in larga misura al proprio squilibrio. E’ più in grado di assicurarsi le proprie importazioni di quanto lo fosse nel 2010. Ma anche così sarà necessario un intervento attivo in queste tre aree per assicurare che i bisogni siano ordinati per priorità, che le persone che necessitano assolutamente di medicinali e di cibo e così via li ottengano in via prioritaria.

Non è così difficile come alcuni amano descriverlo. Non sarà un periodo piacevole, ma ciò non è sufficiente. Non è sufficiente in sé e di per sé affermare che l’uscita non dovrebbe essere consentita. Alla lunga il costo di pochi mesi di difficoltà non è nulla. E se c’è della pianificazione, tale costo può essere considerevolmente ridotto.

 

In concreto parliamo di razionamento, vero?

Sì, stiamo parlando di un processo di razionamento.

 

E voi contate sulla burocrazia greca per attuarlo in modo equo ed efficiente?

Sfortunatamente sì. Ma lei mi mostri un’alternativa e io l’accetterò. Non solo questo, ma abbiamo quattro mesi. In tali quattro mesi possiamo adottare ogni sorta di iniziative per prepararci.

Lasci che le dica un paio di cose. La Grecia è nel mezzo di una crisi umanitaria. Nel paese c’è già il razionamento, solo che passa per il portafoglio. Vasti segmenti della popolazione non hanno abbastanza da mangiare, quelli che dipendono da elemosine e dalle cosiddette botteghe sociali, in altri termini luoghi dove il cibo è disponibile a prezzi molto bassi, e così via.

Sì, ci sono meccanismi di razionamento che sono già in atto. E far fronte ora alla crisi umanitaria creerebbe un potenziale ancor maggiore al riguardo. Stiamo già ponendo in essere meccanismi che potrebbero far fronte a questi problemi di carenza di offerta. Dunque non sarebbe così difficile come lo sarebbe stato nel 2010.

 

E presumibilmente dovreste avere dei livelli importanti di controllo popolare per evitare il clientelismo e la corruzione.

Come sempre. Ed è questo che Syriza potrebbe e dovrebbe fare. E ciò che potrebbe e dovrebbe fare un governo di sinistra. Esiste per questo.

Inoltre, quanto ai medicinali, la Grecia esporta farmaci. Ha una considerevole capacità di produrli. Il problema non è così grave come si vuol far credere. E quanto all’energia ha conseguito una vasta capacità di produrre elettricità. E parecchio prossima all’autosufficienza. Le carenze ci saranno per i trasporti e lì il razionamento sarà necessario. Il razionamento è ciò che stiamo vivendo al momento, salvo che è razionamento mediante il portafoglio. Molte persone non usano le proprie automobili perché non possono permetterselo. Le cose cambieranno per un gran numero di persone da questo punto di vista.

 

Quanto è cruciale per questo processo la creazione di alleanze alternative con paesi come Russia, Venezuela, Cina, Iran?

Assolutamente critico. E c’è motivo di aspettarsi buone reazioni da tali potenze. Se la Grecia è portata al quel passo …

 

Con condizioni, generalmente.

Beh, tutto nella vita ha condizioni. Se la Grecia è portata a quel passo dai cosiddetti partner della UE, allora la Grecia dovrebbe esplorare liberamente e senza costrizioni tutte le opzioni. Se fosse in grado di salvare il suo popolo e la sua società con queste alleanze e accordi allora dovrebbe ricorrervi.

Voglio dire ancora una cosa al riguardo, non tanto a proposito della geopolitica quanto a proposito della politica interna. Una delle caratteristiche chiave della procedura d’austerità applicata alla Grecia e ad altri paesi nei primi quattro o cinque anni è stata l’atomizzazione e l’individualizzazione della società.

Queste politiche contengono al loro interno fortissimi elementi di classe e fortissimi elementi atomistici. E l’atteggiamento che instillano nelle persone e il genere di approccio che incorporano nella società è “ciascuno per sé stesso e il diavolo si prenda chi resta indietro”. La società deve operare a dispetto di sé stessa per generare solidarietà, cosa che ha fatto, ma deve andare contro la corrente dominante che è ispirata da queste politiche.

Un’uscita del genere che ho citato creerà, penso, il risultato opposto. Creerà una mentalità da scialuppa di salvataggio. Una mentalità di unione, di coesione sociale e di solidarietà sociale per far sì che la società superi le difficoltà. Cioè, naturalmente, supponendo che l’uscita sia gestita e messa in atto da un governo di sinistra che desidera apertamente attuare l’uscita nell’interesse dei lavoratori e dei poveri in generale.

In tal caso, penso che l’atteggiamento che prevarrà sarà molto diverso da quello che abbiamo visto sinora e che sarà un atteggiamento che potenzialmente contribuirà alla trasformazione a lungo termine della società, che è naturalmente ciò che perseguiamo. L’uscita in sé e di per sé non è in realtà ciò che la sinistra persegue. Pensiamo che l’uscita sia un passo necessario ma non sufficiente per la trasformazione sociale.

