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libribisSta per giungere al termine la breve fase cosiddetta di “Informazione e dibattito” dedicata alla presentazione e alle prime discussioni pubbliche sul documento “La scuola che verrà”. Il testo, redatto dal DECS, traccia le linee generali della prossima grande riforma della scuola che attende il Canton Ticino. In questo documento, attorno al quale in realtà di dibattito ce n’è stato davvero poco e non per mancanza di volontà da parte dei docenti, è descritta la nuova concezione dell’istruzione che, dopo un periodo di sperimentazione e valutazione, previsto nel periodo 2016-2020, dovrebbe essere generalizzata dall’anno scolastico 2020-2021.

Come si nota a colpo d’occhio, i tempi decisi dal DECS sono stringati. In pratica, si è dato meno di due anni per proporre, discutere e mettere a punto dettagliatamente un vero e proprio cambio di paradigma nell’insegnamento, stando almeno alle dichiarazioni d’intenti. A questi seguirà un solo ciclo scolastico di quattro anni per testare la bontà del progetto, fare un bilancio, proporre correttivi e, infine, metterlo in pratica. Il progetto, pubblicato solo nel dicembre del 2014 e messo a disposizione sul sito internet www.lascuolacheverra.ch, presta però il fianco a numerose critiche, che possono essere raggruppate in tre categorie: l’orientamento generale della proposta, la nuova organizzazione scolastica immaginata, i metodi per promuoverla e introdurla.

 

Una scuola tutta rivolta all’economia: l’approccio per competenze

L’orientamento seguito dal DECS per redigere il progetto di riforma scolastica è chiaro: si tratta di quello dominante neoliberale. Grandi protagonisti del testo sono le parole “competenze” e “competenze trasversali”. Come denunciato da molti (pensiamo, tra quelle più documentate, alle contestazioni avanzate dal Movimento della scuola) questo è un vero e proprio appiattimento al modello di scuola proposto/imposto dall’OCSE e che concepisce l’istruzione come semplice formazione di manodopera qualificata di ricambio per l’economia. Non è un caso che non spenda nemmeno una parola sull’eccessivo carico di lavoro che grava sugli alunni dovuto all’eccessivo nozionismo della scuola, né sul necessario alleggerimento dei programmi, diminuendo, ad esempio le lingue da imparare nel primo ciclo.
Le competenze, il saper fare, diventano il leitmotiv del nuovo modello scolastico, a scapito del sapere, del sapere critico. Si passa dall’istruzione intesa come formazione di cittadini e persone in grado di partecipare a una società democratica (con tutti i limiti che possiamo attribuire a quella che oggi è chiamata la democrazia) a una formazione che privilegia il mercato e le sue esigenze. Il mercato non ha bisogno di sapere critico, esige solo ubbidienza alle sue regole ferree, che ci sono presentate come date una volta per sempre e che non possono essere messe in discussione. La scuola diventa in questo modo uno strumento delle aziende, un fornitore della merce più preziosa, anche se mai pagata per il suo costo effettivo: la forza lavoro.

 

Gestire l’eterogeneità: diminuire le disparità o accentuarle?

Tra i capisaldi della riforma troviamo la gestione dell’eterogeneità, che di per sé è buona cosa, soprattutto in una realtà sociale e culturale variegata e in continua evoluzione come quella ticinese. Come risponde però il DECS a tale necessità? Attraverso la personalizzazione e la differenziazione pedagogica. La prima riguarda il percorso scolastico inteso come la scelta delle materie (le opzioni) e dei momenti formativi specifici (i laboratori), la seconda si riferisce al rapporto tra docente e studenti e dovrebbe fare parte della sensibilità di ogni insegnate che abbia a cuore il raggiungimento degli obiettivi formativi che si pone.
Tali pratiche, che sulla carta servono a valorizzare le naturali inclinazioni dei singoli studenti e a permettere a tutti di raggiungere una serie di obiettivi minimi, rischiano, così come proposti, di istituzionalizzare e acuire le disparità tra gli alunni sin dalle scuole elementari. La differenziazione pedagogica rischia di creare classi a più velocità, in cui i programmi sono erogati ai bambini e ai giovani in base a valutazioni sulle loro conoscenze, competenze e attitudini. In pratica livelli A, B e, perché no, C, fin dall’entrata nella scuola. Un’esasperazione della personalizzazione rischia inoltre di costruire fin da subito binari entro i quali le persone saranno indirizzate e percorsi che si differenziano ancora più di oggi proprio a causa dell’eterogeneità sociale cui s’intende fare fronte. Il rischio, dunque, è di assegnare a persone che partono da condizioni diverse possibilità diverse e non eguali possibilità indipendentemente dalla diversità di partenza. Pur negando tale rischio e mettendo l’accento sul raggiungimento di obiettivi comuni, infatti, il testo definisce “immaginabile, nell’ambito appunto delle differenze tra alunni, in funzione di bisogni particolari, che determinati obiettivi possano invece essere diversificati”.
Al termine del ciclo obbligatorio, promette il testo del DECS, l’alunno dovrebbe avere più possibilità di scelta nell’accesso alle scuole del secondario II (licei, apprendistati, scuole professionali). Attenzione, però, perché qui entrano in gioco altri importanti aspetti: il potenziamento del servizio di orientamento scolastico e il peso del nuovo sistema di valutazione per competenze, il quale diventa anche descrittivo e traccia un profilo per competenze dell’allievo. Difficile immaginare scelte davvero libere da condizionamenti e basate su desideri e ambizioni dei giovani, piuttosto che sulle competenze accertate e certificate…

