Si è riacceso improvvisamente il dibattito sui bilaterali. E, come sempre in questi casi, la memoria fa difetto e i diversi piani vengono , spesso ad arte, confusi. Vale la pena, dunque, cercare di fare un po’ di chiarezza.
Oggi, nessuno osa più contestare il fatto che i salariati di questo paese (e non parliamo solo del Ticino) siano, se così possiamo dire, sotto attacco. Un attacco iniziato molto tempo fa e di cui la liberalizzazione del mercato del lavoro, messa in atto a seguito degli accordi bilaterali, è uno degli aspetti centrali. Non si tratta di un “incidente” di quel “percorso di successo” che sarebbero stati, come si ama spesso ripetere, i bilaterali per il nostro paese. No, era evidente fin dall’inizio che gli accordi bilaterali e la conseguente liberalizzazione del mercato del lavoro volevano ottenere proprio una diminuzione dei livelli salariali, un spinta verso il basso (il dumping, come si dice), nella prospettiva di abbassare sempre di più il costo del lavoro così da rendere più competitiva l’economia nazionale. Era e resta questa la strategia padronale.
Di fronte a questo progetto vi furono sostanzialmente due opposizioni. La prima, di destra (quella UDC – Leghista ), che mise l’accento sulla difesa della nazione contro l’Invasione straniera, nella più classica tradizione della propaganda nazionalistica, insensibile a qualsiasi questione relativa alle condizioni di vita e di lavoro dei salariati, qualsiasi fosse la loro nazionalità.
La seconda opposizione venne da sinistra, fu animata sostanzialmente dall’MPS e dalla corrente sindacale di sinistra che (soprattutto all’interno del SEI e poi di UNIA) faceva capo ad alcuni suoi esponenti. Essa rivendicava il principio della libera circolazione quale diritto fondamentale di ogni essere umano (lo stabilisce anche la dichiarazione dei diritti dell’uomo), ritenendo tuttavia che, in mancanza di diritti politici e sociali più forti per tutti (svizzeri e immigrati), il conclamato principio della libera circolazione altro non sarebbe diventato che una ulteriore liberalizzazione di un mercato del lavoro, già di per sé poco regolato.
In particolare ritenevamo che le cosiddette misure di accompagnamento non fossero misure di protezione dei salariati contro la “concorrenza” di una nuova massa enorme di manodopera che si sarebbe riversata sul mercato del lavoro; ma, piuttosto, le misure di accompagnamento avrebbero accompagnato la politica di dumping salariale, sarebbero diventate lo strumento attraverso il quale regolare e generalizzare, ad un livello assai più basso rispetto ai salari effettivamente versati, le condizioni salariali e di lavoro negli anni successivi.
Una dimostrazione eclatante di questo orientamento l’abbiamo in Ticino, dove oramai vigono – legalmente validi – salari fissati da 14 contratti normali di lavoro (uno degli strumenti previsti dalle misure di accompagnamento) che si attestano sui 3’000 franchi mensili (36’000 franchi lordi all’anno, quelli che I Verdi vorrebbero diventassero generali con la loro discutibile iniziativa). E che rappresentano, come abbiamo a più riprese denunciato, un incoraggiamento al dumping, una vera e propria promozione statale del dumping.
A queste due opposizioni di sinistra e di destra ai bilaterali, tenne testa il blocco formato dai partiti borghesi tradizionali e dai social-liberali, i Verdi (Savoia compreso) e le direzioni sindacali. Un blocco che (se si eccettua la votazione del 2005 nella quale il SEI Ticino – per le ragioni sopra esposte – svolse una campagna per il No), si ripropose, a difesa dei bilaterali, ancora nella più recente votazione, quella del febbraio 2009. Ricordo ancora che, proprio al dibattito finale televisivo, dovetti confrontarmi con Saverio Lurati, allora segretario regionale di Unia ed esponente social-liberale, che difendeva il SI.
Ora social-liberali pentiti e sindacalisti disperati tentano di correre ai ripari di fronte al disastro. Gli uni per ragioni puramente elettorali. Pensano che aderendo alle tesi xenofobe (del tipo “prima i nostri”) possano riguadagnare consensi elettorali (tipico esempio, i Verdi di Sergio Savoia, ma anche in casa social-liberale si è da tempo giunti a queste posizioni).
I sindacalisti invece hanno perso, ammesso che negli ultimi anni l’abbiano avuto, il controllo e la visione delle realtà produttiva e di quanto i lavoratori subiscono. C’è voluta un conferenza stampa dell’Associazione padronale per rendere pubblica la qualità e la quantità dell’attacco al quale sono sottoposti i salariati del settore industriale del Cantone. Così, invece di riprendere la via di un sindacalismo di classe che parta dalla quotidianità dei lavoratori e punti ad unirli e a mobilitarli, decidono di abbracciare proprio le posizioni di coloro che vogliono dividere ulteriormente i salariati, alimentando sentimenti xenofobi e di concorrenza tra salariati. Fare oggi campagna in favore di un non meglio definito “congelamento dei bilaterali” altro non significa che spianare la via a UDC, Leghisti e loro alleati vari, che su questa posizione campano e camperanno ancora per molto.
Capisco che l’altra via, quella di un’opposizione non ai bilaterali, incomprensibile e piena di pericolosi equivoci, ma al dumping salariale, sul terreno e con una politica sindacale diversa, sia molto più faticoso e rappresenti una prospettiva di lunga durata. Capisco pure che intraprendere questa via significherebbe pure fare autocritica sulla politica di accompagnamento del dumping al quale le direzioni sindacali (compresi quelli che adesso sbraitano contro i bilaterali) hanno fortemente contribuito, ad esempio sostenendo tutti quei vergognosi salari a 3’000 franchi mensili emanati dalle commissioni tripartite. In questi ultimi anni i Borelli, i Ghisletta ed i Pestoni di turno hanno sempre difeso l’operato delle loro direzioni sindacali e del loro partito di riferimento (di cui sono stati eminente rappresentanti), hanno difeso quei risultati negoziali in materia di misure di accompagnamento sulla base dei quali si giustificava il sostegno ai bilaterali, hanno difeso la messa in vigore di salari minimi inaccettabili. Non li si è sentiti, non hanno scritto, non hanno protestato né pubblicamente, né all’interno delle loro organizzazioni. Certo, si può cambiare opinione; ma dichiarare oggi la necessità di congelare i bilaterali è più o meno come, a guerra ormai praticamente finita, fare campagna contro l’entrata in guerra! Per di più essendo stati, all’epoca, interventisti!
Ma queste sparate sono solo dei miserabili espedienti per tentare di crearsi un’immagine elettorale (in vista dei prossimi appuntamenti) o per tentare di dimostrare che il sindacalismo esiste ancora e che l’enorme apparato di amici, famigliari e conoscenti che sono chiamati a farne parte abbia ancora una qualsivoglia funzione da svolgere a difesa dei salariati.
Articolo apparso sul Corriere del Ticino