Si accumulano i segnali di quella che avevamo qualificato come offensiva post-bilaterali e che, simbolicamente, si è concretizzata nella decisione della Banca Nazionale Svizzera (BNS) di rinunciare alla soglia minima di cambio franco/euro.
Questa decisione ha messo in luce dinamiche già in atto da qualche tempo, legate all’approfondirsi della crisi e della concorrenza del capitalismo internazionale – di cui quello svizzero è parte integrante e importante. Ne possiamo constatare almeno tre.
La prima quella di un’offensiva padronale ormai a tutto campo. Modifiche della legge sul lavoro (quella relativa all’ordinanza sulla registrazione dell’orario di lavoro); utilizzazione degli ampi spazi che i contratti collettivi di lavoro (CCL) concedono per allungare e flessibilizzare (gratuitamente) il tempo di lavoro; riduzione dei salari, introduzione del lavoro ridotto (che significa ribaltare sui salariati il cosiddetto rischio imprenditoriale).
Fenomeni questi che non toccano solo l’industria (che è tuttavia coinvolta in modo pesante se è vero che almeno un terzo delle imprese sta introducendo misure di questo tipo), ma anche altri settori: pensiamo al settore alberghiero che ha già annunciato modifiche importanti (al ribasso) per il rinnovo del contratto di lavoro del settore.
La seconda è il rivelarsi in modo chiaro di quale sia il ruolo degli accordi bilaterali e della liberalizzazione del mercato del lavoro nell’ambito del processo di difesa e sviluppo della competitività del capitalismo elvetico. Un progetto partito da lontano, sostenuto da una politica che dichiarava di voler porre rimedio ai rischi che essa comportava per i salariati attraverso adeguate misure di accompagnamento. Questa strategia si è rivelato poco più che un esercizio retorico. Infatti non solo le misure di accompagnamento non sono state in grado di proteggere i lavoratori dal dumping salariale, ma in molti casi hanno oggettivamente sostenuto lo sviluppo del dumping salariale. La fissazione di salari minimi legali a 3’000 franchi mensili in Ticino è uno dei fenomeni che conferma tale logica.
Ora quella retorica non è più nemmeno necessaria. La sconfitta dei salariati è stata totale e la borghesia e i suoi rappresentanti politici non hanno bisogno nemmeno più di fingere di continuare a preoccuparsi di “affinare” e “migliorare” le cosiddette misure di accompagnamento. E poche ore dopo la richiesta del padronato di bloccare qualsiasi ulteriore “miglioramento” di queste misure, ecco il dipartimento del padrone Schneider Amman rispondere positivamente e dire che tutto è congelato (d’altronde si trattava, come sempre, di misure più che evanescenti dal punto di vista della loro reale efficacia a combattere il dumping salariale).
La terza considerazione è strettamente legata a quelle precedenti e vi abbiamo già accennato. Con questa offensiva si manifesta una sconfitta chiara e forte, storica per certi aspetti, di quel che resta del movimento operaio. La sconfitta di una strategia fondata su una collaborazione con il padronato ed i partiti borghesi a sostegno di una “apertura controllata”, quella dei bilaterali e della liberalizzazione del mercato del lavoro sotto l’egida delle cosiddette misure di accompagnamento.
Questa strategia, rivendicata da social-liberali e dalle direzioni sindacali (ai tempi condotta da personaggi come Vasco Pedrina), si è rivelata non solo fallimentare; ma ha abbandonato i lavoratori al proprio destino, reso ancora più drammatico dall’offensiva padronale oggi in atto.
La speranza è che un lavoro lungo e difficile, ma non impossibile come ci dimostrano i fenomeni di resistenza ai quali abbiamo assistito in queste ultimi settimane, possa portare alla ricostruzione di un nuovo movimento operaio, un soggetto che, come indica il suo nome, sappia agire in difesa dei salariati.