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immigrazione-migranti1-535x300Rieccola l’ennesima strage nel Mediterraneo. Questa volta i titoli e le prime pagine dei media sono ancora più eclatanti poiché si tratta del maggior numero di vittime presunte per un solo naufragio. Ognuno, in base al proprio ruolo istituzionale e di governo, di maggioranza ed opposizione ha già fatto o farà la propria dichiarazione di routine.

Si parla di efferatezza dei trafficanti, che riempiono le barche all’inverosimile; di un’emergenza internazionale in cui l’Europa non dà segni di vita e lascia un paese a fare da solo; dell’esigenza di reintrodurre Mare Nostrum, coordinare maggiormente le operazioni di Frontex o Frontex plus con Triton; di bloccare le partenze per difendere i confini e così via. Ascolteremo e leggeremo il solito refrain, funzionale al proprio posizionamento politico-elettorale e ad accompagnarci, insieme all’indignazione e alle reazioni di dolore, verso un progressivo stato di impotenza, di abitudine al limite dell’assuefazione.
E invece no! C’è bisogno ancora una volta di dire basta, di denunciare le responsabilità e le ipocrisie di Stato, ma tutto questo non è sufficiente. E’ necessario essere a supporto e dalla parte di tutte quelle donne e uomini migranti che continuano a lottare quotidianamente contro il razzismo istituzionale, contro il dominio e il controllo sulle loro vite e sui loro corpi, che esprimono il loro bisogno di libertà quando vogliono attraversare le frontiere alla ricerca di una vita migliore, quando protestano contro un sistema dell’accoglienza funzionale solo agli interessi del business e del profitto.
Bisogna farsi promotori di campagne diffuse per chiedere e rivendicare, a stretto contatto con i migranti, una gestione dei flussi migratori regolarizzata da una parte all’altra del Mediterraneo e gestita direttamente dall’Italia e dall’Unione Europea; introdurre un permesso di soggiorno minimo di due anni europeo ed incondizionato che superi e renda inapplicabile il trattato di Dublino; che inizi a smontare il rapporto tra reddito, lavoro e permesso di soggiorno abrogando la Bossi-Fini.
Per praticare questo occorre sviluppare percorsi organizzativi che rompano con la separazione tra le questioni della precarietà e lo sfruttamento dei nativi con le condizioni di vita e lavoro che vivono i migranti. Non è più sufficiente rimanere isolati sui propri territori o all’interno delle singole vertenze, è necessario costruire relazioni, coalizioni socio-sindacali e politiche più efficaci che non si fermino al semplice riferimento marginale o all’idea di tenere relegate le questioni dell’immigrazione esclusivamente agli addetti ai lavori o tenerle distanziate da una visione politica più generale che riguarda una fetta della società più ampia e diffusa.
Gli interventi legislativi sull’immigrazione degli ultimi decenni stanno lì a dimostrare come questi si intersecano fortemente con i provvedimenti sulle condizioni di vita e lavoro di tutti e tutte noi. Una loro analisi può aiutarci a ridurre questa distanza, e a capire perchè tali tragedie sono all’ordine del giorno in questo tempo.
La vicenda dell’uccisione di Jerry Masslo nel 1989 ha portato alla luce il razzismo connesso allo sfruttamento dei braccianti agricoli migranti, quando il 20 settembre fu organizzato lo ‘sciopero nero’ di Villa Literno (Caserta) e il 7 ottobre convocata una manifestazione nazionale antirazzista a Roma. Gli effetti di quella mobilitazione si ebbero con l’approvazione della legge Martelli, che ridefiniva lo status di rifugiato, prima di fatto riservato ai soli cittadini dell’est Europa, e introduceva una legislazione organica sull’immigrazione. Eludendo le rivendicazioni dei migranti, non si fece altro che ratificare anche in Italia quella che negli anni successivi si è rivelata una trasformazione epocale del diritto di asilo dopo la caduta del muro di Berlino, con una maggiore rigidità della programmazione dei flussi e del regime delle espulsioni, producendo una netta distinzione giuridica e separazione di trattamento tra migranti regolari e irregolari. E’ un provvedimento che fa da apripista alla legge del ’98, la Turco-Napolitano che irrigidisce ancora di più la distinzione tra migranti regolari e ‘clandestini’ con l’istituzione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt) e introduce maggiori restrizioni per l’ottenimento del permesso di soggiorno. Il cerchio si chiude con la legge Bossi-Fini del 2002 che introduce i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e lega l’ottenimento del permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro o ad una quota di reddito prevista dalla legge (si veda ‘La normale eccezione’ cap II Ed. Alegre 2011).