 

La rivoluzione dall’alto

Se lo si legge andando oltre la retorica sul dinamismo, sull’ascolto e sulla messa in comune delle esperienze, si capisce che il progetto di riforma costituisce un duro attacco ai docenti. Ambisce a standardizzarne il ruolo, facendolo diventare un lungo elenco di pratiche da sbrigare, una checklist da compilare; lo sovraccarica di momenti e passaggi obbligati che compromettono irrimediabilmente la libertà d’insegnamento.
Gruppi di lavoro, progetti interdisciplinari e momenti di discussione tra colleghi per trovare soluzioni e strategie diventano, nella “scuola che (speriamo non) verrà”, momenti obbligatori, cessando di essere frutto della creatività del docente e diventando parte dei compiti amministrativi da svolgere burocraticamente.
L’insegnante è chiamato ad allestire, tramite la valutazione diagnostica, profili degli allievi e della classe e li deve aggiornare costantemente durante l’anno scolastico con valutazioni e colloqui con gli allievi. Tutto quello che di spontaneo c’è nel rapporto didattico e nel colloquio, è svuotato dell’umanità che lo contraddistingue e diventa meccanismo di un ingranaggio il cui funzionamento e la cui logica sono decisi tecnocraticamente a monte.
Il docente si deve inoltre occupare della valutazione di tipo formativo, tramite la quale verificare l’efficacia del suo operato. Deve procedere poi a una valutazione di tipo sommativo (le note), accompagnata da una valutazione discorsiva. Esse dovrebbero essere espressione di un “sistema…maggiormente in linea…con le aspettative sociali, del mondo scolastico e del mondo economico” e dare dunque conto delle “competenze specifiche nelle varie discipline”. Ecco che tornano con forza le competenze, curiosamente mai accompagnate da conoscenze o sapere.

 

Un’ennesima riforma senza fondi?

Il progetto “La scuola che verrà” è molto ambizioso. Tocca diversi livelli della scuola dell’obbligo, ambisce a modificarla sia dal punto di vista concettuale, dei programmi e degli obiettivi, sia dal punto di vista delle strutture stesse, che dovrebbero essere adattate alle nuove attività. Oltre a ciò, aumenta i carichi di lavoro di chi la scuola la fa: dagli alunni agli insegnanti. Tutto questo richiede soldi. Molti soldi. L’ammodernamento delle strutture, anche se parziale, richiederà importanti investimenti e l’aumento dei carichi lavorativi dei docenti richiederà misure di adattamento: dalla diminuzione del numero di allievi per classe e l’aumento dei docenti, al riconoscimento salariale delle nuove mansioni.
Cosa farà Bertoli? Ci riproporrà il solito trito discorso sulle sue belle intenzioni che non possono essere realizzate per mancanza di fondi? Manterrà le linee generali di una riforma che richiede nuove strutture e un potenziamento del corpo docenti rinunciando proprio a questi due elementi? Forse Bertoli si è fatto assegnare il DECS senza avere idea del budget del dipartimento? Dopo quattro anni non ha ancora capito come funziona la politica finanziaria del Cantone? Non si è accorto di aver appoggiato l’inserimento nella Costituzione cantonale del famigerato freno all’indebitamento?
Qualche suggerimento, potremmo darglielo: in primo luogo, una riforma che, invece di escluderlo deliberatamente, avesse coinvolto nella sua concezione il corpo insegnanti in un dibattito collettivo e partecipativo, avrebbe probabilmente sortito un progetto dai tratti meno burocratici e per molti versi inquietanti. In secondo luogo, il coinvolgimento degli insegnanti, gli avrebbe anche permesso di guadagnarsi i necessari alleati che gli avrebbero permesso di esercitare la pressione sociale e politica necessaria per ottenere i fondi di cui necessita davvero la scuola. In terzo luogo, un rifiuto della logica dell’austerità che si fosse concretizzato nei fatti, magari denunciando e rifiutando di appoggiare la scellerata decisione di istituzionalizzare a livello costituzionale il meccanismo del freno alla spesa, gli avrebbe dato maggiore credibilità.