Agli inizi di aprile 2015, il presidente Obama si è incontrato con il presidente Raúl Castro al Vertice delle Americhe. È stato il primo incontro tra i due leader in oltre cinquant’anni ed ha costituito la manifestazione più evidente della ripresa dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Cuba, annunciata da Washington e l’Avana a dicembre dello scorso anno.
Il riavvicinamento ha riacceso l’attenzione sulla politica nordamericana che ha permesso per cinque decenni ai cubani di emigrare negli Stati Uniti senza limite alcuno, “privilegio” che il governo statunitense non ha esteso ai cittadini di nessun altro paese.
Il numero dei cubani immigrati legalmente negli Usa era cresciuto notevolmente prima dell’accordo di dicembre. La maggiore ondata migratoria dopo la Rivoluzione cubana del 1959 non si verificò infatti, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, ma durante i due decenni dal 1949 al 2013, quando il peggioramento della situazione economica dell’Isola suscitò un’emigrazione massiccia, con 563.470 cubani accolti legalmente negli Stati Uniti.
È probabile che l’emigrazione verso gli Stati Uniti aumenti ulteriormente in seguito ai riannodati rapporti diplomatici, insieme alla liberalizzazione della politica migratoria del governo cubano nel 2012; questo rimette così in discussione il futuro della politica di immigrazione nordamericana rispetto a Cuba, una politica decisa in condizioni ben diverse da quelle attuali.
L’origine della politica di immigrazione degli Stati Uniti verso Cuba
Una delle tante misure adottate dal governo nordamericano agli inizi degli anni Sessanta per abbattere il governo rivoluzionario cubano fu quella di spalancare le porte a ogni cubano che volesse immigrare negli Usa. A parte l’impatto propagandistico che ebbe questa politica, essa danneggiò seriamente l’economia cubana, senza per questo prevedere che avrebbe anche funzionato a lungo da grossa valvola di sfogo del malcontento popolare, anche dopo che i cubani più danarosi avevano lasciato l’isola.
Nel 1966, a sei anni dall’inizio della grande emigrazione da Cuba, circa 300.000 persone erano state ammesse negli Stati Uniti (su una popolazione di circa 6 milioni di cubani nel 1960), sia pure con visto temporaneo di “rifugiati”, con il quale non potevano ottenere la cittadinanza. Tuttavia, la situazione legale dei cubani dovette cambiare quando divenne ovvio che il governo di Cuba non sarebbe crollato.
Fu questo il contesto in cui venne votata dal Congresso nordamericano e firmata da Lyndon Johnson il 2 novembre1996 la Ley de Ajuste Cubano (Cuban Adjustment Act – CAA). Grazie a questa legge, gli immigrati cubani insieme ai familiari già presenti con loro negli Usa possono richiedere e ottenere la qualifica [detta “sulla parola”] che dopo un anno li candida al rilascio della residenza stabile. Dopo cinque anni di residenza permanente, i cubani possono ottenere la cittadinanza nordamericana, come qualsiasi altro residente stabile. Naturalmente, a differenza della legge Helms-Barton del 1996, che sancì per legge il blocco economico contro Cuba e che richiede quindi che il Congresso approvi un’altra legge per emendarla o abolirla, il CAA lascia la decisione di concedere la residenza al Procuratore Generale (Attorney General) “a sua discrezione e conformemente alle norme che intenda varare”.
Fu così che, fin dall’inizio, il CAA ebbe la flessibilità di consentire la restrizione e la soppressione completa delle sue clausole principali. Naturalmente, dato che qualsiasi azione del genere da parte di un procuratore generale può comportare elevati costi politici, il presidente può costringere il potere legislativo a condividere questi costi, a includere cambiamenti del CAA entro un più vasto pacchetto di riforme dell’immigrazione, come veicolo effettivo per nascondere qualsiasi modifica o l’abrogazione del CAA).
Tuttavia, la probabilità che qualsiasi riforma migratoria generale, per modesta che sia, possa venire approvata in un prossimo futuro da un Congresso controllato da repubblicani è minima, e questo aumenta la possibilità di una legislazione riservata al solo caso cubano.
“Piedi asciutti-piedi bagnati”
La severa crisi economica a Cuba, provocata dal crollo del blocco sovietico, pervenuta al suo punto più critico tra il 1992 e il 1994, causò problemi serissimi di denutrizione, oltre a un’epidemia neuropatica, con 50.000 casi riferiti, che colpì in particolare la vista dei malati.