 

Uno dei motivi per cui io penso ci sia scetticismo a proposito della strategia d’uscita è perché i precedenti che sono citati non sono sempre molto incoraggianti, almeno a livello politico. L’Argentina è un precedente citato sulla questione dell’insolvenza e della rivalutazione. Non molto incoraggiante in termini dei suoi risultati politici e di un qualsiasi genere di trasformazione sociale. La soluzione cipriota non è stata progressista; è stata una misura d’emergenza che è stata adottata e che ha portato al potere la destra. E ovviamente c’è una serie intera di altri esempi storici che sono meno che positivi.

Qual è per lei la questione cruciale – a parte questioni di volontà e soggettive – per assicurare che un’uscita abbia conseguenze progressiste piuttosto che regressive e francamente reazionarie?

Questa è un’ottima domanda, naturalmente, ed è stata un problema fin dallo stesso inizio di questa crisi già nel 2010. Poiché l’uscita può aver luogo in modi diversi.

Mi affretto ad aggiungere che nel caso dell’Argentina (anche se non suggerirei assolutamente che l’Argentina sia un faro luminoso per la sinistra) ci sono molte malignità ed equivoci. Ciò che è stato ottenuto in quel paese dopo l’insolvenza e l’uscita è stato di gran lunga meglio di quanto c’era prima e di gran lunga meglio per i lavoratori di quanto sarebbe successo se il paese avesse proseguito sullo stesso percorso. Sottolineiamo questo: per i lavoratori. Se si guarda la cosa in termini di occupazione e in termini di reddito, semplicemente non c’è paragone.

Dunque sì, non direi che la Grecia deve ripetere quello che ha fatto l’Argentina, ovviamente. Ma non abbocchiamo alla favola che la destra e i creditori hanno continuato a diffondere sull’Argentina per tanti anni.

Ora la cosa cruciale qui, per me, tuttavia, per l’uscita progressista, sarebbe la determinazione del governo a coinvolgere il popolo, così come lo è stata, la base, in ogni passo. Questo non è successo in Argentina. L’insolvenza si è verificata perché l’élite dominante perse il controllo. E poi per un periodo ci fu il caos.

La questione chiave qui è che, per noi, se le cose devono andare nella direzione che mi auguro e che si augura la sinistra, il popolo dovrebbe essere coinvolto a tutti i livelli. Dovrebbe essere informato. Dovrebbe avere delle scelte. Si dovrebbe chiedere la convalida popolare di ciò che accade. E dovrebbe essere richiesta azione popolare.

Poiché l’unica forza di un governo di sinistra è quella. Nessun’altra. Non è la competenza tecnica, anche se in parte ne disponiamo. E’ il sostegno popolare. Così è questo che mi piacerebbe vedere. E’ questo ciò che garantirebbe, penso, un’uscita in una direzione progressista, di transizione. Sfortunatamente non c’è stato molto di questo recentemente.

Jacobin ha recentemente pubblicato un articolo di Nantina Vgontzas a proposito dell’uscita e della rottura e lei pone la cosa nella cornice analitica dell’esistenza di un settore del capitale greco che non è libero e indipendente – lei parla di rotte aeree, patrimonio immobiliare e così via – che potrebbe essere in qualche misura disciplinato in attività più produttive da un governo di Syriza. Così c’è l’idea che Syriza potrebbe avere una specie di ruolo interventista in rapporto a un settore del capitale. Ovviamente c’è un settore del capitale che vorrà semplicemente darsi a scorrerie, ma c’è anche un settore del capitale che non può o non vuole.

La sua domanda è: questo è stato almeno discusso? E che cosa dice la Piattaforma della Sinistra, in particolare, a proposito del rapporto di Syriza con gli investitori in Grecia? E quali sono le sue idee personali al riguardo? Come potrebbero intervenire sulla questione di disciplinare il capitale e di cercare di indurlo a investire in attività più produttive?

In generale io non sono contrario a una strategia che affermi che un governo di sinistra dovrebbe avere aperte le proprie opzioni per disciplinare il capitale privato e forzarlo ad attuare una strategia d’investimenti e una strategia di crescita che siano coerenti con una maggior occupazione e una maggior crescita e maggiori redditi, eccetera. E non c’è nulla nel marxismo o nell’economia elementare che sia contro ciò. Certamente non in un periodo di transizione. Il marxismo non ha mai affermato che si debba produrre sino l’ultimo bottone e l’ultimo pezzo di corda mediante un qualche tipo di impresa statale. Dunque non sono contrario.

Sono molto scettico, tuttavia, al riguardo nel contesto della Grecia oggi. Non tanto per la crescita quanto perché i bisogni dell’economia greca sono molto più immediati di ciò. Queste sono questioni di medio termine. Sono questioni su cui darsi da fare e con le quali cominciare a confrontarsi una volta che siano risolti i problemi del debito, della pressione fiscale e dell’unione monetaria.

Quando cominceremo a mettere sul tavolo una strategia di sviluppo a medio termine per il paese, sì, allora posso vedere l’importanza di questo genere di approccio. E sarà assolutamente lieto di discuterne nel contesto di un piano nazionale di sviluppo. Ma prima che i problemi immediati siano risolti, questi sembrano esercizi che sono interessanti ma che non offrono risposte immediate.

 

Ma lei pensa che sia realizzabile, che ci sia un settore del capitale greco che non si lascerebbe prendere dal panico nel caso di un’uscita della Grecia?

