Geologi e fisici di tutto il mondo avvertirono appena tre settimane fa che in Nepal si sarebbe verificato un movimento sismico di grande magnitudo. La previsione si è avverata e i morti possono arrivare alle 10.000 persone. “Ad uccidere la popolazione è la qualità delle abitazioni, non il terremoto in sé”, sostiene uno scienziato a Katmandù.
Ma c’è qualcosa di più inquietante: mentre a Katmandù, soprattutto nei molti quartieri poveri, mancavano attrezzature e si scavava con le mani, per i turisti che pagano 40.000 dollari per un’escursione nell’Himalaya si sono trovati subito gli elicotteri per evacuare i sopravvissuti, portandoli nella capitale, e perfino per recuperare le salme di chi era stato travolto. Mentre intere regioni non turistiche sono rimaste completamente abbandonate, e hanno accolto con vigorose proteste i primi funzionari governativi che sono arrivati per distribuire, con grande ritardo, modestissimi aiuti, del tutto insufficienti.
«Saranno state intorno alle 11 del mattino, non so di preciso. Ero in albergo e, improvvisamente, ho provato una sensazione strana. Ho sentito che qualcosa si muoveva nella stanza, per alcuni secondi. Dopo, però, sembrava come se mi trovassi in barca e subito ho provato la sensazione di star perdendo il terreno sotto i piedi: la stanza tremava leggermente quando scattò l’allarme dell’albergo. Mi avvicinai alla finestra e vidi un sacco di gente ferma, senza sapere cosa fare e che pregava; scesi così come mi trovavo, in pantaloni corti e camicetta, con le ciabatte ai piedi e nient’altro. Tutti scendevano per le scale inciampando e spingendo per uscire in strada. Si è trattato di qualche istante». Da Calcutta (India), il resoconto che il fotografo spagnolo Juan Díaz fa alla Brecha illustra la dimensione di quel che è accaduto la mattina di sabato 25 aprile in Nepal, a quasi mille chilometri di distanza. Mentre stavamo chiudendo il giornale il terremoto, di 7,8 ° della scala Richter, aveva provocato la morte di almeno 5.000 persone in Nepal, una settantina nel Nord dell’india e 18 in Tibet. Il Primo ministro nepalese, Sushil Koirala, ha ammesso che i morti nel suo paese sarebbero potuti arrivare a 10.000.
La popolazione del Nepal, circa 29 milioni di persone, vive in una stretta frangia di montagna di dimensioni inferiori a quelle dell’Uruguay, pressoché impercettibile sulle carte geografiche, essendo situata tra i due giganti dell’India e della Cina. Un piccolo paese, ma impossibile da ignorare, per il fatto che ospita la montagna più alta del mondo, l’Everest. La catena dell’Himalaya, di cui fa parte l’Everest, si è formata nel corso del tempo sulla collisione delle placche tettoniche indo-euroasiatiche, che ne fanno una delle zone con i maggiori rischi sismici del pianeta. In questo senso, il Nepal suscita grande preoccupazione tra geologi e fisici.
Di fatto, quasi tre settimane fa, un gruppo di 50 ricercatori guidato da Laurent Bollinger, della Commissione per le Energie alternative e l’Energia atomica francese, si era recato in zona, aveva condotto le sue osservazioni e aveva preannunciato quanto è poi avvenuto: «Questo terremoto, alla fine, non è stato una sorpresa. L’ultimo evento simile in questa parte dell’Himalaya si verificò circa 500 anni fa, più o meno la media del tempo entro cui si verificano questi eventi», ha dichiarato Marin Clark, geofisico dell’Università del Michigan, all’Agenzia Efe. Si è trattato, per riprendere le parole del gruppo di scienziati, di un «incubo» prevedibile, per cui si sarebbero potute prendere precauzioni per mitigarne le conseguenze. L’esperto in movimenti sismici David Wald garantiva a un’altra agenzia, la “Reuters”, che un terremoto della stessa grandezza avrebbe causato la morte di 20-30 persone per ogni milione di abitanti in California, ma di 1.000 o più persone per ogni milione in Nepal. «Dal punto di vista fisico e geologico, quanto è accaduto è esattamente quel che pensavamo che sarebbe successo», ha osservato James Jackson, un altro degli scienziati presenti.