Dopo le rivolte dell’agosto del 1994 sul lungomare dell’Avana (il Malecón) provocate da quella crisi, Fidel Castro concesse la libera uscita da Cuba a quanti volessero andarsene. Lo fecero allora migliaia di persone, spesso con zattere (balsas), rischiando la vita e molti di loro la persero. Quella massiccia emigrazione portò i guardiacoste nordamericani a bloccare nello stretto della Florida 30.879 cubani, dall’agosto al settembre del 1994.
La crisi dei “balseros” fu la principale ragione degli accordi migratori tra gli Stati Uniti e Cuba nel settembre 1994 e nel maggio 1995. Tali accordi, sottoscritti da allora annualmente tra entrambe le nazioni, protrassero la precedente politica nordamericana delle porte aperte, anche se gli Stati Uniti concordarono anche l’accoglienza annua di 20.000 immigrati cubani, che sarebbero stati seguiti dalla Sezione di interessi degli Stati Uniti all’Avana. E in quella che divenne la politica dei “piedi asciutti-piedi bagnati”, gli Stati Uniti accettarono anche di riportare nell’isola i Cubani fermati dalla Guardia Costiera nordamericana nello Stretto della Florida (è successo in migliaia di casi), consentendo a chi era invece riuscito ad arrivare in qualche modo in terra statunitense di ottenere i diritti concessi in base alla legge CAA.
Quegli accordi fornirono una via migratoria più sicura e placarono un po’ l’ansia dei cubani di emigrare negli Usa. Non riuscirono però a soddisfare il desiderio di tutti coloro che volevano emigrare negli Stati Uniti e che insistevano per andarsene. Inizialmente, per distribuire i visti, gli Stati Uniti li estrassero a sorte, poi questa lotteria (nota a Cuba come “el bombo”) fu abolita dal governo cubano. Alla prima, del novembre 1994, parteciparono 189.000 richiedenti; alla seconda, questi erano saliti a 435.000 e nell’estate del 1988 si arrivò a 541.000.
“Un’enclave biforcata”
Soprattutto come risultato dell’accordo del 1994-1995, oltre 600.000 cubani entrarono legalmente negli Usa. Questi immigrati – oltre quelli arrivati prima, ad esempio i 125.000 salpati dal porto di Mariel nella primavera del 1980 – provenivano per la maggioranza da classi più modeste di quelli precedenti degli anni Sessanta e Settanta.
Sono questi immigrati successivi agli anni Ottanta ad essere diventati la netta maggioranza della popolazione cubano-americana negli Usa, via via che i cubani più danarosi che erano arrivati prima, soprattutto negli anni Sessanta, sono andati morendo e i loro discendenti non sono tanti come gli immigrati più recenti.
Il sociologo cubano-americano, Alex Portes, descrive la comunità cubano-americana attuale come una “enclave biforcata”. Da un lato, ci sono quelli arrivati negli anni Sessanta e Settanta con i figli possidenti, che per i conservatori delle scienze sociali costituiscono la “minoranza” modello che gli immigrati latino-americani dovrebbero imitare. Dall’altro lato, ci sono quelli arrivati a partire dagli anni Ottanta, ai quali non è andata troppo bene e che in effetti hanno un profilo socio-economico analogo a quello di altri gruppi di immigrati latinoamericani.
In contrasto con i vecchi esuli e i loro discendenti, molti degli immigrati recenti tornano spesso a visitare l’Isola (più di 300.000 l’anno) e, indipendentemente dal loro atteggiamento nei confronti del governo cubano, sono più preoccupati del benessere dei parenti di Cuba che della politica dell’esilio cubana. Vanno a Cuba non solo per fare visita ai parenti ma anche per portare loro del denaro, regali e pagare il loro soggiorno in alberghi turistici come quelli della spiaggia di Varadero (soggiorno che era vietato per loro quando Fidel Castro era al potere).
Non c’è quindi da stupirsi che i sondaggi di opinione mostrino che la maggioranza dei cubano-americani residenti in Florida siano favorevoli a una politica di normalizzazione dei rapporti fra i due paesi. A parte il fatto che i cubani arrivati dagli anni Novanta non hanno la cittadinanza, mentre i cubani conservatori danarosi hanno grande influenza sui mezzi di comunicazione e sul sistema politico locale. I tre esponenti di origine cubana della Florida sono tutti repubblicani di destra, decisamente impegnati nel blocco economico contro Cuba.