Ne sono sicuro.

 

Compreso il grande capitale?

Beh, al riguardo ci vuole un’analisi migliore. Ma so che ci saranno segmenti di datori di lavoro e produttori che non si farebbero minimamente prendere dal panico per l’uscita, che l’affronterebbero direttamente e apertamente. E vorrebbero sentire quali siano le prospettive di sviluppo da essa.

 

A parte l’espropriazione e la nazionalizzazione del sistema bancario e la revoca della privatizzazione delle imprese dei servizi pubblici, quali altre grandi società necessiterebbero di essere espropriate/nazionalizzate?

La questione non si pone al momento. E’ un’ottima domanda ma per certi versi rientra nell’ambito della domanda precedente.

Non penso che Syriza dovrebbe uscirsene ora con un vasto programma di nazionalizzazioni. Ciò che è necessario è nazionalizzare le banche, naturalmente, E assicurarsi di fermare le privatizzazioni dell’energia, dell’elettricità in particolare. Ci si ferma a questo. E rimane fermo il processo di privatizzazione di altre attività chiave. Porre in essere una strategia di crescita e di ripresa immediatamente, fuori dall’euro, e poi avere un piano di sviluppo a medio termine.

E’ in tale contesto che dovremmo esaminare quali aree dell’economia devono essere poste sotto controllo pubblico e come, perché la nazionalizzazione in sé e di per sé non è la risposta; stiamo parlando di controllo pubblico, qui, ed esso può assumere forme diverse; e poi dovremo esaminare quali settori dell’economia necessitano solo di disciplinare il capitale e di consentire all’impresa privata di fare il proprio mestiere.

E’ un dibattito di medio termine, non uno immediato.

 

E presumibilmente lei avrà la stessa risposta alla sua seconda domanda che è se lei e i suoi amici avete studiato la struttura delle esportazioni e importazioni di beni e servizi e le misure di politica industriale dirette al commercio estero che sarebbero prese parallelamente al ripristino della dracma.

Siamo certamente consapevoli della struttura delle importazioni e delle esportazioni e posso dire che la struttura delle importazioni e delle esportazioni ed il rapporto del commercio con l’aumento del PIL sono indicative del fallimento – del fallimento quanto a sviluppo – del capitalismo greco negli ultimi anni.

Dobbiamo decisamente ridurre il peso dei servizi, questo è certo. Perché la Grecia ha attribuito un’enfasi eccessiva al settore dei servizi e ciò ha consentito che i settori primario e secondario si contrassero. La Grecia ha fondamentalmente deindustrializzato. Ed è andata deindustrializzando per trent’anni e consentendo che il suo settore primario divenisse inefficiente e limitato, perciò noi dobbiamo riequilibrare questo.

E questo risponde anche alla sua domanda sugli scambi, perché l’accento sul settore dei servizi significa che la Grecia è divenuta non concorrenziale internazionalmente perché i servizi sono noti per essere non particolarmente competitivi; la Gran Bretagna ne sa qualcosa! Perciò accentuando il settore dei servizi l’economia greca ha prodotto un rapporto assolutamente problematico tra beni commerciabili e beni non commerciabili.

Dunque la strategia di medio termine dovrebbe mirare a mutare tale rapporto. La Grecia ha necessità di rafforzare di nuovo i settori primario e secondario e migliorare in tal modo la sua integrazione nell’economia mondiale producendo più beni commerciabili. Come ciò sarà fatto è, di nuovo, una questione di strategia di medio termine.

 

Nel libro con Flassbeck lei parla di una svalutazione fino al cinquanta per cento, raddoppiando così il prezzo delle merci importate. In assenza della possibilità di rendere efficace un piano di medio termine nel breve termine, anche le esportazioni saranno molto complicate, considerato lo stato dell’industria greca. Dunque ci sarà un problema di capitali.

Da dove arriverebbero tali capitali, considerato che i mercati finanziari presumibilmente sarebbero disposti a prestare solo in una certa situazione e con il tipo di clausole che di fatto ci costringerebbero a tornare daccapo?

Se l’uscita fosse concordata e protetta e considerato dove e come i costi unitari sono arrivati in Grecia – in altri termini la distruzione del lavoro, che ovviamente va invertita ma non possiamo tornare a dove eravamo partiti perché è semplicemente impossibile – allora è possibile che la Grecia avrebbe bisogno di una svalutazione solo tra il 15 e il 20 per cento, grazie al riallineamento dei costi. Ripeto, di nuovo: i salari devono aumentare, ma anche se aumentano non torneranno quelli che erano. Non è semplicemente fattibile al momento. Abbiamo bisogno di una strategia di crescita per quello.

Oggi potrebbe essere sufficiente una svalutazione tra il 15 e il 20 per cento per mettere rapidamente in moto il paese. Se ci fosse una svalutazione del 50 per cento nel caso di un’uscita conflittuale e via dicendo, ci sarebbero naturalmente più problemi per le importazioni. Ciò che va compreso, tuttavia, è questo: la svalutazione non funzionerebbe semplicemente, o prevalentemente, nelle esportazioni. Funzionerebbe nel mercato interno più che nelle esportazioni.

