M. H. – È giunta una notizia allarmante: si parla di impeachment per Dilma, in una situazione di calo della popolarità della Presidente, con scandali per corruzione in Petrobras, la siccità in un’intera regione del paese. Possiamo collegare queste vicende all’attuale situazione politica argentina e al fallito golpe in Venezuela? Cosa ne pensi?
R. A.– La situazione brasiliana è molto complicata, in quanto si tratta di un insieme di fattori, primo dei quali la vittoria di Dilma grazie alla promessa, durante le elezioni, di conservare le politiche sociali, i diritti dei lavoratori, ecc. Sono invece iniziati i tagli alle spese sociali e una brutale politica di controlli della spesa pubblica e di intensificazione dell’avanzo primario. È stato nominato ministro dell’Economia l’esponente di una grande banca brasiliana, per realizzare la stabilità economica.
A questo primo problema si aggiunge la situazione molto critica di Petrobras, con la percezione di uno schema di corruzione profondo, che non nasce oggi, né nasce con il governo di Dilma o di Lula, ma viene da diversi anni addietro. Tuttavia, i governi di Lula e di Dilma assunsero molti impegni con il partito di Maluf (PP) e con il PMDB, due partiti abituati a convivere con la corruzione. Il sentore di corruzione deriva dal fatto che molti dei dirigenti di grandi imprese sono in galera, nonché dall’enorme rete di corruzione creata e sviluppata dallo stesso PT per finanziare le sue campagne elettorali. Il PT è diventato, come ho già detto altre volte, un Partito d’Ordine, completamente inserito nei vari settori della borghesia in Brasile.
Il terzo elemento è che c’è una profonda crisi di desertificazione climatica, migliorata sì negli ultimi cinque anni, ma pur sempre con città del sud-est in cui manca l’acqua, specie in periferia, anche se il governo di San Paolo (PSDB) sostiene che non c’è razionamento, ma molte abitazioni periferiche sono senza una goccia d’acqua. Tutto questo crea una situazione sociale critica e difficile.
Settori di destra hanno appoggiato Dilma perché quello di Dilma non è un governo di sinistra dal momento che fa quel che la destra le impone. Aécio Neves e i socialdemocratici (che sono tutto fuorché socialdemocratici) dicono che il governo di Dilma sta realizzando il programma di Aécio.
Pur essendo certo che la corruzione colpisce al cuore il PT, anche se non ci sono prove concrete, pratiche, del coinvolgimento personale della presidente, il problema è che parte delle risorse dell’enorme corruzione di Petrobras così come di altre imprese pubbliche – tutte le grandi imprese pubbliche che condividono progetti con imprese private soffrono infatti di una profonda corruzione – sono quelle che hanno garantito il finanziamento della campagna elettorale di Dilma.
Per questo si comincia a parlare di impeachment, ma sarebbe un rischio molto grave, perché creerebbe una profonda crisi sociale, mentre per la destra, la banca, l’agro-business e le grandi industrie quello di Dilma è un governo che li rappresenta. Non credo che i grandi capitalisti e i settori dominanti appoggino questa misura, perché non sono interessati a una crisi sociale che potrebbe creare una profonda divisione del paese, un rischio che non credo siano disposti a correre.
D’altro canto, Dilma non ha più il sostegno delle classi popolari; è importante capire che esiste un malcontento in tutti gli strati sociali, tra i lavoratori rurali, i ceti medi, gli operai dell’industria e dei servizi, ecc.; una situazione di notevole ostilità e di scontro, con scioperi, manifestazioni di insegnanti, di metalmeccanici, lavoratori dell’industria petrolifera “terziarizzati” [subappaltati], camionisti, ecc. A mio avviso, il secondo governo di Dilma è un governo di crisi profonda, cui si aggiunge la crisi internazionale che colpisce il Brasile con particolare intensità. La politica economica del governo sta arrivando all’esaurimento, comincia a presentare carenza di risorse per tenere in piedi una politica sociale meramente assistenzialistica. Ho scritto un articolo che uscirà entro breve, in cui segnalo come tutti gli interventi siano contro i/le lavoratori/lavoratrici: è chiaro che la situazione non è paragonabile a quella del governo venezuelano, anche se per la destra pura e dura i neoliberisti sono sempre preferibili.
Credo esistano molte differenze. In Venezuela vi sono riforme profonde, un’effettiva mobilitazione popolare, alcuni interessi privati vengono colpiti perché cercano di boicottare la cosiddetta Rivoluzione bolivariana; niente di tutto questo accade in Brasile, e c’è un grande malcontento tra i vari strati sociali.
M. H.- È un fenomeno naturale la mancanza d’acqua in grandi città come San Paolo e Rio de Janeiro? Si parla molto del fatto che si sia speso molto per sovvenzionare l’elettricità e che questo abbia comportato l’assenza di investimenti.
R. A.– Si tratta del risultato di due fattori. Da un lato, per comprendere la crisi della mancanza d’acqua e quella energetica si deve tener conto della dimensione naturale. Il Brasile ha vissuto negli ultimi anni una desertificazione climatica, come conseguenza della distruzione ambientale che stiamo vivendo a livello globale e che ha raggiunto anche il Brasile; dall’altro lato, i governi sia di Dilma sia di Lula o quello del PSDB a San Paolo, non immaginavano cose del genere, e non hanno mai investito al riguardo per avere un’alternativa. Ho 62 anni ed è la prima volta che si verifica una crisi dell’acqua di queste proporzioni; ve ne sono state altre, ma molto meno gravi.
