Nuovi problemi in America Latina?

200211 conlutas
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200211 conlutasNell’ultimo anno si sono moltiplicati i segnali di un’inversione di tendenza in America Latina. Non nel senso di clamorose sconfitte elettorali, ma in quello di un progressivo spostamento verso destra degli equilibri interni in diversi paesi. Di esempi ce ne sono diversi, anche se sostanzialmente ignorati in Italia, sia dalla sinistra che si abbevera ai miti senza tentare di confrontarli con la realtà, sia e a maggior ragione dalla destra che in genere non si scandalizza troppo di quel che accade in paesi lontani.

Ad esempio in un Brasile in cui aumenta il malcontento nei confronti del governo inciampato in numerosi scandali, di cui sul sito abbiamo parlato recentemente: vedi Brasile Lo scandalo di Petrobras, e Brasile: La doppia desertificazione, politica e reale, ma anche prima, al momento delle difficili elezioni.

Una spiegazione la forniva anche l’articolo di Éric Toussaint, Syriza e Podemos: La strada verso il potere del popolo? che aveva posto a confronto proprio le concezioni diffuse nelle maggioranze delle due organizzazioni europee con la concreta esperienza delle cosiddette “rivoluzioni cittadine” o dei “socialismi del XXI secolo”.

La reticenza della sinistra è legata spesso a un atteggiamento “campista” e “complottista”, che attribuisce tutto quel che accade, e soprattutto il coinvolgimento di strati popolari nelle contestazioni organizzate dalla destra, alle manovre della CIA. Che ovviamente ci sono, ma ci sono sempre state; la spiegazione del perché hanno ora maggior successo che in passato va cercata nei propri errori, oltre che in fattori oggettivi come il peggioramento della situazione economica dovuto al crollo del prezzo del petrolio e di molte materie prime che costituivano la principale fonte di entrate per tutti questi paesi latinoamericani, vincolati dalla storia e dalle scelte dei loro governi a un’economia estrattivista. Più di tutti gli altri paesi questo fenomeno riguarda il Venezuela, le cui entrate dipendono per il 96% dal petrolio, e si sono quindi dimezzate, con ripercussioni immediate sul tenore di vita della popolazione, dato che tutti i generi di prima necessità sono importati, in parte notevole da paesi ostili come la Colombia e gli stessi Stati Uniti. Comunque tra il 2012 e il 2014 le importazioni si sono ridotte forzatamente del 25%, come conseguenza della riduzione drastica della rendita petrolifera.

Il Venezuela è probabilmente il punto più acuto e più visibile della crisi dei governi “progressisti”. La cause sono molteplici: certamente pesano gli incoraggiamenti dati dall’amministrazione statunitense e dallo stesso Obama alla destra trogloditica e faziosa che usa come arma anche l’imboscamento speculativo di molti generi, per attribuire al governo la causa della penuria e del conseguente mercato nero. La versione della destra venezuelana è che se mancano latte, pane, farina, è per colpa del “socialismo”. In realtà la spiegazione è nella sostanza diametralmente opposta a quella propagandata da tutti i media dell’imperialismo (che monopolizzano l’informazione televisiva in tutto il continente, Venezuela inclusa).

Il socialismo del XXI secolo è rimasto sulla carta. Il 70% del PIL si trova in mano al settore privato. Sono private la maggior parte delle banche e quasi tutto il commercio con l’estero del Venezuela è in mano di impresari privati esattamente come nel resto dei paesi dell’America Latina. C’è almeno teoricamente qualche controllo in più dei prezzi per quanto riguarda alcuni prodotti del paniere di base, ma viene appunto aggirato facendo sparire la merce prima che arrivi nelle catene di supermercati che sono stati nazionalizzati, con cospicuo indennizzo dei vecchi proprietari, ma i cui amministratori sono spesso complici degli imboscamenti di alcuni prodotti. Una parte dei prodotti importati finisce nei canali del contrabbando, insieme alla benzina, che pure deve essere sussidiata per mantenere il suo prezzo ai livelli bassissimi a cui si trova da anni.

Tuttavia il contrabbando più massiccio e pericoloso non è quello della benzina o di altri prodotti sussidiati, ma sono direttamente i dollari. Secondo cifre del Banco Central Venezolano solo negli ultimi due anni sono fuggiti all’estero 150 miliardi di dollari, che corrispondono a circa due anni di esportazioni. Il tutto facilitato dall’esistenza di tre diversi mercati di cambio legali con differenze fortissime dei tassi di cambio previsti per le varie transazioni, differenze che sono all’origine delle speculazioni. L’interpretazione governativa del fenomeno vede invece solo l’intenzione di sabotare l’economia per scardinare il sistema politico (la “guerra economica” dell’opposizione politica) mentre probabilmente questo è solo uno degli aspetti: quando c’è la possibilità di lucrare profitti altissimi spostandosi da un mercato all’altro pochi capitalisti rinunciano a farlo. L’effetto complessivo è comunque che il PIL nel 2014 è caduto del 3% mentre l’inflazione ha raggiunto il 50% annuo. La risposta del governo colpisce con la repressione solo gli oppositori dichiarati (ad esempio il sindaco di Caracas Antonio Ledezma è stato arrestato come golpista), ma a scardinare il sistema sono in tanti, compresi tanti imprenditori e amministratori corrotti appartenenti alla cosiddetta boliburguesia.