Al momento ci sono vaste risorse inutilizzate in Grecia. Il capitale non manca a tale riguardo. Il capitale dispone di ben più che della liquidità in banca. Dobbiamo pensare da marxisti qui. Il capitale è un rapporto. Ci sono vaste risorse inutilizzate in tutto il paese! Sorgerebbero immediatamente piccole e medie imprese si ci fosse la svalutazione. C’è capitale di dimensioni ridotte sufficiente per ciò. La rinascita dell’economia, il ritorno della domanda e della produzione, sarà molto rapido e avrà luogo principalmente mediante ciò.

E’ una specie di Nuova politica Economica (NEP) di Lenin e dei bolscevichi. Ho pochi dubbi – e gli studi econometrici lo confermano – che le piccole e medie imprese consentiranno un ritorno della Grecia a una condizione produttiva ragionevole in un arco di tempo molto breve, un paio d’anni. Ciò genererebbe anche il capitale e il risparmio per la strategia di medio termine.

Così queste domande sulla provenienza del capitale devono essere esaminate dinamicamente e non considerate statisticamente. C’è capitale nel paese, ma al momento resta ozioso. Dobbiamo metterlo in moto ed è questo che farà la svalutazione.

 

Fermate la prima pagina! Lapavitsas sollecita una strategia di transizione in stile Bucharin!

Non ho alcun problema in proposito. La Grecia è così rovinata al momento che ha manifestamente necessità di una NEP. Ora, se Bucharin fu abbastanza abile da ideare la NEP e da convincere Lenin, che fu un fervente sostenitore della NEP, allora io non vedo perché io dovrei essere contrario. Dunque il primo impatto sarebbe di questo tipo, penso. E ciò genererebbe una rinascita sufficiente a consentirci di proseguire oltre.

 

Lei parla anche – nel contesto di un’uscita concordata – di un ritorno al sistema monetario europeo, che garantirebbe un certo rapporto di cambio tra le divise e l’euro ed eviterebbe così speculazioni sulla dracma. Ma questa è naturalmente una grossa scommessa, cioè che le altre potenze europee vedrebbero favorevolmente la cosa. Non è un grosso atto di fede?

Come ho detto, per analizzare le cose occorre fare delle ipotesi. Non lo definirei un atto di fede. Direi che questi potrebbero essere obiettivi negoziali per cui vale la pena di battersi. Riconosco le difficoltà e abbiamo costatato l’ostilità di queste potenze nei confronti del governo di sinistra nelle ultime settimane, dunque so che non sarà una cosa facile da ottenere. Ma alla fine la sinistra europea potrebbe anche cominciare ad avere un input al riguardo. Ed è di questo che val la pena di discutere, perché il sistema nel suo complesso non funziona in Europa.

Dunque ciò che mi aspetterei, ciò che farebbe una considerevole differenza, sarebbero alcune proposte serie finalmente dalla sinistra europea a proposito di come sostituire questo sistema ridicolo che è prevalso in Europa con un sistema di rapporti di cambio controllati. Ciò farebbe davvero una grossa differenza per la Grecia e per la Spagna, che sta emergendo verso la fine dell’anno.

Invece di discutere di cambiamenti politici e di cancellare l’austerità all’interno dell’unione monetaria e di altre cose simili, che semplicemente non sono realizzabili, la sinistra farebbe bene a proporre politiche che aiutino realmente in termini di controllo dei rapporti di cambio nell’ambito di un sistema di controllo dei flussi di capitale. E’ di questo che oggi c’è bisogno in Europa, non di una qualche sorta di favole a proposito di un’unione monetaria buona, che non può esistere.

 

Nel libro lei parla anche della ridenominazione delle imprese, delle banche, della Banca Centrale e delle famiglie. E lei parla di usare un rapporto tra euro e dracma che varierebbe a seconda dei diversi settori, livelli d’indebitamento e livelli di ricchezza, così ciò potrebbe diventare anche una misura redistributiva, non solo una misura tecnica. Può parlare un po’ di come funzionerebbe e della sua fattibilità e di quali sono le esperienze su cui lei base tale idea?

In una certa misura è stato fatto in Argentina nel 2001-2.

 

In modo caotico, tuttavia.

In modo caotico, sì. Ma è perfettamente fattibile. E’ molto semplice. I crediti nei confronti delle banche del pubblico, che si tratti di depositi di singoli o di depositi di imprese o di altri depositi e risparmi, sarebbero convertiti nella nuova moneta. La conversione potrebbe aver luogo alla pari, per facilità di ridenominazione. Ma potrebbe anche aver luogo con rapporti differenziati.

L’obiettivo del governo era di attuare una certa ridistribuzione della ricchezza. Così le persone con meno soldi in banca, con depositi più limitati, poteva vedersi cambiati i fondi a un tasso di favore, ad esempio non alla pari bensì, diciamo, di 1 contro 1,2. Chi aveva maggiori quantità di denaro poteva vedersi convertiti i depositi a 0,8 contro 1. In effetti si trasferirebbe denaro dai ricchi ai poveri.