Un terzo punto è che i governi hanno utilizzato il prezzo di benzina ed energia elettrica in funzione di controllo politico, e c’era un contributo statale molto elevato per le imprese private produttrici di energia, perché non aumentassero i prezzi, per non aggravare l’inflazione e garantire così la vittoria del PT. Quando si concluse il primo governo Dilma e cominciò il secondo, fu inevitabile rivedere il prezzo della benzina e dell’energia elettrica abbondantemente sovvenzionati, e queste misure danneggiarono profondamente le tasche della popolazione lavoratrice, contribuendo al malcontento sociale. In Brasile le imprese pubbliche sono quasi tutte privatizzate e quelle dell’energia elettrica sono private o miste, vale a dire un po’ pubbliche e un po’ private, con una gestione poco pubblica e molto privata.
Il progetto economico del PT di creare un “neosviluppismo”, come dicono loro, non esiste; quel che esiste oggi in Brasile è una variante di neoliberismo. È iniziata con Lula, con buoni risultati per i capitali in un periodo senza crisi; dopo la crisi mondiale che si è intensificata in Brasile nel 2013, la situazione è cambiata profondamente, perché oggi le aziende private dipendono dallo Stato e i sistemi dell’energia e dell’acqua non prevedono un piano alternativo. Per fortuna, nel periodo di Carnevale, dallo scorso giovedì, è cominciato a piovere molto nel sud-est, il che ha prodotto un lieve miglioramento, ad esempio, in una delle principali lagune di riserva d’acqua di San Paolo, che era ormai quasi prosciugata. Per quanto riguarda le sovvenzioni, assistiamo a una pessima gestione pubblica e a un disordine privatistico. I settori privati che controllano l’acqua e l’energia chiedono soldi, vogliono profitti, e questa è oggi la situazione del Brasile. Dilma, il suo predecessore Lula e il PT sono sull’orlo del precipizio e i rapporti tra Dilma e Lula non sono in questo momento dei migliori.
M.H. – Questo ti volevo chiedere, perché ho letto dichiarazioni di Marta Suplicy che sosteneva che il PT o cambia o chiude; e poi, che alcuni analisti accennavano al fatto che c’è una divisione in seno ai vertici del PT tra Lula e Dilma.
R. A.– Certo, in quella dichiarazione c’è una componente personale, perché Marta è stata cacciata dal governo da Dilma in maniera molto brusca. L’anno scorso, in agosto/settembre, è iniziata una campagna in seno allo stesso PT, “Torni Lula, non Dilma”, per le elezioni, e Marta la ha appoggiata. C’è anche un dissenso politico-personale tra Dilma e Marta, è chiaro che Marta esprime una posizione del PT che è molto scontento, ma la cosa più grave è la relativa distanza tra Dilma e Lula. Quattro o cinque anni fa, quando Dilma venne eletta per la prima volta, dicevo che non aveva alcuna esperienza politica e che questo costituiva un rischio elevato, perché in una situazione di crisi politica se il leader non ha esperienza la situazione si fa caotica.
Io sono molto critico sull’operato di Lula, ma lui è un ingegnere della politica, è un uomo in grado di mettere insieme Dio e il Diavolo (una variante moderna di semi-bonapartismo). Dilma no, è isolata, è più rigida, è una che gestisce in modo burocratico e non ha la minima capacità di essere politicamente duttile. In un momento di crisi, lei prende le distanze da Lula, mentre lo stesso Lula sostiene che deve parlare di più con i settori moderati, che deve essere più conciliante. In certo senso, il governo di Lula è peggio, perché rappresenta la conciliazione tra inconciliabili. Dilma cerca di farlo, ma ne è incapace politicamente, è durissima anche con i settori sociali più vicini, aggredisce direttamente i suoi ministri, e quando diventa nervosa è profondamente autoritaria, non discute con i settori popolari e ora il suo isolamento è molto forte, tanto più in un quadro di crisi economica, sociale e politica.
M. H. – Vorrei che parlassi, sia pur brevemente, di che cosa è stato lo sciopero vincente alla Volkswagen, in lotta per il rientro di 800 lavoratori.
R. A.– È stata una lotta molto importante perché sia il governo Lula sia il governo Dilma hanno concesso molte sovvenzioni per ridurre le tasse automobilistiche, avvantaggiando parecchio l’industria automobilistica, che ha venduto così tante auto che oggi non si cammina più per le strade brasiliane. Il risultato è che, quando lo scorso anno è cominciata la crisi, l’industria automobilistica ha conosciuto un processo di calo delle vendite, e quando accade questo le multinazionali reagiscono riducendo il personale. Nel 2012 avevano firmato un accordo con una delle società (la Volkswagen), che garantiva che nessun lavoratore avrebbe perso il posto fino al 2016; invece ne hanno cacciati 800 e annunciano che intendono fare la stessa cosa con altri 2.000. La risposta degli operai è stata molto importante, perché si sono dichiarati contro questa misura delle imprese, che se devono ridurre un po’ il loro saggio di profitto (in Brasile i costi delle auto sono tra i più alti del mondo) questo comporta di riflesso meno posti di lavoro.
C’è un malcontento diffuso, più latente o più esplicito che sia, sia nei settori periferici sia tra i lavoratori e i movimenti sociali, ed è questo che porterà alla crescita delle manifestazioni e degli scioperi.
Dilma ha perso la tregua di cui godeva da parte di certi settori popolari, il PT sta rotolando verso il precipizio e lo scandalo in Petrobras sta aggredendo il cuore politico-finanziario del partito. È questo il quadro generale.