Le normative nostrane all’interno della ‘Fortezza Europa’ hanno creato volutamente condizioni di precarietà nei percorsi di accoglienza e regolarizzazione dei migranti. I flussi migratori che si collocano all’interno dei processi di mobilità globale sono diventati sempre più funzionali al mercato del lavoro, alle sue esigenze di domanda di forza-lavoro usa e getta. Le istituzioni da più di un decennio dichiarano per decreto l’emergenza immigrazione. Lo decretano periodicamente i vari ministri degli Interni nonostante siano ben consapevoli che si tratta di flussi più o meno preventivabili e per cause (guerre, carestie, spossessamento di terre e risorse naturali) di cui lo stesso ‘democratico e civile occidente’ è in gran parte responsabile.
Il risultato è rimasto sempre lo stesso, una sorta di continua ‘istituzionalizzazione della clandestinità’ consistente nel confinare i migranti in un limbo di attesa, accompagnandoli nell’invisibilità. Che siano centri di prima accoglienza (Cpa) o centri per richiedenti asilo (Cara) si tratta ormai di veri e propri centri di detenzione. Al di là della loro effettiva capienza, i tempi di trattenimento in molti casi superano anche l’anno, a dispetto delle poche settimane previste per ottenere una risposta per l’ottenimento della protezione internazionale/asilo politico. Gli stessi ‘ospiti’, appena possono, fuggono verso paesi che garantiscono procedure più rapide per il riconoscimento dello status di protezione internazionale e maggiori prospettive di inclusione. E’ così che si mettono in moto ulteriori flussi migratori invisibili che innescano sacche di business, traffico di persone che per sfuggire ai vincoli sempre più restrittivi della libertà di circolazione, si fanno risucchiare nella ‘clandestinità’ per oltrepassare il confine. Quindi dopo quello dall’Africa o dal Medio Oriente, dall’Italia o da qualche altro paese del Sud d’Europa parte un secondo viaggio per ricongiungersi con l’affetto dei propri cari e/o raggiungere un altro Stato europeo che possa offrire più opportunità di vita e un minimo di welfare. Anche questo processo ancora una volta è innescato da un dispositivo legislativo, questa volta tutto europeo, ossia il Regolamento dell’Unione Europea 343/2003/CE, definito come trattato di Dublino II attualizzato con Dublino III, per cui la domanda di protezione internazionale si deve fare nel primo paese di arrivo in Europa, dove si è identificati attraverso il rilascio delle impronte digitali, a cui segue l’iter infinito del riconoscimento. Quando il risultato della Commissione territoriale è positivo il rifugiato è obbligato a stazionare nel paese ospitante, senza poter trasferirsi in un altro, se non per un tempo massimo di tre mesi. Ed ecco che una volta ottenuto lo status di rifugiato, con le sue politiche d’accoglienza arruffate anche il territorio italiano diventa una prigione a cielo aperto per persone in carne ed ossa, lasciate allo sbando quando sono previste politiche ad hoc, come lo Sprar: il ‘Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati’, istituito nel 2002 ed affidato dal Ministero dell’Interno all’ANCI mediante convenzione, prevede l’attivazione di servizi di accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione internazionale mediante una serie di progetti gestiti a livello territoriale dai diversi enti locali che ne fanno richiesta. La realtà di tali progetti ormai ci parla di una prima e seconda accoglienza i cui continui appalti (il più delle volte in deroga, dato il carattere emergenziale), le voci di spesa, le circolari governative e prefettizie producono ghetti con campi adibiti a container e tendopoli.