Il problema è che ciò che sarebbe stato molto efficace nel 2010, quando i depositi erano ancora molto elevati nelle banche greche, è oggi diventato marginale, perché i ricchi hanno portato fuori i loro soldi. Le politiche degli ultimi cinque anni hanno consentito loro di farla franca.

Così lo spazio per una politica redistributiva, anche se non inesistente, non è quello che era. In una certa misura il governo di sinistra può pensare a questo e può applicarlo se desidera mobilitare un certo sostegno ma, come dico, considerata la situazione dei depositi nelle banche greche oggi, lo spazio per questo tipo di politiche ridistributive non è molto.

 

Nel libro, di nuovo, lei parla del ruolo dell’euro come moneta mondiale, una forma di moneta mondiale. Quale influenza su ciò ritiene abbia la Grexit?

Sarebbe dannosa. E’ questo il problema reale dal punto di vista di quelli che gestiscono l’unione monetaria, ed è anche una preoccupazione per gli Stati Uniti. Non c’è semplicemente una gara tra USA ed Europa, che è ciò che molte letture marxiste semplicistiche spesso sostengono. E’ un rapporto simbiotico, di conflitto ma anche di mutuo sostegno.

Il ruolo dell’euro sarebbe danneggiato se ciò accadesse; ci sarebbe una perdita di fiducia in esso, forse una qualche fuga da esso, accompagnata da instabilità finanziaria, la cui risacca influenzerebbe gli Stati Uniti – il dollaro – e i contratti finanziari in dollari. E questo è qualcosa che gli Stati Uniti non vogliono.

Dal punto di visto della sinistra, questa non è una preoccupazione. Non è compito nostro soccorrere l’euro o il dollaro come moneta mondiale. Ci sono altri impegnati a tempo pieno a occuparsene. Noi abbiamo un obiettivo diverso.

 

La questione del denaro e della moneta è cruciale. In Grecia, la paura di un’uscita dall’euro sta bloccando sviluppi più radicali. E la paura di un futuro fuori dalla sterlina è stata verosimilmente uno dei motivi del ‘no’ scozzese al referendum. Così per la sinistra all’interno di Syriza un qualsiasi piano B dovrebbe includere un piano concreto e convincente per una nuova moneta.

Che cosa pensa della proposta di W. Muenchau, del Financial Times, di introdurre una moneta parallela, uno strumento debitorio emesso dal governo che possa essere utilizzato per certi fini nell’ambito dell’euro? Egli si riferisce agli scritti di Robert Parento e John Cochran, entrambi economisti statunitensi che hanno proposto che lo stato greco dovrebbe emettere note anticipatrici delle imposte, pagherò coperti da future entrate fiscali.

Funzionerebbero come un meccanismo di cambio e godrebbero di fiducia nella misura in cui lo stato li accetta in pagamento di imposte e ne incoraggia la circolazione concedendo crediti fiscali nel caso di pagamento di imposte in pagherò emessi dallo stato. E’ d’accordo con Muenchau che questa potrebbe essere una fine possibile dell’austerità pur restando nell’euro?

Ma anch’io ho sostenuto qualcosa di simile in quel libro, cioè l’emissione di pagherò da parte dello stato che avrebbero circolazione forzosa e sarebbero utilizzabili per pagare le imposte, che è fondamentalmente quell’idea. E’ un’idea che è emersa in forme diverse in molte parti del mondo.

Non penso, tuttavia, che questa sarebbe una risposta di lungo termine all’austerità. E’ una pia illusione. Al massimo può essere una misura supplementare per creare liquidità mentre la Grecia è sotto pressione da parte di chi controlla i rubinetti della liquidità principale; in altre parole, Draghi e la BCE.

Un passo simile, la circolazione parallela, creerebbe immediatamente problemi di equivalenza tra l’euro reale e l’euro arbitrario creato dalla Grecia, perché naturalmente l’euro reale sarebbe ritenuto aver maggior valore dell’altro e ci sarebbe un rapporto di cambio tra i due. Turberebbe la circolazione monetaria e la moneta in generale. Non è una soluzione sostenibile. E’ solo una misura tampone. E alla fine della fiera è una misura tampone in direzione dell’uscita, fondamentalmente. Deve essere intesa così.

Dunque sì, sono favorevole a essa; in realtà è qualcosa che il governo dovrebbe prendere in considerazione seriamente come parte dell’arsenale per i negoziati di giugno, ma senza illusioni che possa essere una soluzione permanente, stabile. Perché non può esserlo.

 

Una domanda più tattica: pare che la troika avrà il diritto di veto su ogni particolare politica che Syriza ponga in atto nel prossimo periodo. Lei pensa che questo possa essere utilizzato per rafforzare Syriza? Cioè, che se Syriza propone qualcosa di popolare e di apparentemente attuabile, poi annullato dalle istituzioni, sarebbe più chiara al popolo greco una linea di antagonismo man mano che ciò si verificasse?

E la dimostrazione di tale volontà di Syriza, il suo aumento di popolarità e anche l’impossibilità di continuare ad agire nell’ambito dell’eurozona possono essere, in un certo modo paradossale, una strategia per costruire sostegno popolare alla Grexit?

