Negli ultimi tre-quattro anni ho partecipato, come insegnante, praticamente a quasi tutte le riunioni che il sindacato VPOD, diretto da Raoul Ghisletta, ha indetto. Ho partecipato alle riunioni del gruppo insegnanti (che credo conti più di 400 iscritti); ho poi partecipato anche ad un paio di riunioni del gruppo dei funzionari del cantone.
Alcune erano assemblee con importanti temi all’ordine del giorno, in alcune addirittura si eleggevano i comitati di sezione e i rappresentanti dei gruppi in seno ai vari organismi (comitato di sezione, assemblee dei delegati, etc). Ebbene, in nessuna di queste assemblee, i presenti (tralasciando i funzionari, gli invitati, etc.) hanno superato le 15 unità. In una di queste assemblee era addirittura stata invitata la responsabile delle risorse umane del Cantone per illustrare il progetto di nuova scala dei salari. Mi chiedo cosa deve aver pensato di fronte ad una controparte che riesce a mobilitare, per un’assemblea informativa, una decina di persone. Sicuramente le sue convinzioni sui reali rapporti di forza tra lo Stato imprenditore e i sindacati saranno ora più precise e realistiche!
Racconto tutto questo poiché mi pari illustri assai bene quanto profonda sia la crisi del movimento sindacale (si fa per dire movimento, visto il suo totale immobilismo); una crisi di militanza, di capacità d’azione, di rappresentanza che oggi vive il sindacalismo in questo paese. Ho parlato della VPOD, ma il discorso potrebbe benissimo essere allargato anche alle altre federazioni sindacali (appartenenti all’USS o alla stessa OCST). Nel settore dell’edilizia, ad esempio, le organizzazioni sindacali non solo non riescono ad ottenere risultati concreti, ma nemmeno ad obbligare il padronato a sedersi attorno ad un tavolo (è successo per gli adeguamenti salariali alla fine degli ultimi due anni, rischia di succedere, di fatto, anche per il rinnovo del Contratto nazionale dell’edilizia).
Questa situazione ha conseguenze chiare sullo stato d’animo e sul modo di ragionare di chi dirige le organizzazioni sindacali. Così, si cerca di esorcizzare questa crisi sempre più profonda, che vede nella difficoltà e incapacità a mobilitare i lavoratori il problema di fondo, attraverso fughe in avanti, in pseudosoluzioni che dovrebbero, nel ragionamento di costoro, permettere di difendere meglio gli interessi dei salariati, di opporsi al dumping, alla precarietà, ai fenomeni di degrado della condizione lavorativa che tutti conosciamo e che, per la verità, sono comuni anche a regioni che non sanno cosa siano i frontalieri.
L’esempio della VPOD tuttavia mostra assai bene come questa crisi di rappresentanze sindacale non possa essere in nessun caso legata alla libera circolazione, né tantomeno alle conseguenze del dumping salariale. Infatti nel settore pubblico (insegnanti, impiegati, etc.) non vi è nessuna forte concorrenza, nessuna presenza di lavoratori che temono di mettersi in gioco per paura di perdere un posto di lavoro sicuro in un contesto difficile, etc. Appare perlomeno discutibile sostenere che la mancanza di mobilitazione possa essere il risultato della presenza di lavoratori frontalieri ed abbia in questo modo contribuito a sviluppare precarietà, dumping e tutti i fenomeni che vengono denunciati.
Ancora meno autorizzati ad esprimere un orientamento di questo tipo ci sembrano i sindacati dell’edilizia (OCST e UNIA) dove la presenza di lavoratori frontalieri, maggioritari, è una costante ormai da almeno trent’anni se non di più. Eppure in questo settore, e nemmeno moltissimi anni fa, si sono scritte pagine importanti in materia di mobilitazione operaia e sindacale. Il Ticino ha visto per anni sfilare i lavoratori dell’edilizia nelle strade, li ha visti scioperare, battersi per le loro rivendicazioni: ed erano, nella stragrande maggioranza, lavoratori stranieri e frontalieri. Si è potuto ottenere, attraverso una rinnovata e combattiva azione sindacale – soprattutto fino alla metà degli anni 2000, un costante miglioramento della condizioni di lavoro. Ricordo, ad esempio, il pensionamento anticipato a 60 anni.
Oggi tutto questo, sia nel settore pubblico che in quello privato, appare superato. E le organizzazioni sindacali, di fronte a queste difficoltà, scelgono le scorciatoie. Pensano che andando a colpire i diritti di una parte dei lavoratori (congelare il diritto alla libera circolazione significa questo) sia possibile difendere meglio quelli che restano. Pensano che introducendo contingenti (raggiungendo quindi la posizione della più volte denunciata iniziativa UDC : perché “congelare la libera circolazione”, gira e rigira, significa questo) riusciranno ad aumentare il loro peso negoziale e a difendere meglio tutti gli altri.
Non si rendono conto che contribuiscono, con tali discorsi, a scavare un solco sempre più profondo tra “indigeni” e frontalieri, ad aumentare quella divisione tra salariati che è il peggiore veleno che instillano UDC e Lega non solo perché sono partiti xenofobi, ma anche (e forse soprattutto) perché sono partiti filo padronali. Non capiscono che non ci sono scorciatoie ad un paziente, lungo e difficile lavoro di ricostruzione sindacale. Un lavoro che passa attraverso una ridefinizione degli orientamenti sindacali, attraverso una ripresa del lavoro sul terreno, attraverso la capacità di riguadagnare la fiducia dei salariati senza la quale non esiste sindacalismo degno di tale nome. Oggi il movimento sindacale, se vuole essere degno di questo nome, deve ripensare anche il suo modo di funzionare, sempre più burocratico e dispendioso.
E che una politica “sindacale” diversa sia possibile è necessaria lo dimostra, ad esempio, il settore della scuola. Un settore nel quale la VPOD, colpita dalla sindrome del consigliere di Stato amico, non fa che perdere consensi tra gli insegnanti (e non si venga con i dati delle adesioni: un sindacato non è una società di pescatori!) sempre più “delusi” (usiamo un eufemismo) dalla politica del DECS di Manuele Bertoli. Questo in un contesto in cui sui temi della qualità e del funzionamento della scuola, della professionalità del docente, delle sue condizioni di lavoro (temi squisitamente sindacali) altre forze riescono a mobilitare molti docenti, a farli partecipare attivamente alle loro azioni (pensiamo, ad esempio, al Movimento della scuola). Ancora una volta, si tratta di un problema di credibilità sindacale.
Ora, come abbiamo detto, non vi sono dubbi che questa credibilità sia fortemente scemata. Pensare di recuperarla con scorciatoie come quelle proposte in queste ultime settimane da Ghisletta e soci non solo è illusorio; è, sindacalmente e politicamente parlando, anche un po’ criminale!
*articolo apparso sul La Regione