A definire e disciplinare le gerarchie del razzismo istituzionale tra gli stessi migranti esiste anche il cosiddetto ‘permesso di soggiorno a punti’. Entrato in vigore nel 2012 con un decreto dell’allora Ministro Maroni (e rivisto con una delega alle Prefetture nel febbraio del 2014), per una determinata categoria di migranti entrati in Italia dopo il 10 marzo del 2012 è stato introdotto l’obbligo a sottoscrivere un accordo di integrazione, consistente nella firma di una ‘Carta dei valori’, in cui ci si impegna a raggiungere nell’arco di due anni dalla firma un minimo di 30 punti per non perdere il permesso di soggiorno e non essere espulsi. Con le dovute distinzioni la ratio corrisponde a quella del programma della Garanzia giovani, ossia l’obbligo a rendersi disponibile a farsi formare, ricollocare, ad accettare un eventuale posto di lavoro anche demansionato rispetto alla propria formazione, pena la perdita dell’opportunità stessa ad essere inserito nel mercato del lavoro, quindi ad essere occupabile. Sulla stessa base col ‘permesso di soggiorno a punti’ si stabilisce quali migranti possono conquistare il diritto di restare (o altrimenti ad essere espulsi) e in quale posizione nel mercato del lavoro, a seconda della loro capacità di adeguarsi alle esigenze delle imprese e alle regole della società.
Per il management dell’immigrazione i vari dispositivi da modificare periodicamente rimangono delle sfaccettature da utilizzare per tenere a bada il livello di conflittualità e le rivendicazioni che portano con sé i soggetti migranti o per gestire l’indignazione dell’opinione pubblica e le voci più o meno autorevoli laiche o religiose che si alzano di fronte alle tragedie nel Mediterraneo. La sostanza strategica tuttavia rimane intatta. Si può cambiare anche la maschera, ma i governi italiani continuano ad avvalersi strumentalmente della legge Bossi-Fini per tenere insieme, a seconda delle necessità, alcune esigenze di fondo, di cui non si può fare a meno.
Da un lato devono rassicurare i cittadini che i confini esterni e interni (il territorio) sono sorvegliati e le minacce di intrusione efficacemente governate se non contrastate: ed ecco che si alternano politiche di gestione ‘umanitaria’ come quella di Mare Nostrum, a momenti di linea dura in cui si respinge come dispongono i vertici di «Frontex», la struttura dell’Unione Europea che ha il compito di pianificare le politiche dell’immigrazione condivise da più Stati membri.
Dall’altro devono rispettare il “vincolo liberale” delle democrazie occidentali per il rispetto della dignità umana. Qui invece entra in gioco l’utilizzo della retorica caritatevole e della pietà nei confronti dei migranti, che però si considerano vittime silenziose ed ospiti transitori ai quali offrire servizi legali e burocratici.
Nel mondo di mezzo, quello che conta maggiormente, l’obiettivo di fondo rimane il ‘business dell’immigrazione’ e soprattutto lo screening di un’adeguata forza-lavoro da utilizzare all’interno della crisi dell’economia di mercato, che in tutta Europa continua a chiedere braccia e menti flessibili, a basso costo, disponibili permanentemente per lavori principalmente dirty, dangerous, demanding (sporchi, pericolosi e pesanti); forza-lavoro di riserva da utilizzare e gestire in forma ‘idraulica’ nel mercato del lavoro, in base alla “pressione” che la crisi esercita sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita (da licenziare), a seconda dei picchi di produzione: si apre e si chiude così il rubinetto rispetto alle esigenze dell’economia di mercato.
Di fronte a questa enorme tragedia insomma, come a quelle che si succedono periodicamente nel Mediterraneo, la politica italiana ed Europea non può indignarsi se non smette di concepire i migranti come mezzi a basso costo per aumentare i profitti anzichè come essere umani, e non cambia conseguentemente le politiche che li costringono a vivere e a viaggiare in clandestinità nei nostri paesi.