Penso sia parecchio qualcosa di simile, sì. Quelle cosiddette istituzioni che saranno onnipresenti, eserciteranno un’influenza di controllo. Combatteranno Syriza riguardo all’attuazione di misure e all’approvazione di leggi che potrebbe avere implicazioni fiscali e andare contro lo spirito di ciò che è stato concordato il venti di febbraio.

Ma la lotta contro quelle istituzioni è la più importante lotta politica tra oggi e giugno. Syriza dovrebbe dedicarvisi apertamente. E’ quello il modo per conservare il sostegno popolare, perché è questo che la gente vuole vedere. Vuole vedere misure di sollievo e vuole vedere opposizione a questi tizi della troika. Comunque, in sé e di per sé, questo non è sufficiente. E’ necessario anche un piano per il prossimo giro di negoziati, perché la trappola è pronta e in attesa.

 

Una domanda, allora, sull’uscita forzata e le sue conseguenze: il piano B che lei descrive in un certo dettaglio con Flassbeck sembra molto statalista. Sarebbe sufficiente per sopportare lo shock della svalutazione e dell’autarchia?

In caso negativo, che cosa stanno facendo i movimenti greci e Syriza per sviluppare quello che chiamiamo un piano C, un piano di resistenza, di beni comuni, di solidarietà, che organizzi la riproduzione sociale dove lo stato non è in grado di soddisfare i bisogni della gente? Quale ruolo avrebbero tali strategie nel prevenire le tentazioni dell’autoritarismo?

Fa parte del piano B. E’ larga parte del piano B. Il piano B – il modo in cui ne parliamo, il modo in cui ne ho parlato io e ne ha parlato Flassbeck, eccetera – è ovviamente un piano che si attua, e andrebbe attuato, a livello di alta politica nel primo caso, perché è lì che c’è la crisi. E abbiamo bisogno di interventi al livello di alta politica e a livello statale.

Naturalmente ogni tipo di strategia che sia nell’interesse dei lavoratori – ogni tipo di strategia di transizione – deve incorporare precisamente quello che lei ha chiamato piano C. E quando parliamo di pubblico e di stato e così via, quello che io ho in mente è il settore pubblico e collettivo in generale. L’idea che lo stato si prenda tutto è un’idea superata, morta con il crollo del Blocco Orientale. Non è più realmente sul tavolo.

Ciò di cui parliamo sono soluzioni pubbliche e collettive. Sì, abbiamo davvero bisogno dei beni comuni. Sì, abbiamo davvero bisogno di attività dal basso. Sì, abbiamo davvero bisogno di contributi e iniziative delle comunità. Ma prima dobbiamo sistemare le questioni macro, sistemare le questioni dello stato. Sfortunatamente le comunità non sono in grado di farlo a quel livello.

 

Molto di ciò che lei sta dicendo a proposito di un’uscita positiva, progressista dipende presumibilmente dal ruolo delle mobilitazioni popolari nello spingere in avanti il governo e nel dargli il sostegno necessario quando si arriva al momento critico. Lei è ottimista a proposito della resistenza della mobilitazione sociale in Grecia al momento? Perché c’è stato un gran parlare della ritirata e della disperazione e della rassegnazione che hanno colpito la società greca nell’ultimo paio d’anni.

Mi rincuora la fortissima onda di sostegno al governo dei cittadini comuni dopo le elezioni. E’ vero: non abbiamo visto moltissima mobilitazione. Ma il sostegno è enorme. Lo spirito di essere a favore di ciò che sta succedendo e di alleanza e agevolazione di questo governo perché agisca è enorme. E questa è la cosa più positiva.

Ora, ciò si tradurrà in attività? Non lo so. Non lo sa nessuno. Ma non si può negare la buona volontà. Non la si può negare per nulla. E noi dovremmo lavorare su essa. Dovremmo mobilitare per soluzioni radicali e risposte radicali.

 

E quale pensa sia il ruolo di chi, fuori dalla Grecia, è favorevole a una simile uscita progressista? Perché ci sono stati parecchi discorsi quasi ricattatori sul fatto che non si dovrebbe criticare ciò che sta facendo Syriza, che è sin troppo facile criticare stando comodi in poltrona in paesi che non sono sull’orlo del precipizio, e via discorrendo.

Ma al tempo stesso è chiaro che ci sono grandi svolte di cui occorre tener conto. Quale pensa sia il genere corretto di posizione tra il sostegno acritico e la solidarietà concreta?

Oggi il sostegno acritico a Syriza è un’assurdità. E’ una replica dei peggiori mali della sinistra che io e molti altri pensavamo ci fossimo lasciati alle spalle. “Non criticate, sostenete, blah blah blah!” Sono cose che la sinistra soleva fare nei vecchi tempi. E che, in contesti naturalmente molto diversi, ha consentito l’emergere di mostri.

Non è questo che succederà nel caso di Syriza, naturalmente, ma la mentalità e il comportamento da “E’ in campo la nostra squadra! Sosteniamo la nostra squadra e non critichiamola” non è davvero la mentalità e il comportamento della sinistra. Naturalmente noi sosteniamo. Ma critichiamo. Se non critichiamo non avverrà nulla di positivo. E’ questo il punto in cui ci troviamo.