Le misure repressive, mirate politicamente, piuttosto che dirette a stroncare il contrabbando di valuta riportando sotto un controllo efficace tutto il commercio con l’estero, hanno facilitato l’offensiva politica degli Stati Uniti, che probabilmente mira a capovolgere la situazione politica nelle elezioni legislative previste entro il 2015, di cui non è ancora stata fissata la data esatta.

Il clima creato con le continue denunce di golpe, alimentate da una propaganda diffusa da molti settori della sinistra “campista” che attribuisce alla CIA e all’imperialismo statunitense ogni avvenimento (dall’attentato alle due torri alla caduta del “progressista” Gheddafi, comprese tutte le “primavere arabe” e il tentativo di abbattere Assad, e anche la protesta di Piazza Maidan a Kiev, vista come “colpo di Stato fascista” contro il progressista Putin), può anche avere come sottoprodotti non voluti qualche eccesso nella repressione, come l’uccisione recente di un giovanissimo studente da parte di una delle tante polizie. Su questo i media conservatori imbastiscono facili campagne scandalistiche mentre il governo si affretta a punire il poliziotto da grilletto facile; ma il fenomeno può riprodursi facilmente in un clima in cui ogni giorno si denuncia il pericolo di golpe. Se ci fosse davvero un golpe fascista in atto, sarebbe logico rinunciare a difendersi anche con le armi? Ovviamente no, ma non è particolarmente educativo chiamare golpe ogni tipo di protesta anche esagitata, o uno sciopero della polizia, come accadde in Ecuador nel 2010, che seguimmo con diversi articoli tra cui quello di Pablo Dávalos (Dávalos da Quito (It))

L’interpretazione di molte vicende diverse come segnali di un imminente intervento degli Stati Uniti per giunta mal si concilia con la tacita approvazione dello “storico accordo” tra Cuba e gli Stati Uniti, che personalmente io vedo con preoccupazione, considerando i molti pericoli e l’assoluta sproporzione nei rapporti di forza economici, ma su cui la “sinistra di governo” latinoamericana evita di pronunciarsi.

Su questo si veda il mio recente articolo Cuba: Riflettendo sullo “storico accordo” , e gli altri di poco precedenti, che sottolineano anche l’interconnessione tra le sorti di Cuba e quelle dei paesi in cui i governi amici sono in difficoltà per molte ragioni: dal Venezuela indebolito economicamente da fattori oggettivi oltre che da suoi errori e comunque costretto a ridimensionare il suo sostegno, al Brasile lacerato da contestazioni e indebolito dai primi seg
nali di ridimensionamento degli acquisti cinesi nel continente, a un’Argentina in cui la successione alla dinastia dei Kirchner è più che mai incerta. Mentre in Uruguay il presidente Mujica ha lasciato il posto al suo predecessore Tabaré Vázquez (dello stesso Frente Amplio) che consoliderà sicuramente la rinuncia alla punizione dei militari golpisti, e ha annunciato che svuoterà anche la legge sulla marijuana libera per “ulteriori accertamenti”. Tre mesi fa era un’ipotesi prevista (vedi Chi ha vinto le elezioni in Uruguay?), ora una certezza.

La partita tuttavia non è chiusa: ma per difendere meglio quegli esperimenti che avevano suscitato tante speranze in Europa (nel suo libro intervista anche Alexis Tsipras aveva detto di ispirarsi all’esempio di Lula…) è meglio presentarli così come sono, con tutte le loro contraddizioni, in primo luogo quelle dovute alla scelta di non toccare l’apparato statale ereditato dai regimi precedenti, compreso quello giudiziario, militare e poliziesco. E non dimenticando mai quanto scriveva Toussaint nell’articolo che ho ricordato più sopra: “L’esperienza dimostra che i movimenti di sinistra possono arrivare al governo ma di certo non a conquistare il potere. La democrazia, vale a dire l’esercizio del potere per il popolo e da parte del popolo, richiede ben di più”.

O per citare ancora una volta le parole di Ernesto Che Guevara, “O rivoluzione socialista, o caricatura di rivoluzione”…

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