Tuttavia, il clima del Sud della Florida sta cambiando in senso opposto: Barack Obama ottenne il 48% dei voti cubano-americani (con percentuali maggiori tra i più giovani) alle elezioni del 2012, come chiara indicazione della tendenza politica in ascesa tra i cubano-americani del Sud della Florida ad allontanarsi dalla destra.
La destra cubano-americana
Da tempo la destra cubano-americana si è preoccupata per il mutamento della composizione politico-sociale dell’immigrazione dall’Isola verso gli Stati Uniti.
I tre parlamentari cubano-americani di destra – Ileana Ros-Lehtinen, Mario Díaz-Balart e Carlos Curbelo – hanno criticato pubblicamente le centinaia di migliaia di cubano-americani che vanno a visitare Cuba e a spendervi i soldi con i parenti. In un’intervista a una TV della Florida nel 2009, Díaz-Balart è arrivato all’estremo di paragonare i cubano-americani che visitano Cuba agli uomini di affari che senza alcuno scrupolo fecero accordi con i nazisti durante l’Olocausto.
E quando nel 2012 il governo cubano ha liberalizzato l’emigrazione, e ha esteso il periodo in cui i cubani possono risiedere all’estero senza perdere i loro diritti di cittadini nell’isola – permettendo così ai cubani di ottenere la residenza negli Stati Uniti conservando al tempo stesso i propri diritti a Cuba – Díaz Balart si è unito a Ros-Lehtinen, la più vecchia dei deputati cubano-americani del Sud della Florida, per denunciare le riforme cubane come una minaccia al CAA.
Ora che si riannodano i rapporti diplomatici tra Washington e L’Avana, la destra dura cubano-americana sta chiedendo l’abrogazione, o perlomeno un grosso emendamento, del CAA con molto maggiore insistenza di prima, visto che è evidentissimo che il CAA non serve più ai suoi propositi originari e tende più ad avvantaggiare che non a danneggiare gli interessi del governo cubano.
È per questo che Ros-Lehtinen ha dichiarato che “uno non può dire due cose simultaneamente: che Cuba è come qualsiasi altro paese, e che vado a chiedere asilo politico con le stesse garanzie della CAA. Qualcosa deve pur cambiare, perché non si possono tenere insieme due concetti come quelli della persecuzione e quello delle relazioni diplomatiche”; soggiungendo: “sarà un miracolo se la Ley de Ajuste Cubano sopravvivrà a questa fase di sedute parlamentari, perché non si possono mantenere rapporti con un governo e conservare un privilegio che non esiste per nessun’altro gruppo”, pur ammettendo che probabilmente la legge “verrà solo modificata”.
Il CAA e i Castro
Da quando il CAA venne approvato, nel 1966, il governo cubano denunciò la Legge come una politica assassina, attribuendole la colpa dell’emigrazione in Florida di numerosissimi cubani, ignorando i fattori interni che, indubbiamente, hanno favorito quella migrazione. Anche se è vero che, in conseguenza del CAA, migliaia di balseros hanno rischiato – e molti hanno perso – la vita attraversando illegalmente il Golfo del Messico per arrivare a metter piede in Florida. Sicuramente ora la maggioranza emigra attraverso il Messico, dove arriva in barche a motore ben più sicure delle zattere degli anni passati.
Lo stesso governo cubano sorvola sul fatto che l’emigrazione facilitata dal CAA è servita da valvola di sfogo per il malcontento interno, che cresce nell’isola per condizioni quali l’elevato tasso di disoccupazione e che è peggiorata dopo la decisione governativa di licenziare mezzo milione di lavoratori (su una forza lavoro di 5,2 milioni di persone) avviata nel 2010.
Va aggiunto che il governo cubano ha liberalizzato le norme sull’emigrazione nel 2012, e lo ha fatto contando molto sul CAA: ha utilizzato questa legge perché emigrare negli Usa fosse più attraente e per risolvere alcuni dei problemi dell’economia cubana, appunto la disoccupazione. Al tempo stesso, continua a negare ai suoi concittadini l’illimitata libertà di movimento per entrare ed uscire da Cuba, anche dopo aver liberalizzato le sue leggi sull’emigrazione. Continua ad essere uno dei pochi paesi che limita ancora i diritti civili dei suo emigranti.