La sinistra all’estero e la sinistra all’esterno hanno il compito e il dovere di criticare e spesso, perché le cose in Grecia appaiono più chiare viste da fuori che dall’interno. L’ottica applicabile all’interno non può essere applicata all’estero, dunque c’è un dovere all’estero. La sinistra all’estero ha il dovere di dire pane al pane. E di farlo positivamente e creativamente.

Su tale fronte l’aiuto più serio e concreto che la sinistra può fornire, diverso dalla mobilitazione e via dicendo, consiste nel porre sul tavolo proposte, nel cominciare a riconsiderare l’Unione Monetaria Europea nel suo complesso. Non lo ripeterò mai abbastanza.

La sinistra in Europa negli ultimi anni ha preso un’incredibile sbandata. E’ come se avesse perso il proprio senso critico. Ha immaginato che il processo dell’integrazione europea attraverso la UE e il processo di creazione dell’Unione Monetaria Europea (EMU) fossero in qualche modo internazionalismo nel modo in cui noi a sinistra intendiamo l’internazionalismo.

Non è così. Spiacente, ma non è così! Non solo non è così ma non è possibile che siano trasformati in vero internazionalismo cambiandone una piccola parte, riformandoli, migliorandoli. E’ semplicemente assurdo! La sinistra deve riscoprire i suoi mezzi critici e il suo atteggiamento critico e rendersi conto che non tutto ciò che trascende i confini è progressista. In questo caso la UE e l’EMU hanno mostrato molto chiaramente che cosa sono.

La sinistra deve cominciare alla fine a mettere sul tavolo idee di genuino internazionalismo in Europa che rifiutino queste forme di integrazione capitalista. Non le migliorino. Le rifiutino. Questo è l’atteggiamento radicale della sinistra e questo è ciò che dovrebbe fare.

C’è ancora una cosa. La dirò, ma non so quanto impatto avrà. La sinistra marxista, in particolare, nell’ultimo paio di decenni è disgraziatamente regredita in termini di capacità di analizzare l’economia politica del capitalismo moderno. Si è imbevuta, assorbendolo, di un genere di economia di seconda qualità che fondamentalmente pensa e crede che il marxismo e l’analisi marxista del capitalismo possano in larga misura essere condensati nella tendenza al declino del tasso del profitto.

Per molti in Europa e altrove l’economia politica marxista corrisponde in larga misura a interpretare tutto in termini di rapporto degli utili – o di ciò che si misura come utile – con il capitale investito. Tale rapporto, per alcune di queste persone, dice tutto quel che occorre sapere riguardo al passato, presente e futuro del capitalismo.

Quello non è Karl Marx, ovviamente, e non è ciò che i grandi marxisti hanno fatto. Ci sono persone che oggi cercano di interpretare ciò che sta avvenendo in Europa in base alla tendenza in declino del tasso del profitto. E’ un’assurdità. Un’assurdità manifesta. Non serve alcun interesse e alcuno scopo. Non aiuta nessuno.

La Grecia non è in crisi a causa della tendenza al ribasso del tasso del profitto. La tendenza del tasso del profitto a declinare è importante, ma ciò che sta accadendo in Grecia non è una crisi periodica causata dal calo del tasso del profitto.

Dunque la sinistra – quel che ne rimane – dovrebbe cominciare a riscoprire alcuni degli elementi del marxismo creativo del periodo classico; un po’ di Lenin, un po’ di Hilferding, un po’ di Bucharin, alcuni dei grandi marxisti tedeschi. E cominciare a interpretare il capitalismo moderno in modo complesso, ricco ed equilibrato.

La tendenza al ribasso del tasso del profitto è importante, ma è economia terribile e un feticcio. Non si può ridurre tutto alla tendenza al declino del tasso del profitto. E’ semplicemente cattivo marxismo e cattiva economia. E’ qualcosa che la sinistra potrebbe cominciare a fare utilmente per uscire dalla crisi dell’eurozona nel prossimo periodo.

 

Un’ultima domanda per lei che in un certo modo chiude il cerchio tornando ai temi personali dai quali siamo partiti. La sua reputazione è fondata sull’analisi marxista della moneta e del credito. Ed eccola in una situazione in cui deve concretamente discutere la creazione di una nuova moneta, di un nuovo sistema monetario, di un nuovo sistema creditizio.

Ho due domande, in realtà. Una è una domanda un po’ pedantesca: non è, in un certo senso, la svolta verso l’economia politica una vittoria teoretica del neo-cartalismo, che lei ha combattuto nella teoria, ma, nella pratica, non quella che viene confermata?

E la seconda domanda – più riguardante il collegamento tra teoria e pratica – è quale genere di preparazione e utilizzo pratico le sta dando nella situazione attuale della Grecia il suo lavoro sulla finanziarizzazione, la moneta e la concessione di credito?

Alla prima domanda è per certi versi più facile rispondere. Il neo-cartalismo ha avuto pochissimo a che fare con ciò che sta succedendo. Non siamo parlando di moneta statale creata diversa dai pagherà per far fronte alle necessità di liquidità, come abbiamo discusso in precedenza. La cosiddetta teoria monetaria moderna, questo genere di neo-cartalismo, è teoria monetaria debole; ha poco da offrire alla comprensione dell’eurozona e del capitalismo moderno in generale.