Le conseguenze erano prevedibili non solo in base ai fattori naturali, ma anche a quelli umani. In Nepal, ad esempio, tradizionalmente ogni figlio costruisce la propria abitazione sopra quella dei genitori, e lo si fa con mattoni sottili e cemento di cattiva qualità. Come succede per la maggior parte delle case che sono andate distrutte nella capitale, Katmandù, e nel distretto di Gorkha, epicentro del terremoto. «È questa qualità delle case che uccide la popolazione, non il terremoto in sé», ha affermato Jackson. L’inefficienza del governo del Nepal nell’affrontare un colpo di questa natura si è vista nello stesso aeroporto, con l’incapacità di organizzare l’arrivo degli aerei con gli aiuti internazionali. Il martedì 28 gli elicotteri hanno sorvolato la zona maggiormente colpita e hanno così potuto constatare che vari villaggi erano letteralmente sepolti dagli smottamenti causati dalla pioggia incessante di tutti questi giorni.
Dopo il terremoto, circa 1 milione di minori sono rimasti senza casa, in un paese in cui, secondo l’Unicef, il 40% dei bambini soffre di denutrizione. La stima dell’Onu è che 8 milioni di persone siano state colpite dal disastro e 1,4 milioni abbiano bisogno di generi alimentari, segnalando che invierà alle vittime del terremoto 15 milioni di dollari, che consentiranno di estendere il raggio delle operazioni e di fornire rifugio, acqua, forniture mediche e servizi logistici. Stati Uniti ed Unione Europea annunciano la donazione di milioni di euro o di dollari per la ricostruzione, «che meglio si sarebbero potuti utilizzare in fatto di prevenzione e in costruzioni decenti», per riprendere il commento sulle reti sociali di tanti indignati.
Natura umana
«Per quanto naturale possa sembrare, nessuna catastrofe è naturale. Un terremoto della stessa identica intensità causa più vittime in un paese pauperizzato che non in uno ricco e industrializzato. Ad esempio: il terremoto di Haití, di magnitudo 7,0° della scala Richter, ha provocato oltre 100.000 morti, mentre quello di Honshu (Giappone), della stessa forza (7,1°), verificatosi sei mesi fa, ha provocato solo un morto e un ferito», ha scritto il giornalista Ignacio Ramonet su Le Monde dopo il terremoto di Haití del 2010. Il giornalista spagnolo Iván M. García, che si recò ad Haití circa 5 anni fa, ha dichiarato alla Brecha che là «tutto è andato male fin da subito». «Ad Haití c’era un governo assenteista, promesse non mantenute quanto a fondi internazionali e un aiuto umanitario concepito sul breve termine. In capo a un paio d’anni, i profughi continuavano a vivere in sistemazioni provvisorie, di solito nelle piazze della capitale, Puert-au-Prince. Hanno fatto l’abitudine a ricevere soldi, generi alimentari, acqua. Nel paese più povero dell’America latina, se ti assicurano questo te ne rimani fermo. Ovvio. Nessuno o quasi nessuno ha pensato alla ricostruzione».
Negli ultimi decenni il Nepal è vissuto sotto una monarchia assoluta che è sfociata in un parricidio e nello scioglimento del regime, con una guerra intestina culminata nel 2006 e conclusasi con un saldo di 13.000 morti. Oggi il paese ha un governo democratico che, nel suo ultimo Rapporto, l’organizzazione Social Watch definisce «fragile» e instabile, tra le altre cause per la sua estrema povertà. Se non si supera questa, i terremoti ed altri disastri naturali continueranno a uccidere migliaia di persone. «Se vivi nella vallata di Katmandù hai altre priorità, bisogni quotidiani urgenti, propri della povertà. Questo però non allontana i terremoti», dice lo scienziato Jackson.
Il panorama attuale lascia prevedere un lento e difficile recupero, dipendente per giunta da «un piccolo gruppo di burocrati», afferma il giornale inglese The Guardian. Il paese deve affrontare la cura di 7.000 feriti, la somministrazione di cibo, acqua, farmaci e tende. Il pericolo, avverte lo spagnolo García, è che il provvisorio si trasformi in permanente. «Vi sono accampamenti di profughi che alla fine sono diventati quartieri. È successo a Beirut con i rifugiati palestinesi, è successo in Palestina con la gente sloggiata dai militari israeliani. Non vi sono accampamenti di tende ma di edifici. Ad Haiti non si sono prese misure per evitare un’altra catastrofe». Neanche in Nepal è probabile che si prendano.
Correspondencia de Prensa-boletín informativo – germain5@chasque.net