“Furto di cervelli”: i medici
Nel 2006 il governo di Bush, secondo la logica politica del CAA, stabili il “Cuban Medical Professional Parole Programm (MPP)” che consente al personale medico cubano distaccato in altri paesi per ordine del governo, l’ingresso diretto negli Stati Uniti da quei paesi.
Il numero di personale medico cubano così ammesso negli Usa sotto il CMPP è significativamente aumentato. Ha raggiunto il picco più alto quando, nel 2014, 1.278 persone – il 3% del totale distaccato all’estero – entrarono negli Stati Uniti. Il governo cubano ha denunciato questo programma come un esempio del “furto di cervelli” perpetrato dagli Stati Uniti, come da altri paesi sviluppati.
Senza alcun dubbio, la politica del governo cubano di inviare all’estero personale medico ha fornito contributi molto positivi, soprattutto in casi così drammatici come l’epidemia di ebola in Africa occidentale. L’esportazione di servizi medici cubani è però anche diventata un grosso affare per il governo cubano, con un introito annuo di circa 8,2 miliardi di dollari. Il Programma è stato particolarmente importante in Venezuela, dove i servizi medici cubani sono stati scambiati con grossi quantitativi di petrolio, una risorsa vitale per l’economia cubana.
In ultima analisi, sono più che altro le politiche governative cubane ad essere responsabili del grado di successo ottenuto dal governo nordamericano nell’incentivare la “diserzione” del personale medico cubano. Tanto per cominciare, mentre molti paesi richiedono che i medici compensino lo Stato per aver ricevuto un’istruzione medica gratuita tramite un servizio sociale di durata limitata, a Cuba questo servizio sociale è praticamente illimitato.
Attualmente, in seguito all’aumento salariale concesso agli inizi del 2014, i medici guadagnavano 60 dollari al mese e le infermiere 40. Anche con questo aumento, però, i medici guadagnano molto meno che i lavoratori in proprio, come i tassisti, gli operai qualificati nel settore edilizio e i proprietari di piccoli ristoranti familiari (paladares), che costituiscono dal 20% al 25%della forza lavoro, e che hanno molto meno istruzione e addestramento.
Sicuramente i medici cubani che lavorano all’estero, tipicamente con contratti di breve durata, ottengono introiti notevolmente più alti. In Venezuela, ad esempio, ottengono un bonus aggiuntivo di 3.000 bolivares mensili (477,71dollari). Come qualunque altro professionista, tuttavia, non sono gli “artefici razionali” della fantasia neoliberista che astrattamente cercano di massimizzare la rendita del loro capitale umano cambiando posto ovunque serva per raggiungere quelle mete. I fattori che incidono sulle loro motivazioni sono vari e più complessi, ad esempio la loro autonomia professionale, le loro aspettative rispetto ai miglioramenti professionali e materiali che possono ottenere nell’Isola e i loro ideali di come servire al proprio paese.
La questione cruciale è se ritengono che Cuba offra loro la possibilità di migliorare la loro situazione materiale e professionale corrispondente alla loro educazione e alla loro addestramento – anche se non possono arrivare ai livelli materiali e professionali delle grandi metropoli. Se i medici cubani avessero la sensazione che le cose stiano migliorando nel proprio paese avrebbero ben minore interesse a lasciarlo.
Tuttavia, come per tante altre questioni, lo Stato a partito unico ha cercato di risolvere i problemi di “diserzione” medica e di “furto di cervelli” con misure burocratiche e poliziesche. Ad esempio, il ministero cubano della Sanità ha ordinato di recente ai familiari dei medici cubani distaccati in Brasile di rientrare nell’Isola prima dell’1 febbraio 2015, pena la perdita del loro lavoro. Il governo cubano ha lanciato questo ultimatum a prescindere da una nuova legge brasiliana che facilita il soggiorno dei parenti del personale medico cubano quando questi stanno fornendo servizi medici in quel paese.
Verso una politica di confini aperti
Indipendentemente dai vantaggi – e dai costi pagati con la vita di chi è affogato nel Golfo del Messico – che il CAA ha significato per i cubani, il futuro del CAA sta nelle mani del governo nordamericano.