La seconda domanda, penso, è più difficile e più impegnativa per molti versi. Io interpreto ciò che sta succedendo in Europa come un caso di finanziarizzazione che ha assunto una forma particolare in Europa a causa della moneta comune. Ha assunto una forma particolarmente patologica e morbosa a causa della moneta comune. La finanziarizzazione dei paesi europei è stata distorta dalla moneta comune. Ora, il mio lavoro nel corso di molti anni mi è stato in realtà molto utile e penso che i risultati siano piuttosto evidente nel corso degli ultimi anni.

Se affrontiamo la crisi dell’eurozona come una questione puramente monetaria, dalla prospettiva della teoria monetaria, ci vorrebbero cinque minuti per risolverla. E’ del tutto evidente, assolutamente semplice. E’ in realtà quasi banale. Come problema di teoria monetaria è banale. E in realtà non mi ci è voluto più di un fine settimana nel 2010, quando ho cominciato per la prima volta a occuparmi dei numeri, perché diventasse evidente.

E’ una questione di unione monetaria mal strutturata e che si è evoluta molto male nel corso della sua esistenza ed è perciò insostenibile. E ciò, a chiunque sia addestrato in teoria monetaria e comprenda il denaro e la finanza, sarebbe più chiaro e più facile da capire che non ad altri che hanno operato in altre aree dell’economia e dell’economia politica.

Il mio lavoro mi è stato vantaggioso da quel punto di vista. E quando la crisi è scoppiata nel 2010, mi è stato chiaro che, dato il sistema monetario, (a) l’austerità era la conseguenza più probabile e che sarebbe stata disastrosa, cose che abbiamo sostenuto, abbiamo sostenuto io e quelli della Ricerca sulla Moneta e la Finanza, e (b) l’uscita sarebbe rimasta permanentemente sul tavolo a causa della struttura dell’unione monetaria. E’ tuttora ciò che sta avvenendo. A cinque anni di distanza è ancora dell’uscita che parliamo. E (c) l’idea di un euro buono è risibile, e in effetti è risultata essere tale. Così, in quel senso, il mio lavoro in molti anni del passato mi si è rivelato molto utile.

C’è un’altra parte del lavoro che ho svolto per anni che è importante. Ha a che fare con la moneta come più generale categoria sociale. La dimensione sociale non economica del denaro e della finanza che, come lei sa da solo, è sempre stata qualcosa che mi interessa profondamente.

La crisi ha dimostrato oltre ogni discussione che la moneta è molto più che un fenomeno economico. Fondamentalmente, è ovvio, è un fenomeno economico. Ma è più di questo. Ha molte dimensioni sociali e una delle dimensioni che ha, e che è critica, è quella dell’identità.

La moneta, per motivi che non possiamo trattare qui ma che sviluppo nel mio lavoro, è associata a credenze, costumi, atteggiamenti, ideologia e identità. La moneta diviene identità più che non il capitalismo. E l’euro è diventato identità per i paesi della periferia in un modo incredibile, e in nessun luogo più che in Grecia.

La questione dell’uscita e della paura che essa genera – o l’interesse che essa genera – tra i greci non riguarda semplicemente affrontare le implicazioni economiche, per quanto gravi possano essere. Ha a che fare con l’identità.

Si deve capire che per i greci aderire all’unione monetaria e usare la stessa moneta del resto dell’Europa occidentale è stato anche un salto d’identità. Nella coscienza popolare, e considerata la storia della Grecia, ha consentito ai greci di essere divenuti “veri europei”. In un piccolo paese dell’estremità meridionale dei Balcani che aveva avuto una storia molto turbolenta, durante il periodo Ottomano e ciò che è successo dopo, questa è stata una cosa molto, molto importante.

L’importanza di ciò è stata manifesta negli ultimi anni. Quanto più la crisi si aggrava, quanto più assurda diventa la partecipazione all’unione monetaria, tanto maggiore diviene l’attaccamento all’euro in alcuni segmenti della popolazione. E il motivo è l’identità. La gente vuole mantenere il contatto con l’idea dell’Europa, l’idea di non essere parte del Medio Oriente, o del Vicino Oriente.

 

Essere bianchi?

Sì. E’ molto, molto importante. E non va sottovalutato. E per noi, per la sinistra in Grecia, ma anche per la sinistra in Europa, una narrativa alternativa è vitale. Perché lo stesso problema d’identità è emerso anche nell’Europa occidentale. In modo diverso.

Ecco, non è una questione di diventare europei. Lì è una questione di internazionalismo. “Poiché usiamo questa moneta, abbiamo superato tutte le divisioni. Siamo diventati veri europei. Abbiamo trasceso le nostre mentalità nazionalistiche, e così via”. E’ un’assurdità, naturalmente. Ma è un’assurdità molto potente.

Dunque la sinistra, in Grecia e altrove, deve urgentemente cominciare a sviluppare narrazioni alternative dell’internazionalismo, dell’essere europei, della solidarietà, e così via, che rompano con quei concetti malati e con quei fenomeni morbosi che il capitalismo finanziario ha creato, tra i quali quello di maggior spicco è ovviamente la moneta comune.

 

Tratto da: www.znetitaly.org