Negli Stati Uniti il CAA è stato criticato dall’intero spettro politico. A parte la destra dura cubana, c’è una parte della destra nordamericana che vuole anch’essa abolire il CAA, pur se come parte di un progetto politico più ampio per contenere l’immigrazione in generale – specie quella latinoamericana – onde salvaguardare la cosiddetta omogeneità culturale e razziale degli Usa, e soprattutto la maggioranza elettorale dei bianchi.
Da parte loro, i critici di sinistra del CAA sostengono a ragione che l’iniziale approvazione del CAA, malgrado le pretese umanitarie di Washington, fu soprattutto motivata dalla concorrenza imperialista tra Mosca e Washington, e più specificamente dagli sforzi statunitensi di abbattere con la forza il governo cubano per conservare la loro egemonia imperiale nell’emisfero occidentale.
Anche se fosse così, si tratta di una questione che non va confusa con il diritto che devono avere i cubani – come qualsiasi cittadino di qualsiasi paese – di lasciare l’Isola per qualsiasi motivo, incluso quello della loro opposizione al governo. In tante occasioni Fidel Castro ha proclamato che la rivoluzione era un progetto volontario e chi non lo sosteneva era libero di andarsene. Tuttavia durante la maggior parte dei 47 anni in cui Fidel Castro fu al potere, era difficilissimo emigrare, tranne per aperture relativamente brevi quando moltissimi cubani lasciarono l’Isola. E, come ho accennato prima, le nuove norme approvate da Raúl Castro sull’emigrazione non concedono ancora ai cubani il diritto di emigrare senza condizioni.
La gente, soprattutto nei paesi sottosviluppati, dovrebbe potersi muovere liberamente attraverso le frontiere in cerca di una vita migliore. La libera emigrazione non è una mera utopia. L’Unione Europea consente la libertà di circolazione dei cittadini dei paesi che ne fanno parte attraverso i suoi confini interni (anche se questo, naturalmente, non ha evitato la crisi dei profughi in Europa, risultato delle guerre e della frequente delocalizzazione e dismissione produttiva ad opera dell’economia capitalistica occidentale nel Sud Globale).
Meno di cento anni or sono, gli stessi Stati Uniti permisero l’immigrazione illimitata (con l’eccezione delle loro politiche di esclusione degli asiatici). Alla fine del XIX secolo-inizi del XX, i lavoratori cubani del tabacco si muovevano spesso tra L’Avana (Cuba) e Cayo Hueso e Tampa (Florida), il che significava un solo giorno di viaggio in barca a vapore, in quello che per molti aspetti fungeva da mercato del lavoro unificato.
In quest’ottica, l’argomento più forte che ancora si potrebbe avanzare contro il CAA è che discrimina in favore dei cubani e a spese di altri popoli dell’area caraibica e dell’America latina. Certamente, la realtà è che i privilegi migratori che ricevono i cubani grazia al CAA costituiscono una forma di favoritismo sui generis, nel senso che non si tratta di un gioco a somma zero, in cui quel che gli uni perdono gli altri lo guadagnano.
I vantaggi che i cubani ricevono grazie a questa legge non finiscono per beneficiare altri immigrati caraibici e latinoamericani che non possono beneficiare del CAA, e la sua abrogazione non farà assolutamente nulla per aumentare la possibilità di ottenere diritti di residenza o amnistia per qualsiasi altro gruppo di lavoratori senza documenti, né aumenterà in alcun modo la quantità di emigranti cui sarà permesso di entrare da altri paesi. Data infatti la nuova ostilità verso il CAA da parte dei membri del Congresso che fanno parte della destra cubano-americana, è assai probabile che il CAA venga abrogato, o privato dei suoi aspetti principali, senza che il Congresso nordamericano faccia un qualche passo verso un’integrale riforma delle leggi d’immigrazione.
È per questo che dovremmo garantire che il CAA continui a rimanere in vigore. Invece di insistere sulla sua abrogazione e sul ridimensionamento di questa legge, i progressisti dovrebbero, come punto di partenza verso un movimento per una politica di frontiere aperte, fare pressioni per estendere privilegi e vantaggi di questa legge ad altri immigranti.
Un buon luogo per cominciare sarebbe Haití – paese vicino a Cuba e uno dei più poveri dell’emisfero occidentale. A parte l’opprimente povertà che vi regna, gli haitiani che arrivano negli Stati Uniti non ottengono i vantaggi concessi ai cubani emigrati. Per motivi politici, economici e umanitari – insieme a tanti altri –meritano lo stesso trattamento dei cubani.